2 Novembre 2024

Apartheid coloniale, il peggiore alleato del cambiamento climatico

[Traduzione a cura di Gaia Bugamelli dell’articolo originale di Harsha Walia pubblicato su openDemocracy]

Immagine da Flickr di ILO Asia-Pacific, licenza CC.

Non stiamo affogando, stiamo combattendo” è diventato lo slogan dei Pacific Climate Warriors. Dagli incontri sul clima delle Nazioni Unite ai blocchi dei porti carboniferi australiani, questi giovani paladini indigeni provenienti da venti Stati insulari del Pacifico, stanno lanciando l’allarme sul riscaldamento globale nelle nazioni costituite da atolli.

Rifiutando la narrativa della vittimizzazione – “non avete bisogno del mio dolore o delle mie lacrime per sapere che siamo in crisi“, per dirla con la samoana Brianna Fruean – sfidano l’industria dei combustibili fossili e giganti coloniali come l’Australia, responsabile delle più alte emissioni di carbonio pro-capite del mondo

Si aggira intorno a 25,3 milioni il totale delle persone costrette ogni anno ad abbandonare la propria casa a causa dei disastri climatici: una persona ogni 1-2 secondi. Nel 2016, il cambiamento climatico ha causato – rispetto alle persecuzioni – un maggior numero di sfollati, con un rapporto di 3:1. Si stima che entro il 2050 143 milioni di persone in Africa, Asia Meridionale e America Latina saranno costrette a spostarsi. Alcune proiezioni arrivano a parlare di un miliardo di persone.

Gli strumenti per mappare chi è più vulnerabile allo sfollamento mettono in luce il divario tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo, tra bianchi e neri, indigeni e altri gruppi razzializzati.

Sono queste stesse asimmetrie globalizzate del potere a incentivare la migrazione, ostacolando al contempo la mobilità. Le persone sfollate – le meno responsabili del riscaldamento globale – si trovano davanti confini militarizzati. E, mentre la crisi ambientale viene di per sé ignorata dalle élite politiche, la migrazione climatica viene presentata come un problema di sicurezza dei confini, nonché come una scusante per gli Stati ricchi per militarizzare le frontiere. Nel 2019, le forze di difesa australiane hanno annunciato pattugliamenti militari intorno alle loro coste, nel tentativo di intercettare i rifugiati climatici

Il dibattito sul tema della “sicurezza climatica” pone al primo posto il rafforzamento dei confini, traducendosi rapidamente in eco-apartheid. “Le frontiere sono il più grande alleato dell’ambiente; è soltanto sfruttandole che salveremo il pianeta“, dichiara il partito francese di estrema destra rappresentato da Marine Le Pen.

Un rapporto commissionato dal Pentagono sulle implicazioni che il cambiamento climatico avrebbe sulle questioni di sicurezza interna, lascia trasparire ostilità nei confronti dei rifugiati climatici: “Le frontiere saranno rafforzate in tutto il Paese per impedire l’accesso agli immigrati affamati e indesiderati provenienti dalle isole dei Caraibi (un problema particolarmente grave), dal Messico e dal Sud America“.

È recente la notizia del lancio da parte degli Stati Uniti dell’operazione Vigilant Sentry al largo della costa della Florida, e della quasi simultanea creazione della Homeland Security Task Force South East, con l’obiettivo di far rispettare l’espulsione e l’interdizione delle aree marine statunitensi in seguito ai disastri avvenuti nei Caraibi.

La migrazione di manodopera come mitigazione della crisi climatica

Hai spezzato il mare in due
per arrivare fin qui
Solo per scoprire che nessuno ti vuole.

(Nayyirah Waheed)

Parallelamente al rafforzamento dei confini, la migrazione di manodopera temporanea viene sempre più spesso propagandata come una strategia di adattamento al clima e ai suoi cambiamenti.

Come parte della Nansen Initiative, un progetto multilaterale promosso dallo Stato per far fronte al problema delle migrazioni indotte dal cambiamento climatico, il Governo australiano ha messo in piedi un programma con il quale contrattualizza lavoratori stagionali temporanei, considerandola la soluzione per costruire una resilienza al clima nella regione del Pacifico.

