Detenuti minori intrappolati tra falle normative e pratiche abusive

Foto tratta da Pixabay – Licenza CC con attribuzione

Il 20 gennaio scorso, un gruppo di miliziani dell’ISIS ha preso d’assalto il carcere di Ghwayran, situato nel Nord-Est della Siria, dove erano reclusi oltre 3.000 sospetti militanti di organizzazioni islamistiche armate.

All’interno della prigione, si trovavano (e si trovano tuttora) circa 850 bambini siriani, iracheni e di altre 20 nazionalità. Alcuni di appena 12 anni. Tutti incarcerati – ormai da lungo tempo – senza previa formulazione a loro carico di un capo d’imputazione.

Il carcere siriano di Ghwayran – esempio perfetto di tutto ciò che non dovrebbe mai verificarsi nelle ipotesi di detenzione minorile – non rappresenta purtroppo un’eccezione nel panorama mondiale. Da Nord a Sud del globo, infatti, troppi bambini/adolescenti sono detenuti per le ragioni più disparate e in condizioni del tutto inadeguate alla loro giovane età.

Data la mancanza di dati univoci, non risulta semplice chiarire con esattezza la portata del fenomeno. Il Global Study ONU sui “bambini privati della libertà”, del 2019, stimava in 410.000 il totale dei giovani detenuti ogni anno nell’ambito dell’amministrazione della giustizia penale. Da tale computo erano esclusi 1 milione di minori in fermo di polizia. Secondo l’ultimo report Unicef, invece, sarebbero 261.000 i bambini tuttora in stato detentivo.

Occorre subito precisare che l’incarcerazione di un minore a seguito della commissione di un reato ovvero di una sentenza di condanna non è vietata da nessuna legislazione statale né dal diritto internazionale.

La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC) interviene però a disciplinare modalità e tempistiche della detenzione al fine di garantire “l’interesse superiore del bambino“, principio portante dell’intero impianto normativo in esame.

In base a quanto stabilito dall’art. 37, la detenzione costituisce “una misura di ultima istanza” e di “durata più breve possibile”.

Gli Stati, inoltre, hanno l’obbligo di trattare il bambino con umanità, tenendo conto “delle esigenze delle persone della sua età”. Ciò significa, in particolare, che il minore “sarà separato dagli adulti” e “avrà il diritto di rimanere in contatto con la sua famiglia per mezzo di corrispondenza o di visite”. Infine, dovrà essergli assicurato il diritto di “avere accesso rapido a un’assistenza giuridica”.

Il tenore della norma lascia davvero pochi spazi interpretativi. Ciononostante, le legislazioni e le prassi statali presentano spesso lacune e incongruenze tali da determinare la possibilità che il minore non solo entri in conflitto con legge ma finisca dietro le sbarre.

In buona sostanza, gli Stati – non tutti ovviamente – anziché proteggere i giovani, “creano” le circostanze per spedirli in prigione. Poveri, emarginati, svantaggiati corrono i pericoli maggiori.

L’eccessiva criminalizzazione del minore può derivare da due fattori essenziali: l’età per l’imputabilità e il cosiddetto “reato di status”.

In merito al primo punto, nel silenzio della Convenzione sui diritti dell’infanzia, il relativo Comitato ha incoraggiato gli Stati parti a fissare l’età minima per il sorgere della responsabilità penale a 14 anni.

In 68 ordinamenti statali, tra cui quello italiano, tale età oscilla tra i 14 e i 16 anni. Sono prevalenti, però, gli ordinamenti nei quali varia dai 13 agli 8 anni. Stati Uniti, Cuba, Mauritius non prevedono affatto un’età minima.

Ora, più si abbassa l’età per l’imputabilità penale, più si alza il rischio che bambini davvero molto piccoli privi di un adeguato sviluppo psicofisico vadano in galera e scontino le medesime pene – altrimenti vietate dal diritto internazionale (art. 37, comma 1, CRC) – previste per gli adulti. In particolare: ergastolo e pena di morte.

