Cioccolato, un piacere che nasce da storie antiche e da ingiustizie

Puro, bianco, al latte, o anche nella nuovissima variante Ruby, il cioccolato è ciò che da sempre riesce a mettere d’accordo tutti i palati. Dalla sua antica scoperta ai giorni nostri, esso è stato sacra merce di scambio, veicolo di sentimenti e piacevole alleato della nostra salute. Oggi muove un mercato di miliardi di dollari in tutto il mondo ed è in continua crescita, eppure, risalendo a ritroso le fasi della sua produzione, emerge quanto sia amara la realtà dietro il nostro semplice gesto di acquistarlo, condividerlo, consumarlo.

Il termine cioccolato deriva da Cacahuatl, parola utilizzata dagli Aztechi per indicare una bevanda a base di cacao comunemente consumata dalla popolazione. Prima di loro sono stati i Maya ad aver scoperto e diffuso l’uso e la coltivazione di questo seme degli dei nell’America Centrale. Anch’essi, come noi in alcuni contesti, gli attribuivano un valore sociale, impiegando i semi durante i cerimoniali e come moneta per pagare i tributi all’imperatore. Con la conquista del nuovo mondo da parte degli Europei il cacao approda nel vecchio continente, dove eliminando il pepe e il peperoncino (utilizzati dagli indigeni) e con l’aggiunta di zucchero, la bevanda “cioccolata” conquista i nobili dei caffè e dei salotti. Da qui, la lavorazione del cacao si avvia verso sempre nuovi processi di trasformazione e innovazione fino a diventare una tra le più importanti materie prime commercializzate in tutto il mondo.

La genesi di questo oro dolce, dunque, è il seme o fava di Cacao, che cresce direttamente sul tronco dell’albero in zone calde e umide della fascia tropicale. Una volta raccolte manualmente, le fave interne ai frutti vengono depositate a terra ancora avvolte dalla bianca polpa, coperte da foglie di banano e lasciate per alcuni giorni per la fase della fermentazione. Terminata, i semi vengono essiccati al sole e continuamente rigirati, per assicurare omogeneità nel processo. Una volta essiccate, le fave sono raccolte in sacchi e pronti a partire per essere lavorate in giro per il mondo.

Fave di cacao. Foto di Manuel Ignacio da Flickr con licenza Creative Commons

Attualmente la coltivazione di cacao è esclusiva delle zone umide di America Latina, Asia e Africa. Proprio quest’ultima detiene il primato: Costa d’Avorio e Ghana, in particolare, sono i primi produttori al mondo di cacao, contando circa il 50% del volume totale. La catena della produzione e della distribuzione dei preziosi semi, da qui, parte dando il via ad un commercio i cui stadi si alternano in modo tortuoso e poco trasparente, in cui le tracce dei produttori e dell’origine della filiera si disperdono.

La compravendita di cacao avviene essenzialmente in due modi: il primo è il mercato fisico, in cui il prezzo è stabilito secondo quantità, qualità, periodo di consegna e destinazione del prodotto, le sue fluttuazioni dipendono essenzialmente dalle condizioni del Paese produttore e dai dazi applicati.

Dall’altro lato c’è, invece, la vendita del cacao virtuale, che si svolge lontano dai campi coltivati, in borsa. Qui il prezzo è contrattato e stabilito in base alle borse di Londra e New York e si muove per buona sostanza attraverso commodity futures: cioè i termini dello scambio sono fissati in precedenza e su un dato periodo di tempo; in questo tipo di mercato non si tiene conto della qualità e della quantità della materia prima, ma solo del prezzo stabilito. A questo livello, che costituisce la gran parte degli scambi, avvengono le speculazioni maggiori, a spese dei coltivatori.

Infatti, il cacao viene coltivato soprattutto da piccoli e medi agricoltori e comprato in alte percentuali da poche grandi multinazionali dell’industria cioccolatiera, concentrate in Europa e Stati Uniti: nel mezzo tra i processi di coltivazione e quello di trasformazione c’è un grosso imbuto di intermediari, costituiti da traders internazionali, commercianti di cacao e commodities che acquistano direttamente la materia prima ai prezzi di mercato stabiliti sulle principali borse. La catena di approvvigionamento diventa così complessa e dispersiva, lasciando indietro i produttori diretti della materia prima e affidando ai colossi dell’industria dolciaria un’enorme percentuale di profitti.

