Libia, le elezioni non “legano” il Paese. Quasi certo ormai il rinvio
Si erano riposte molte speranze nelle elezioni presidenziali della Libia fissate per il 24 dicembre prossimo. La situazione, però, sta cambiando drasticamente e velocemente e a pochi giorni dalla data fissata per riportare la popolazione alle urne dal lontano 2014, l’unica certezza è che il voto, ormai molto probabilmente, non ci sarà.
Nei fatti, a dieci anni dalla morte di Gheddafi, in Libia mancano una Costituzione, uno Stato in grado di gestire la sicurezza e istituzioni economiche capaci di ordinare razionalmente l’economia. Il territorio nazionale resta complesso, frammentato e “affollato” di aspiranti protagonisti: milizie, tribù, ex generali accusati di crimini contro l’umanità e mercenari stranieri si contendono la loro parte di potere.
Sono quasi 100 le persone che si sono registrate per correre alla presidenza, ma la Commissione Elettorale non ha ancora annunciato l’elenco definitivo dei candidati a causa dei tanti ricorsi legali. Due delle figure più controverse della recente storia libica sono tornate sulla scena politica, aspirando alla carica e scatendando reazioni contrastanti: uno è il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam Gheddafi, ricercato dalla Corte penale internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità, l’altro è Khalifa Haftar, il generale stanziato nella Libia orientale che ha posto sotto assedio la capitale per un anno.
La questione dei candidati resta un nodo assai complicato e difficile da sciogliere. La Commissione Elettorale sta valutando tutti i contenziosi in corso e le sentenze dei tribunali locali che hanno fermato alcune candidature (anche Haftar e Gheddafi sono stati prima respinti e poi riammessi alla corsa elettorale dalla Corte di Appello di Tripoli).
Sono almeno cinque i nomi di spicco intorno ai quali è ruotato finora tutto il caos elettorale.
Khalifa Haftar è il generale tornato sulla scena libica durante la rivolta del 2014. Il comandante dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) ha condotto la guerra contro le fazioni dell’Ovest dopo la divisione del Paese di 7 anni fa. Ha guidato un’offensiva di 14 mesi per arrivare a Tripoli, respinta poi dal Governo riconosciuto a livello internazionale. Sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, Haftar è una figura controversa, disprezzata da molti nella Libia occidentale per la devastante offensiva di Tripoli dello scorso anno. È stato anche accusato di voler instaurare una dittatura militare nel Paese. Probabilmente, il suo maggiore appoggio elettorale verrà – se mai si dovesse votare – dall’Est della nazione.
Poi c’è Saif al-Islam Gheddafi, figlio del Generale Gheddafi ed ex consigliere del padre e dittatore ucciso in Libia. Per anni è stato fuori dall’interesse dell’opinione pubblica. Era stato catturato dai miliziani di Zintan a Ubari, nel Sud-Ovest del Paese, messo in prigione e rilasciato nel 2017. Da allora, la Corte penale internazionale ha chiesto l’estradizione per processarlo per crimini contro l’umanità.
Nel 2015, la milizia Libyan Dawn, legata ai Fratelli Musulmani, lo ha processato, condannato a morte e ordinato ai combattenti di Zintan di trasferirlo a Tripoli per l’esecuzione. La milizia di Zintan non ha però obbedito e lo ha rilasciato solo due anni dopo la sentenza di morte. Gheddafi gode ancora di sostegno nel Sud e può ottenere l’appoggio dei connazionali nostalgici della relativa stabilità del Governo di suo padre.
Abdul Hamid Dbeibah, l’attuale primo ministro, ha costruito il suo profilo di statista durante il breve periodo in carica. Il ricco uomo d’affari era a capo di un’impresa edile statale e ha un background più tecnocratico rispetto ad altri contendenti. La sua candidatura ha suscitato non poche polemiche visto che l’articolo 12 delle legge elettorale richiede agli aspiranti presidenti di dimettersi da incarichi politici civili o militari 90 giorni prima del voto. Il premier Dbeibah, quindi, non avrebbe potuto candidarsi. Tuttavia, l’Alto Consiglio di Stato con sede a Tripoli ha respinto la legge, consentendo la sua corsa.
