Agricoltura e stagionalità, viaggio attraverso opportunità e limiti

Basta una passeggiata tra i banchi del supermercato per rendersi conto di quanto sia sempre alla nostra portata una variegata quantità di frutta e verdura, a prescindere dalla loro stagionalità. Sembra scontato poter contare in qualsiasi momento sulla reperibilità di ciò che più ci piace, ma ripercorrere a ritroso il viaggio che fragole e pomodori compiono in inverno può far riflettere sulla sostenibilità ambientale e sulle reali opportunità dei moderni modi di produzione da una parte e dei vantaggi di una dieta stagionale, ciclica, un po’ antica dall’altra.

L’agricoltura, pratica primitiva della sopravvivenza umana, si trasforma radicalmente a partire dal XIX secolo. Macchinari e nuove sementi consentono la crescita delle colture in termini di produzione e qualità, rendendola anche meno suscettibile agli eventi naturali avversi. Superare il limite della stagionalità è da sempre stato uno degli obiettivi della tecnologia agricola, rincorso grazie alla diffusione delle colture protette da un lato e dalla globalizzazione dei mercati dall’altro. Dopotutto entrambe le pratiche affondano le loro radici in tempi antichi.

Si hanno notizie delle prime colture protette e della prima serra, infatti, già da Plinio il Vecchio, quando descrive l’esigenza dell’imperatore Tiberio di avere a disposizione tutto l’anno i cetrioli, coltivati in aiuole mobili trasportate per tenerle protette dalle intemperie.

Sulla data della prima serra moderna, invece, si contendono il primato Siviglia nel 1350 e Leiden nel 1577. Oggi la tecnologia delle colture protette con il sistema delle serre agricole vede nel modello olandese l’eccellenza tecnologica, che permette al Paese di essere il secondo esportatore di prodotti agricoli, dietro soltanto agli Stati Uniti, nonostante sia più di 200 volte più piccolo.

Anche dal punto di vista della sostenibilità dei metodi di produzione, il sistema delle colture protette olandese detiene il primato: si stima che nelle sue serre sia stata ridotta la dipendenza dall’acqua fino al 90%, contenendo anche l’uso di pesticidi, grazie ad un innovativo sistema di riutilizzo di nutrienti ed acqua in eccesso. Questa tecnologia, inoltre, consentirà al Paese di non dipendere dagli eventi metereologici per la propria produzione agricola e, dunque, di raggiungere la neutralità dal punto di vista climatico già nei prossimi anni.

Il caso olandese permette di fare alcune osservazioni sulle potenzialità del progresso agricolo in questo campo e delle possibilità di un superamento anche sostenibile della stagionalità.

Innanzitutto, l’indipendenza climatica e il controllo dell’irrigazione nelle colture protette fuori suolo assicurano maggiore sostenibilità interna e maggiore efficienza e qualità delle colture, consentono di riciclare acqua e nutrienti che in campo aperto andrebbero dispersi e di ridurre l’impiego di pesticidi. L’efficienza della coltivazione assicura anche maggiori quantità di prodotto a parità di risorse dell’agricoltura standard, come sostenuto da Frank Kempkes, ricercatore al WUR (Wageningen University and research), che sta lavorando ad un innovativo modello di serra (KAS 2030).

Gli studi da lui condotti dimostrano, inoltre, come con le colture in serra si riescano ad ottenere prodotti di qualità superiore e una maggiore efficienza in termini di acqua, nutrienti e agenti protettivi delle colture.

Nel nostro Paese la realtà delle colture protette tecnologicamente avanzate vede un esempio virtuoso e un pioniere in Sfera Agricola, a Gavorrano, in provincia di Grosseto, che con i suoi 13 ettari è la serra idroponica più grande e avanzata d’Italia e la più estesa del Sud Europa.

Futuro percorribile o mosche bianche? Purtroppo, l’idilliaco e sostenibile scenario offerto dalle colture protette non corrisponde nella realtà ad un panorama tecnologico all’altezza. Il sistema serra tecnologicamente avanzato presenta ancora costi troppo alti e di conseguenza, ancora troppo pochi sono i benefici sostenibili di un’agricoltura fuori stagione.

In Italia il comparto serra è occupato principalmente da colture ortive e sebbene mostri essere un settore in crescita, il 70% ha ancora un livello tecnologico medio-basso, ponendo al centro la questione dell’impatto delle colture protette allo stato attuale: il 90% ha una copertura in plastica e soltanto il 20% è riscaldato, le strutture sono povere (con scarsa ventilazione, forti escursioni termiche giornaliere), con largo impiego di manodopera e una scarsa disponibilità di acqua.

I problemi maggiori sono legati allo smaltimento dei materiali plastici usati per la copertura delle serre e pacciamatura del terreno, che rappresentano anche i costi più ingenti da sostenere; inoltre, le rotazioni ristrette e un’elevata densità colturale che interessano il comparto determinano una forte stanchezza del terreno, in più un eccessivo uso di prodotti chimici impiegati per la difesa e la fertilizzazione delle colture alterano le caratteristiche fisiche e chimiche del suolo e generano alterazioni sulla fauna terricola, rendendo obbligatorio un uso maggiore di fitofarmaci (insomma, un cane che si morde la coda). Questi ostacoli da fronteggiare si traducono, infine, in costi finali più alti dei prodotti rispetto a raccolti stagionali.

Una possibile strategia percorribile sarebbe la trasformazione delle serre in sistemi chiusi, colture fuori suolo, automazione e informatizzazione, ma questo pare sia un orizzonte che tiene ancora lontano l’acquisto di merce fuori stagione, senza pensare all’effetto negativo che potrebbe avere sull’ambiente e sulle tasche dei consumatori.