La filiera della povertà: dove i primi sono gli ultimi

La logica del mercato del cacao, dunque, rende molto difficile risalire ai produttori nei Paesi tropicali, lasciando sotto estese zone d’ombra le reali condizioni alle quali  il cioccolato viene prodotto. Le medie e piccole collettività di coltivatori sono spesso a conduzione familiare: a loro spetta appena il 6,6% del ricavo totale su barretta di cioccolato. Questa condizione di precarietà conduce in un circolo vizioso in cui è coinvolto in maniera importante il lavoro minorile.

Le famiglie di coltivatori, infatti, ricorrono alla manodopera infantile per abbassare i costi e, nonostante in gran parte si tratti di bambini che lavorano in contesti familiari, l’1% di essi sono emigrati o, peggio, vittime dei traffici dai Paesi limitrofi. Il fenomeno del lavoro minorile è particolarmente marcato proprio nei paesi africani. Studi dimostrano che circa 1,6 milioni di bambini lavorano nella produzione di cacao: buona parte di questo lavoro è altamente rischioso per la salute, perché prevede da parte dei minori l’impiego di machete e altre armi affilate per raccogliere i frutti e la continua esposizione al largo uso di pesticidi fatto nei campi.

Bambini a lavoro nelle coltivazioni di cacao. Foto di Department of Foreign Affair da Google foto con licenza Creative Commons

Le coltivazioni di cacao all’ombra della sostenibilità

La crescita del mercato e del consumo di cioccolato, le condizioni precarie del lavoro dei coltivatori di cacao si accompagnano, nell’inasprire l’amarezza dietro ogni grammo, alla questione ambientale legata alle coltivazioni. Il problema, nello specifico, è legato alla deforestazione, cui si fa sempre più ricorso per far spazio a nuove coltivazioni. Si stima che circa il 90% delle foreste dell’Africa occidentale sia stato distrutto e, dalla fine degli anni Novanta, circa un quarto di foreste della Costa d’Avorio sia andato perduto per fare spazio alle coltivazioni.

Il dato più allarmante viene, dunque, dall’Africa Occidentale, proporzionalmente alla produzione delle fave, ma la deforestazione ha investito anche gli altri Paesi coinvolti nella produzione. Il fenomeno è una diretta conseguenza della forte disuguaglianza alla base della filiera: i coltivatori, vittime anche dei cambiamenti climatici, senza le capacità proprie e incentivi tecnologici adeguati per investire in una migliore resa del raccolto, si trovano costretti ad andare alla ricerca di nuove terre su cui espandere le proprie possibilità di profitto.

E come una disastrosa catena di eventi che ripiega su se stessa, la deforestazione comporta nuovi sconvolgimenti ambientali e climatici: l’assenza di foreste causa minori piogge e maggiori temperature, dando un contributo sostanziale alle emissioni. In merito, si stima che una barretta di cioccolato fondente da 200gr abbia lo stesso impatto ambientale di un auto guidata per circa 5 miglia.

Le criticità legate alla produzione e, soprattutto, all’iniquità del commercio del cacao hanno condotto nei decenni a un’ampia riflessione sulle strategie migliori da mettere in atto per arginare il problema che vede coinvolti ambiente, diritti umani e trasparenza dei mercati di entrambi gli emisferi del globo. Il nodo della questione sta nella gestione dell’intera catena di approvvigionamento, filtrata da eccessivi passaggi di mercato che lasciano in disparte i produttori diretti della materia prima.

Per questo, a livello internazionale alcuni tra i colossi dell’industria dolciaria hanno stretto accordi con i Paesi esportatori. Ne è il massimo esempio lInternational Cocoa Organization (ICCO), nata nel 1973 in seguito al primo Accordo Internazionale sul Cacao negoziato a Ginevra. Essa comprende 51 Paesi Membri sia esportatori che importatori, che insieme rappresentano il 92% dell’export e l’80% dell’import.