In Iran – dove l’età minima è 8 anni – la pena capitale non è rara per i giovani rei. Teheran è stato più volte “ripreso” dalle Nazioni Unite nonché “invitato“a rispettare i suoi obblighi internazionali senza però alcun risultato.

Età minima per la responsabilità penale. Foto tratta da Wikimedia – Licenza CC

Per “reato di status” si intende un’azione vietata al minore in quanto tale. Il medesimo atto, infatti, non costituisce reato se posto in essere da un adulto. Qui, il ventaglio di ipotesi concrete risulta alquanto ampio e coinvolge diverse dimensioni del comportamento infantile/adolescenziale.

In Ruanda, le autorità di polizia ricorrono con una certa frequenza ad arresti e detenzioni arbitrarie dei “bambini di strada”, mal tollerati da istituzioni e società. La “scusa” ufficiale è di volerli riabilitare. In realtà, vengono solo sbattuti in prigione e trattati in maniera disumana e degradante. “Quando sono arrivato al centro detentivo di Gikondo, una guardia mi ha colpito con un bastone sulla schiena“, ha riferito un 15enne a Human Rights Watch. “Mi ha chiesto dei soldi. Non ne avevo. E allora ha affermato: non servi a niente anche se vivi qui e godi dei benefici del nostro Paese“.

In Arabia Saudita, le ragazze possono essere arrestate e condannate per aver fatto sesso con un coetaneo all’interno di una relazione consensuale. Il sesso giovanile è infatti considerato “improprio” ma solo se praticato dalle donne.

Ancora, in Cambogia, Cina, Laos, Vietnam, i bambini vengono privati della loro libertà personale a causa dell’uso di alcol e droghe perché mancano programmi e strutture per la disintossicazione.

I giovani carcerati spesso patiscono situazioni abusive nonché lesive di una vasta gamma di loro diritti fondamentali, quali: il diritto all’integrità fisica e psicologica, all’istruzione, al lavoro, alla salute.

Nel 2016, Four Corner – programma australiano di giornalismo investigativo trasmesso dalla ABC – denunciava i gravi abusi perpetrati dalle guardie carcerarie nei confronti dei bambini della prigione minorile di Don Dale in Australia. Atti di tortura e trattamenti inumani paragonati, da più parti, alle terribili pratiche utilizzate contro i prigionieri di Guantánamo e Abu Ghraib.

La violenza è una costante anche in molte carceri degli Stati Uniti, dove i minori autori di reati gravi vengono trattati alla stregua degli adulti e reclusi in strutture carcerarie per adulti. Migliaia di giovani, nel corso degli anni, sono stati aggrediti, abusati, stuprati. “L’idea di subire abusi sessuali in carcere è ormai talmente tanto radicata nella cultura americana che si presume faccia parte della pena. Ma non è affatto così”, ha spiegato Carmen Daugherty – direttrice delle politiche presso Youth First Initiative.

La situazione non è poi tanto diversa in altri Stati. Le carceri di Bahrein, Brasile, Egitto, Gran Bretagna, Iraq, Israele, Filippine – per citare alcuni esempi – restituiscono storie di giovani umiliati e disumanizzati.

In prigione non ti fanno sentire un essere umano. Venivamo trattati come animali“, ha raccontato a Save the Children una quindicenne palestinese detenuta in un carcere israeliano.

Spesso non potevamo fare la doccia o cambiarci i vestiti. E i prigionieri in isolamento venivano incatenati al letto“. La testimonianza di un sedicenne bahreinita è riportata da Al Jeezera, che lo scorso anno ha condotto un’inchiesta nel Paese arabo.

L’esperienza carceraria può dunque trasformarsi in un percorso traumatico senza ritorno al punto da spingere i minori a compiere atti di autolesionismo o addirittura suicidarsi.

Non a caso, nel contesto europeo, da oltre un decennio, il Consiglio d’Europa promuove il modello di giustizia “child friendly, tesa a garantire l'”interesse superiore del minore” in ogni fase del procedimento penale.