Figura osservata è anche quella di Fathi Bashagha, ex ministro degli Interni e attore chiave nel Governo di Tripoli quando il Paese era diviso tra Est e Ovest, il quale può contare su un sostegno significativo a Misurata e nella capitale.
Infine, spicca la candidatura di Aguila Saleh, presidente della Camera dei rappresentati della Libia, istituzione nata nel 2014. Negli ultimi anni, ha attirato l’ira di molte persone dopo aver prestato sostegno al fallito assalto di Haftar a Tripoli. Gli analisti hanno visto la sconfitta del generale della Cirenaica per mano del Governo di unità nazionale libico a metà del 2020 come un’opportunità per Saleh di svolgere un ruolo più importante e aiutare a mediare tra la Libia orientale e occidentale.
Al presidente della Camera libica è contestata anche l’approvazione della controversa legge elettorale, emanata per decreto e senza rispettare il giusto percorso giuridico. L’annuncio della legge, infatti, ha scatenato la rabbia dell’Alto Consiglio di Stato (HCS) e di un gruppo di 22 legislatori che hanno criticato Saleh per non aver sottoposto il testo al voto parlamentare. L’HCS, l’equivalente del Senato libico con sede a Tripoli, ha condannato la decisione in quanto unilaterale.
La questione non è affatto di poco conto e ha acceso una forte tensione. La legge elettorale non gode dell’approvazione del Parlamento, né di quella del Consiglio superiore di Stato, contravvenendo così alle disposizioni dell’Accordo politico libico del 2015. Inoltre, consente ai militari e ai civili in carica di dimettersi nel momento in cui si candidano, con la possibilità di tornare alle loro posizioni in caso di sconfitta.
In questo clima sempre più incandescente, la scorsa settimana in Libia ci sono stati episodi di violenza che hanno riportato il timore della guerra. Un gruppo di uomini armati della Brigata al-Samoud ha circondato la sede del Governo a Tripoli e l’ufficio del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah il 16 dicembre.
Il capo del Consiglio presidenziale, Mohamad al-Menfi, è stato costretto a rifugiarsi in un luogo più sicuro. Sarebbe stato proprio lui ad innescare la tensione latente tra le varie fazioni di milizie del Paese, quando, da capo delle forze armate, ha deciso di destituire il comandante del distretto militare di Tripoli, Abdel Basset Marwan, appoggiato da potenti milizie locali e sostituirlo con il generale Abdel Qader Mansour. La Brigata al-Samoud ha ripetuto, durante l’assalto, che le elezioni non si faranno e che tutte le istituzioni statali saranno chiuse.
Pochi giorni prima, il 14 dicembre, si sono verificati scontri armati a Sebha, situata nel Sud del Paese. Le violenze sono state innescate dal sequestro da parte delle forze pro-Hafter di 11 veicoli donati dal Governo di Tripoli alla direzione della sicurezza della città in vista della tornata elettorale.
L’8 dicembre la Camera alta della Libia ha proposto di posticipare di due mesi le elezioni presidenziali. L’Alto Consiglio di Stato ha suggerito che il voto presidenziale potrebbe aver luogo a febbraio per evitare di far deragliare la transizione democratica del Paese. “Portare avanti le elezioni presidenziali senza alcuna norma costituzionale o legale formale, tra tensione, sfiducia tra gli attori (libici) e interferenze straniere, potrebbe distruggere l’intero processo politico”, si legge in una nota ufficiale.
Omar Boshah, primo vicepresidente del Consiglio, dal canto suo ha dichiarato ai giornalisti a Tripoli che se anche si dovesse andare al voto il 24 dicembre, “i risultati non saranno accettati”. Il 7 dicembre ci sono stati anche sit-in di protesta nella capitale, con manifestanti che hanno minacciato l’ordine pubbico a suon di slogan “No alle elezioni senza Costituzione”.
A minare la strada verso le urne c’è anche il mancato rispetto finora delle risoluzioni 2570 e 2571 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottate nell’aprile 2021. Queste ultime invitano gli attori esterni coinvolti nel confitto libico ad attuare il ritiro delle proprie forze militari e dei mercenari in modo rapido e completo, oltre a spingere le parti regionali e internazionali ad aderire all’embargo sulle armi libiche.