Non a caso l’annuncio da parte del Governo australiano riguardo la Nansen Initiative Intergovernmental Global Consultation non è stato rilasciato dal ministro dell’Ambiente, bensì dal Dipartimento dell’Immigrazione e della Protezione dei Confini.

A partire da aprile 2022, il nuovo programma Pacific Australia Labour Mobility renderà più facile per le imprese australiane assumere temporaneamente lavoratori “a basso salario” (quelli che il piano definisce lavoratori “scarsamente qualificati” e “non qualificati”) provenienti dai Paesi insulari del Pacifico, tra cui Nauru, Papua Nuova Guinea, Kiribati, Samoa, Tonga e Tuvalu.

L’elaborazione di un piano simile ha poco di sorprendente, se si pensa che molte delle ecologie e delle economie di questi Paesi sono già state devastate dal colonialismo australiano per oltre cento anni.

Non è un’anomalia che l’Australia stia convogliando i rifugiati climatici in un imbuto di migrazione lavorativa temporanea. A causa dell’ingovernabilità di flussi migratori crescenti e irregolari, dovuti in larga misura ai cambiamenti climatici, i programmi di migrazione per il lavoro stagionale rappresentano oggi un modello a livello mondiale di “migrazione ben gestita”.

Le élite presentano la migrazione di manodopera come una doppia vittoria: da un lato, i Paesi ad alto reddito soddisfano il loro bisogno di manodopera senza fornire un posto di lavoro sicuro o la cittadinanza, e dall’altro i Paesi a basso reddito alleviano così il proprio impoverimento strutturale tramite le rimesse dei migranti.

I lavori pericolosi e scarsamente retribuiti, come quelli agricoli, domestici e di manutenzione, che non possono essere esternalizzati, sono ora quasi interamente assorbiti in questo modo. L’insourcing e l’outsourcing non rappresentano altro che due facce della stessa medaglia neoliberale: da un lato il lavoro deliberatamente svalorizzato e dall’altro il potere politico.

Da non confondere con la libertà di muoversi oltre i confini, la migrazione temporanea della forza lavoro rappresenta il quadro concettuale neoliberale entro il quale risolvere il quartetto che comprende: politica estera, del clima, dell’immigrazione e del lavoro, tutte strutturate per espandere le reti di accumulazione del capitale attraverso la creazione e il controllo di surplus umano

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro riconosce che i lavoratori migranti temporanei sono spesso vittime di lavoro forzato, salari insufficienti, cattive condizioni di lavoro, assenza di qualsiasi forma di protezione sociale, negazione della libertà di associazione e dei diritti sindacali, discriminazione e xenofobia, nonché di esclusione sociale.

In questi programmi di apprendistato sanciti dallo Stato, i lavoratori sono legalmente vincolati a un datore di lavoro e facilmente soggetti a espulsione. Sottoposti a minacce di licenziamento e deportazione, i migranti stagionali non possono che conformarsi a questi abusi in silenzio, rivelando così il nesso cruciale tra lo status di immigrato e il lavoro precario.

Immagine da Flickr di Alisdare Hickson, licenza CC.

Attraverso i programmi di migrazione per la manodopera temporanea, la forza lavoro delle persone in transito viene prima delimitata dai confini e poi sfruttata, in tutta la sua vulnerabilità, dai datori di lavoro. Negare ai lavoratori migranti lo status di immigrato permanente assicura una fornitura costante di manodopera a basso costo. In quest’ottica, i confini non hanno lo scopo di escludere tutte le persone, quanto piuttosto di creare condizioni di “deportabilità”, aumentando la precarietà sociale e lavorativa delle persone coinvolte.

Questi lavoratori vengono etichettati come “stranieri”, una connotazione che aumenta episodi xenofobi e razzisti nei loro confronti, anche da parte di altri lavoratori. È paradossale pensare come, mentre i lavoratori migranti vivono una condizione temporanea, la migrazione stagionale vada configurandosi come il modello permanente e neoliberale applicato alla migrazione, orchestrato dallo Stato.