La giustizia a misura di bambino presuppone, da un lato, l’esistenza di apparati giudiziari riservati in via esclusiva ai minori e quindi distinti da quelli degli adulti. Dall’altro, la presenza di misure alternative al carcere in un’ottica di valutazione individuale del bambino/adolescente in base alla sua specifica condizione personale e alla tipologia di crimine perpetrato.

Del resto, lo scopo della giustizia minorile dovrebbe essere sempre riparativo e mai punitivo. Orientato, cioè, alla riabilitazione e al reinserimento nel tessuto sociale.

Sotto questo profilo, il sistema italiano di giustizia minorile è stato definito dalle Nazioni Unite come “un esempio promettente, proprio perché concepito per proteggere i “bisogni speciali” dei giovani che entrano in contatto con il circuito penale.

Per approfondire il contesto delle carceri minorili italiane, Voci Globali ha incontrato il dottor Alessio Scandurra – Coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone.

L’Associazione ha pubblicato, lo scorso 11 febbraio, il VI Rapporto sugli Istituti Penali per Minori (IPM), dal quale emerge un quadro senz’altro più interessante rispetto agli anni precedenti.

Insieme al report, è stato presentato anche il progetto “Keep it trill: una serie in 4 puntate per raccontare – attraverso la voce del rapper Kento – le carceri minorili dal punto di vista dei detenuti stessi. Un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto a una tematica che, seppur di rilevanza sociale, risulta sempre poco notiziabile e scomoda da trattare.


Video tratta dal canale YouTube dell’Associazione Antigone

Dottor Scandurra, partiamo dai numeri. Quanti sono attualmente i minori detenuti nelle carceri italiane? È maggiore la presenza femminile o maschile? E quali i reati prevalenti per cui vengono condannati?

Al 15 gennaio 2022 i minori e giovani adulti detenuti negli IPM italiani erano 316, di cui 8 ragazze per la metà straniere. Complessivamente gli stranieri erano 140.

Riguardo ai reati, gli ingressi – nel corso del 2021 –  hanno visto una netta prevalenza dei delitti contro il patrimonio (54%). Questa percentuale sale al 60% per gli stranieri e addirittura al 73% per le ragazze.

Mentre, i crimini contro la persona – di solito puniti con pene più severe – sono in media all’origine del 20% degli ingressi. In tal caso, la percentuale scende al 18% per gli stranieri e all’8% per le ragazze. I reati violenti dunque sono marginali in IPM.

I dati quantitativi e i report – sebbene importanti – non danno contezza di come si viva davvero all’interno delle carceri. In altre parole, che tipo di difficoltà e sfide si trovano ad affrontare i minori rei durante la loro permanenza in prigione?

Le sfide sono molteplici, non solo per i giovani detenuti ma anche per gli operatori che li accompagnano nella loro esperienza.

L’aspetto più difficile per i ragazzi è sempre la separazione dai propri affetti. Non tutti hanno una vera famiglia alle spalle, molti sono cresciuti per strada. Ma comunque tutti lasciano fuori qualcuno a cui sono affezionati. La lontananza è sempre dolorosa.

Da questo punto di vista, il maggior numero di telefonate e videochiamate concesse dall’inizio della pandemia sono state di grande aiuto. Motivo per il quale ci auguriamo che vengano mantenute.

Per gli operatori, invece, la sfida principale è riuscire ad offrire ai ragazzi percorsi e opportunità in grado di stimolarli e coinvolgerli. Non è sempre facile anche perché per molti di loro, fortunatamente, il passaggio in IPM rappresenta “solo” una breve tappa lungo un percorso destinato a svolgersi altrove, ovvero nelle comunità e sul territorio.

La riforma della giustizia minorile del 1988 ha reso il carcere uno strumento del tutto residuale. Il giudice italiano può quindi adottare nei confronti di un minore autore di reato diverse misure alternative alla detenzione, tra cui: l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà. Visto dall’esterno, il circuito penale minorile appare quasi “virtuoso”. Ma è davvero così o sussistono criticità “nascoste” ai non addetti ai lavori?

