605 milioni. Questo è l’ammontare di gravidanze indesiderate che, secondo i dati elaborati dal Guttmacher Institute, sono state registrate su scala globale fra il 2015 e il 2019. Una media di 121 milioni l’anno. Tradotto in statistiche, 64 gravidanze su 1000 etichettabili come non pianificate, non volute, accidentali. Di queste, il 61% si sono concluse con un’interruzione volontaria: in numeri, 73 milioni di aborti l’anno.
Secondo il sito Worldometer.info, il conteggio di aborti a livello mondiale dal 1 gennaio 2021 ad oggi supera i 35 milioni. Il dato si basa sulle più recenti statistiche pubblicate dalla World Health Organization, secondo la quale le interruzioni di gravidanza volontarie sarebbero circa 125 mila al giorno.
Sono numeri importanti, che lasciano intendere quanto l’esperienza dell’aborto sia comune fra le donne in età fertile e quanto, di conseguenza, andrebbe identificata come una questione di salute pubblica. E trattata come tale.
Ma purtroppo, i fatti raccontano un’altra storia. Sempre stando ai dati diffusi dalla WHO, il 45% degli aborti si svolge in maniera non sicura, vale a dire con procedure che mettono a rischio la salute o addirittura la vita stessa della persona che vi si sottopone (aborto autoindotto e procedure cosiddette “clandestine” condotte da personale non formato). La diretta conseguenza è un tasso di mortalità materna compreso fra il 4,7% e il 13,2%.
Perché ciò accade? Perché una procedura che riguarda un numero così alto di donne in tutto il mondo è ancora soggetta ad un rischio tanto elevato, connesso alla diffusione di pratiche non sicure?
In alcuni Paesi la possibilità di ricorrere ad un’interruzione di gravidanza volontaria è totalmente vietata o fortemente ristretta, concessa soltanto in circostanze specificamente previste dalla legislazione in vigore – se la gravidanza è il risultato di uno stupro, per esempio, o se mette a repentaglio la vita della donna.
In altri Paesi le leggi adottate in materia sono decisamente meno limitanti, ma occorre sempre tenere in considerazione quel gap che immancabilmente si verifica fra diritti teoricamente riconosciuti e possibilità concreta di accedervi. Soprattutto quando si tratta di salute riproduttiva femminile.
Non serve andare molto lontano: in Italia il diritto all’aborto è garantito dalla Legge 194/78, che stabilisce la possibilità di richiedere l’IVG entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Una procedura teoricamente accessibile tramite le strutture sanitarie pubbliche sparse sul territorio, ma di fatto blindata dall’altissimo numero di personale sanitario che si avvale dell’obiezione di coscienza.
Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dal Ministero della Salute il 69% dei ginecologi italiani si rifiuta di praticare l’IVG, con picchi che superano l’80% o addirittura il 90% in regioni come il Trentino-Alto Adige e il Molise. Ma non solo: sono obiettori anche il 46,3% degli anestesisti e il 42,2% del personale sanitario non medico. Una situazione drammatica, che ostacola enormemente l’accesso ad un diritto garantito per legge da oltre 40 anni.
Questi quadri legislativi più o meno restrittivi e le difficoltà oggettive nell’accedere all’aborto si traducono in una carenza – se non addirittura assenza – di informazioni ed educazione sul tema. Ed ecco che si crea terreno fertile per il proliferare di procedure clandestine non sicure.
Ancora una volta, la domanda è: perché? Qual è la vera causa di un silenzio tanto assordante attorno ad una questione di così cruciale importanza per la salute di miliardi di donne in tutto il mondo?
L’accesso all’aborto sicuro ricade sotto l’ombrello dei diritti umani fondamentali, in quanto ad essi strettamente connesso. Basti pensare al diritto all’integrità psico-fisica e all’autodeterminazione, ma anche al diritto alla non discriminazione, in quanto impedire ad una donna di esercitare libero controllo sulla propria salute riproduttiva può rinforzare discriminazioni basate sul genere.
Eppure nella stragrande maggioranza delle nostre società l’aborto non è visto come un diritto umano fondamentale. La radice del problema è profonda, e risiede in un meccanismo lungamente internalizzato a più livelli: lo stigma.
Lo stigma marchia le donne che scelgono di interrompere volontariamente una gravidanza come inferiori o devianti rispetto ad un presunto concetto di femminilità, basandosi sulla comune percezione che l’aborto sia sbagliato e/o moralmente e socialmente inaccettabile.
Secondo uno dei pochi studi accademici condotti sul tema da un gruppo multidisciplinare di ricercatrici statunitensi, la stigmatizzazione dell’aborto ha principalmente a che fare con la violazione delle norme sociali di genere.