Riparazione significa ‘No frontiere’

È immorale che i ricchi parlino di futuri figli e nipoti, mentre nel Sud del mondo i figli muoiono ogni giorno. (Asad Rehman)

Il dibattito sulla costruzione di sistemi politico-economici più equi e sostenibili sembra procedere di pari passo con il progetto di un Green New Deal. La maggior parte delle proposte politiche pubbliche per un Green New Deal negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito e nell’Unione Europea esprimono la necessità di affrontare simultaneamente la disuguaglianza economica, l’ingiustizia sociale e la crisi climatica.

La soluzione individuata, in genere riguarda la trasformazione del nostro sistema estrattivo e di sfruttamento, orientandoci verso una società a bassa emissione di carbonio, femminista, controllata dai lavoratori e dalla comunità, che non trascuri forme associative e assistenziali.

Nonostante l’elaborazione di un Green New Deal guardi inevitabilmente alla crisi climatica e alla crisi del capitalismo come interconnesse – e non presenti una visione dicotomica dell’ambiente contro la società – uno dei suoi principali difetti rimane la portata limitata. Come scrivono Harpreet Kaur Paul e Dalia Gebrial: “il Green New Deal rimane in larga misura intrappolato nell’immaginario dei singoli Stati“.

Qualsiasi New Deal verde che non abbia respiro internazionale corre il rischio di perpetuare l’apartheid climatico e la dominazione imperialista in un mondo già soggetto al surriscaldamento. I Paesi ricchi devono correggere le dimensioni globali e asimmetriche del debito climatico, degli accordi commerciali e finanziari ingiusti, della sottomissione militare, dell’apartheid vaccinale, dello sfruttamento del lavoro e del rafforzamento dei confini.

Aprire un dibattito sui confini non può, oggi, prescindere dal mettere in discussione il costrutto moderno di Stato-Nazione e di tutto ciò che questa definizione reca con sé: i concetti di impero, di capitalismo, di razza, di casta, di genere, di sessualità e di abilismo. Nel caso dei confini, non si tratta nemmeno di contorni che delimitano un territorio con la fissità di linee precise.

I moderni regimi basati sulle frontiere fanno sempre più spesso ricorso alla sorveglianza con i droni, all’intercettazione delle barche di migranti e a controlli di sicurezza che spesso vanno ben oltre quelli che sarebbero i limiti territoriali di uno Stato. Dall’Australia che delocalizza la detenzione dei migranti in Oceania, alla fortezza Europa che esternalizza i procedimenti di interdizione e sorveglianza nel Sahel e in Medio Oriente, si delineano cartografie mutevoli che rimarcano con vigore il nostro presente coloniale.

Immagine da Flickr di Victoria Pickering, licenza CC.

Forse la cosa più offensiva è che, quando i Paesi coloniali si fanno sopraffare dal panico per le “crisi ai confini”, lo fanno autoproclamandosi vittime. Senza tener conto del fatto che genocidi, sfollamenti e moti migratori di milioni di persone sono stati strutturati in modo iniquo dal colonialismo per secoli, con i coloni europei insediatisi nelle Americhe e in Oceania, la tratta transatlantica degli schiavi dall’Africa e l’importazione di lavoratori dall’Asia.

L’impero, la schiavitù e l’apprendistato [noto in passato come servitù debitoria, NdT] sono le fondamenta su cui si struttura l’apartheid globale oggi, determinando chi può vivere dove e in quali condizioni. E le frontiere sono strutturate in modo da perpetuare questo apartheid.

La libertà di restare e la libertà di muoversi, ossia l’annullamento di tutti i confini, coincidono con un risarcimento decoloniale e una ridistribuzione dovuti da tempo.

Gaia Bugamelli

Laureata in Media, Cultura e Società, è scrittrice freelance e ricercatrice in ambito socio-antropologico. Si occupa, in particolare, di tematiche legate al ruolo dei media nelle società contemporanee e al loro rapporto con la geo-politica e i diritti umani.

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