Un ripensamento dell’assetto gestionale della produzione agricola appare doveroso anche di fronte al costo umano e sociale che il lavoro, anche quello in serra, comporta.

Nel comparto serricolo l’impiego maggiore di fitofarmaci, in un ambiente in cui la dispersione è minore, comporta da un lato un accumulo di agenti contaminanti, dall’altro una diversa capacità di assorbimento cutaneo ed inalatorio degli stessi. La conseguenza è sicuramente un rischio maggiore per la salute dei lavoratori.  

Inoltre, caldo estremo, giornata lavorativa infinita, paga disumana sono le condizioni che un lavoratore agricolo è costretto ad accettare, ancor di più se si tratta di un migrante.

La tendenza degli ultimi anni vede in crescita, rispetto ai locali, il numero di immigrati coinvolti in queste attività, complice la facilità di speculazione dovuta alla loro vulnerabilità giuridica e sempre più frequenti sono i casi di caporalato. Nella specificità del lavoro in serra compaiono spesso nei casi di denuncia lo sfruttamento dei lavoratori stagionali delle aree rurali del Sud, sia esso Meridione in Italia o della famosa e grande Almerìa, in Spagna.

Migranti ad Almerìa
Migranti ad Almerìa. Foto di John Perivolaris da Flickr su licenza Creative Commons

L’altra strada che conduce sulle nostre tavole i pomodori in inverno è quella percorsa a bordo di tir, container, stive di aereo. Anche quello del commercio è un settore legato alle prime attività dell’uomo e dall’avvento della globalizzazione: il valore monetario dell’export di cibo a livello globale si è moltiplicato. Il 23% del valore totale di alimenti esportati è costituito da frutta e verdura, seguiti da cereali e prodotti freschi.

Tra i Paesi alla guida dell’esportazione di prodotti agricoli troviamo in testa gli Stati Uniti, seguiti da Olanda e Cina. Il pomodoro è il prodotto agricolo più consumato al mondo (Cina, India, Turchia sono i maggiori produttori), seguito dalla banana. L’Europa invece è il principale importatore di frutta e verdura, assorbe oltre il 40% delle forniture globali e dipende dai Paesi tropicali e subtropicali per frutta secca e noci commestibili.

Riguardo l’impatto di questa pratica, la riflessione più spontanea riconduce alle emissioni legate ai mezzi di trasporto: in realtà, il commercio internazionale di merci e prodotti agricoli incide “solo” per il 6% circa del totale di emissioni di gas serra dell’intera filiera di produzione agricola. Inoltre, molta differenza è data dal mezzo di trasporto impiegato: il trasporto via aereo (che riguarda in maggior parte i prodotti freschi, che hanno bisogno di percorrere grandi distanze in tempi minori) incide cinquanta volte più di quello via mare, ma allo stesso tempo è quello meno impiegato, come dimostra il grafico.

Sebbene pare sia più importante porre l’accento su cosa mangiamo e non da dove arriva, a chilometri di distanza dalla frutta acquistata fuori stagione la realtà dei Paesi produttori rivela una questione ambientale ed un alto impatto legati all’uso della terra, alla perdita di biodiversità e alla deforestazione per far fronte alla grande quantità di prodotti richiesti nel mondo.

In conclusione, la disponibilità di frutta e verdura in quantità sostenute, offre sicuramente una prospettiva risolutiva per la domanda in crescita di cibo; anche la tecnologia agricola, che permette di vincere i limiti climatici e la suscettibilità agli eventi avversi, rappresenta un’opportunità sostenibile per il futuro di una terra sempre meno disponibile a reggere i bisogni di una popolazione mondiale in crescita.

Fotografando lo stato attuale, tuttavia, siamo di fronte a costi ancora troppo alti, non soltanto in termini di impatto ambientale ed economico, ma anche di salute di ciascuno: come precisa il CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) nelle sue Linee guida per una sana alimentazione, una vita sana passa anche per la scelta di una dieta variegata e stagionale, che rispetti l’ambiente in cui tutti siamo chiamati alla conservazione delle risorse anche per le generazioni future.

Da non sottovalutare, infine, è anche l’aspetto culturale che assume ciò che consumiamo; basti pensare, ad esempio, a quanto alcuni piatti ci leghino a delle tradizioni, a dei momenti, a dei riti che seppure antichi ci dicono chi siamo.

Alcune riflessioni, queste, che negli ultimi anni hanno aperto la strada a nuovi concetti di agricoltura, che fanno da eco a pratiche produttive che guardano a terra, cielo e temperature e che ci invitano a scelte più critiche sull’origine di quello che compriamo. Ne è un esempio l’agricoltura rigenerativa che, superando il classico concetto di agricoltura biologica, pone al centro l’idea di collaborare con la natura, più che dominarla.

Nuove tecnologie e tecniche agricole sposano i “vecchi” cicli naturali, la diversificazione delle colture e il minor impatto meccanico dei suoli per rigenerare il terreno e offrire nuove strade percorribili.

È possibile, dunque, che sarà proprio il prezzo, la provenienza di quella cassetta di pomodori a dirci, al prossimo passaggio nel reparto ortofrutta, quanto l’apparentemente banale gesto di comprarla ci obblighi in realtà a riflettere sui nostri acquisti, sull’impatto che le distanze da un’antiquata maniera di mangiare stanno comportando per il futuro.

Vanna Lucania

Laureata in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, esprime con la parola scritta i suoi interessi per l'educazione, l'ambiente e l'Africa. Dal volontariato alle ONG coltiva l'obiettivo di "lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato".

One thought on “Agricoltura e stagionalità, viaggio attraverso opportunità e limiti

  • Grazie! Articolo davvero molto interessante!

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