Il ricorso alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario e comuni anche agli adulti risulta tutto sommato alquanto limitato. Con la riforma dell’88 il sistema si è, infatti, dotato di strumenti propri, pensati apposta per i minori e i giovani adulti (messa alla prova e comunità). È innegabile che questi strumenti abbiano funzionato. I numeri lo testimoniano. Tuttavia alcuni problemi continuano a esistere.

Finire in IPM, ad esempio, è ancora molto più frequente per gli stranieri rispetto agli italiani, soprattutto per le ragazze.

In generale, negli IPM – usati come extrema ratio – arrivano i casi più difficili laddove la complessità non è determinata dalla gravità del reato commesso. Si tratta, invero, di minori provenienti da esperienze di maggiore sradicamento ed esclusione sociale.

Questi ragazzi non hanno molte esperienze o strumenti di vita “ordinari”. Di conseguenza, faticano ad adeguarsi a percorsi aperti e meno contenitivi. Hanno bisogno di più tempo e il passaggio in IMP può costituire uno degli scenari possibili.

Un’ulteriore criticità è legata alla notevole disparità di età tra i ragazzi che si trovano in IPM. Stiamo parlando di giovani tra i 14 e i 24 anni. Avendo bisogni profondamente diversi risulta quasi impossibile creare gruppi omogenei.

Forse è davvero il caso di cominciare a pensare al definitivo superamento dell’IPM per i più giovani, vietandolo per legge.

Durante la presentazione dell’ultimo Rapporto, l’Associazione Antigone ha lanciato la proposta di un codice penale per minori. Può spiegarci quali sono le ragioni che renderebbero necessaria l’adozione di un corpo di norme penali ad hoc?

Da quanto finora detto, è emerso come il sistema della giustizia minorile abbia elaborato un notevole livello di specificità e autonomia rispetto a quello degli adulti. Questo è avvenuto grazie all’adozione, in passato, di un codice di procedura penale ad hoc.

Resta però il fardello, e il controsenso, di applicare ancora il codice penale degli adulti. Un corpo normativo – risalente addirittura al ventennio fascista – che per molti aspetti non è più adatto alla nostra società nemmeno per i reati commessi dagli adulti, figurarsi per quelli perpetrati dai minori.

La riforma del 1988 ha comportato un cambio di paradigma. L’interesse superiore del minore è ora posto al centro del sistema di giustizia giovanile. Il suo diritto a essere educato e sostenuto prevale sulla necessità di punirlo. Il codice penale attuale non riflette affatto questo approccio.

In base alla sua esperienza, per i giovani ex detenuti che futuro si prospetta oltre le sbarre?

Ai ragazzi che passano dagli IPM si cerca di garantire lo stesso futuro dei loro coetanei. Una volta fuori però non è sempre facile affrontare e superare i pregiudizi, la marginalità, l’esclusione.

Occorre un grande impegno da parte della società nel suo complesso, del sistema di welfare nazionale e locale, scuola, famiglia (laddove c’è), comunità. Una sfida, inutile negarlo, che a volte non viene raccolta. E i ragazzi trovano tante porte chiuse.

Oggi rispetto al passato, il sistema della giustizia minorile cerca di contribuire a questo sforzo, lavorando in maniera integrata con tutti i servizi pubblici impegnati in tale direzione.

Resta ancora molto lavoro da fare per arrivare a garantire a tutti i ragazzi – compresi gli ex detenuti e quelli tuttora in carcere – il tipo di sostegno e di opportunità che noi giudichiamo dovuto ai nostri figli.

Tiziana Carmelitano

Autrice freelance, si occupa in particolare di temi globali nonché di violazioni dei diritti umani in contesti conflittuali, post-conflittuali e in situazioni di "Failed States". Con un occhio di riguardo per donne, bambini e giustizia transitoria. Il tutto in chiave prevalentemente giuridica. Convinta che la buona informazione abbia un ruolo decisivo nell'educazione al rispetto dei diritti fondamentali e delle diversità.

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