Con i vari accordi, ultimo nel 2010 ed entrato in vigore due anni dopo, si sigla la responsabilità verso la sostenibilità della filiera, con l’obiettivo di assicurare un guadagno più equo per i coltivatori, il non impiego di manodopera minorile e la sostenibilità ambientale della produzione. Ad esso si aggiungono anche l’impegno che i Paesi hanno preso con vari organismi come l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (soprattutto in merito al lavoro minorile) e negli accordi per la sostenibilità ambientale.

Parallelamente ad azioni politiche e governative sono nate negli anni filiere di mercato alternativo, per il cacao e non solo: il commercio equo e solidale. Il concetto nasce già intorno alla metà degli anni Ottanta e progressivamente si sviluppano i marchi che certificano lo sforzo verso un incontro trasparente ed equo tra produttore e acquirente. Oggi il più famoso è quello di Fairtrade International (nato nel 1997). La sua mission mira a garantire il pagamento di un prezzo minimo equo e stabile e in più un margine di guadagno da investire in progetti legati alle comunità locali.

Tuttavia, nonostante oggi siamo bombardati da impulsi ed etichette verdi che sembrano convincerci sull’onestà dei nostri acquisti, sono ancora tanti i problemi legati a questi aspetti prima elencati e anche la soluzione del commercio equo e solidale nasconde delle crepe dietro slogan rassicuranti.

Da un lato, infatti, le grandi multinazionali stanno progressivamente abbonando i riconoscimenti indipendenti per dotarsi di autocertificazioni interne, dall’altro spesso il cioccolato con il marchio Fairtrade fa riferimento solo al 20% degli ingredienti, poiché i prodotti dal commercio equo e solidale possono essere lavorati insieme a quelli che invece da esso non provengono.

La questione è ancora nella filiera: anche dietro questi progetti spesso non c’è trasparenza né un modo reale di raggiungere i piccoli produttori delle piccole imprese a conduzione familiare, che spesso non sanno neanche di essere inclusi in programmi di mercato alternativo. Anche le promesse fatte a livello internazionale restano in larga parte disattese per gli stessi motivi e i progressi fatti in merito alle condizioni lavorative, soprattutto minorile, sono minimi e non sufficientemente proporzionali alla mole del mercato e del problema.

A questo punto sembra obbligatorio riflettere sulle scelte possibili da parte dei consumatori. Sicuramente seguire i progetti di commercio equo e solidale ci restituisce in parte una garanzia; molte aziende dolciarie, inoltre, soprattutto se non legate alla grossa distribuzione,  seguono filiere impegnate e che riducono la mediazione di trader finanziari.

Diverse sono le possibilità di commercio alternativo proposto, in cui ancora il rapporto domanda/offerta avviene in maniera diretta. Diffusa sul territorio è ad esempio la realtà di Altromercato, inoltre un’interessante alternativa è offerta da Chocofair che in aggiunta all’azione di Fairtrade promuove anche un aspetto propositivo, investendo nella formazione del personale sulla scelta delle qualità di frutto da coltivare: questo permette di investire su fave pregiate e di offrire un cioccolato non solo equo ma anche di fattura superiore qualitativamente.

La possibilità del consumatore è, come sempre, nella scelta. Una scelta che sia uno sguardo nuovo. Uno sguardo oltre, che restituisca fino in fondo il valore sacro e sociale che attribuiamo alla dolcezza del cioccolato.

Vanna Lucania

Laureata in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, esprime con la parola scritta i suoi interessi per l'educazione, l'ambiente e l'Africa. Dal volontariato alle ONG coltiva l'obiettivo di "lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato".

2 thoughts on “Cioccolato, un piacere che nasce da storie antiche e da ingiustizie

  • Apri occhi mente e cuore di chi ti legge.
    Grazie e complimenti

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    • Metti luce su ogni cosa! Grande Vanna

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