Tuttavia, in Libia questo non sta accadendo e sul territorio ci sono ancora circa 20.000 combattenti stranieri. Russia e Turchia giocano un ruolo di primo piano e rischiano di destabilizzare ancora di più il già fragile contesto interno, se non si impegneranno seriamente a lasciare la nazione. Mosca ha mantenuto una presenza militare nel Paese, soprattutto attraverso organizzazioni paramilitari private.
Questa politica suggerisce che la Russia è ancora disposta a violare la sovranità della nazione e potrebbe impegnarsi in interferenze politiche durante le elezioni. L’ammissione dei candidati Khalifa Haftar e Saif al-Islam Gheddafi, che hanno stretti legami con Mosca, amplifica questo rischio.
Secondo alcuni analisti, infatti, la rimozione di mercenari stranieri avrebbe privato Haftar e i suoi alleati di gran parte del potere di cui ancora gode, non lasciando loro altra scelta che impegnarsi in un compromesso politico. Ciò avrebbe potuto aprire la strada a una parvenza di riconciliazione tra Est e Ovest, condizione essenziale per garantire che il Paese non ricada in conflitti armati. Ma anche trattenere forze proprie e mercenarie in Libia da parte di Ankara (che ha appoggiato il Governo di Unità Nazionale – GNA – guidato da Fayez al-Sarraj) è strategico e potrebbe far esplodere una guerra per procura Russia-Turchia nel Paese nordafricano.
Intorno alle ormai poco probabili elezioni, quindi, restano troppe questioni spinose da risolvere. Queste includono una soluzione su come condividere il potere dopo il voto, in che modo distribuire le risorse tra le diverse parti del Paese, come e quale esercito portare sotto il controllo del Governo ad interim e quali criteri e meccanismi seguire per la nomina a posizioni di leadership nelle istituzioni governative.
Come ha suggerito Simon Mabon, professore di politica internazionale alla Lancaster University, la Libia sta cercando di riportare al suo interno il controllo democratico mentre è ancora in guerra contro se stessa. La sua previsione sulle elezioni, quindi, è piuttosto amara:
un’elezione di successo e passi significativi nella giusta direzione rimangono incredibilmente impegnativi, specialmente senza autentici processi di costruzione della pace, della fiducia e un reale periodo di riconciliazione, tutti i meccanismi che ci si aspetterebbe da una società postbellica. La Libia sta cercando di entrare in un contesto postbellico, mentre il conflitto infuria ancora… è difficile immaginare elezioni che si concludano positivamente.
Sullo sfondo, c’è una situazione socio-economica disastrosa, una società da ricostruire e la continua scoperta di violazioni di diritti umani.
Con il cessate il fuoco sono state avviate indagini e la Missione d’inchiesta indipendente (FFM) ha riferito che crimini di guerra e contro l’umanità sarebbero stati commessi da tutte le parti in conflitto dal 2016 e anche da attori esterni. Dalla detenzione arbitraria alla tortura, al reclutamento di bambini soldato e alle uccisioni di massa, la FFM ha elencato numerose gravi violazioni dei diritti.
A Tarhuna, nella Tripolitania, continuano a essere scoperte fosse comuni. Ad ottobre 2021, le autorità libiche hanno segnalato la presenza di 228 corpi. Inoltre, come è ormai ben noto, migranti, richiedenti asilo e rifugiati – comprese migliaia di persone intercettate dalla Guardia costiera libica dopo essere state scoperte in mare mentre cercavano di raggiungere l’Europa – hanno subito, e continuano a subire, detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, aggressioni sessuali, lavoro forzato, ed estorsioni da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti.
Secondo l’analisi UNICEF di giugno 2021, 223.000 sfollati e oltre 643.000 rimpatriati avevano bisogno di assistenza umanitaria, compreso l’accesso ad acqua potabile sicura, servizi igienico-sanitari, istruzione. Nelle aree che hanno subìto conflitti armati, le famiglie sono ancora vulnerabili ai rischi di esplosione. Sono 271.000 i bambini senza protezione e 171.000 quelli che non frequentano la scuola.
C’è dunque tanto da fare prima di poter vedere una nazione democratica e uno Stato stabile. Per questo, le aspettative sulle elezioni, da parte soprattutto di ONU e attori esteri, rischiano di andare deluse.