Socialmente, infatti, la rappresentazione più classica della donna è quella che la dipinge come moglie, prima, e madre, poi. Il desiderio di maternità è percepito come centrale nell’ottemperare al ruolo femminile. Basti pensare alla classica domanda da cena coi parenti “Allora, quando lo fai un figlio?”, sintomatica di una mentalità che associa in automatico il mero possesso di un utero ad un assodato ed ineluttabile destino.
L’aborto spezza questa logica, restituendo l’immagine di una donna che ha avuto un rapporto sessuale a scopo non procreativo e che esercita liberamente una forma di controllo sulla sua riproduttività. Diventa così segno visibile ed emblema di un corpo femminile svincolato dalle norme sociali precostituite e, nello specifico, da quelle di genere. Da qui la necessità di preservare “l’ordine delle cose”, vietando e regolamentando.
E in questo senso lo stigma è uno strumento potente, in grado di operare in profondità e di intersecare più livelli: dalla rappresentazione mediatica e il dibattito pubblico, passando per istituzioni e legislazione, fino ad arrivare alle comunità e ai singoli individui. Come una gabbia a cerchi concentrici, il cui scopo è quello di silenziare gli individui. I corpi femminili, per la precisione.
Il risultato è che lo stigma può essere non solamente esperito – cioè provato sulla propria pelle per mano di fattori esterni (impossibilità o difficoltà di accesso alla procedura di aborto e abusi da parte del personale sanitario; rifiuto da parte di familiari, amici, partner; abusi fisici, verbali e psicologi; ecc.) – ma anche e soprattutto internalizzato.
Ciò accade quando lo stigma permea il contesto circostante a tal punto da penetrare il subconscio soggettivo, spingendo chi sta prendendo in considerazione o ha già portato a termine un’interruzione di gravidanza a provare colpa, scarsa autostima, senso di isolamento, depressione.
Volendo dare una connotazione visuale allo stigma, lo si potrebbe benissimo immaginare come un Cerbero che sputa fuoco a destra e a manca, provocando effetti devastanti sulla salute e sulle vite di miliardi di donne.
Data, da una parte, l’urgenza della questione e, dall’altra, la sua stratificata complessità, viene da chiedersi se esista un modo efficace per abbattere il mostro e sovvertire, poco a poco, la narrazione dominante. La risposta a questa domanda esiste, ed è più semplice di quanto si possa pensare: storytelling.
Nel settembre del 2015 Amelia Bonow pubblica un post sul suo profilo Facebook:
“Circa un anno fa ho avuto un aborto al Planned Parenthood su Madison Avenue, e ricordo questa esperienza con un livello quasi inesprimibile di gratitudine. Ve lo racconto oggi perché la narrativa di coloro che vogliono tagliare i fondi al Planned Parenthood si basa sul presupposto che l’aborto è ancora qualcosa di cui si possa parlare solamente sussurrando. Un sacco di gente crede ancora che – se sei una brava donna – l’aborto è una scelta che deve essere accompagnata da un certo livello di tristezza, vergogna o rimpianto. Ma sapete una cosa? Io ho un buon cuore e abortire mi ha resa assolutamente felice. Perché non dovrei essere felice di non essere stata costretta a diventare madre?”
Lindy West, scrittrice e amica di Amelia, legge il post e ne rimane profondamente colpita. Come ricorda nel suo racconto affidato alle pagine del Guardian, realizza di non aver mai parlato apertamente con nessuno del proprio aborto, avvenuto cinque anni prima. Pur identificandosi come una femminista, pro-scelta e progressista, circondata da amici e familiari con cui condivide i medesimi valori, è vittima di quello stigma internalizzato che colpisce tutte e tutti, sottilmente e indiscriminatamente.
Lindy ripubblica lo screenshot del post di Amelia sul suo profilo Twitter con l’hashtag #ShoutYourAbortion. Le risposte sono immediate, tantissime. È la genesi della campagna Shout Your Abortion, oggi divenuta un movimento internazionale e decentralizzato che si pone l’obiettivo di creare spazi – virtuali e non – in cui parlare liberamente di aborto, rappresentandolo per ciò che è: una normale procedura medica, ben più comune di quanto si pensi, non necessariamente sofferta e dolorosa.
La piattaforma web di Shout Your Abortion oggi funge principalmente da archivio online, in cui sono raccolte migliaia e migliaia di testimonianze provenienti da tutto il mondo. I racconti pubblicati sono intenzionalmente non filtrati e non editati, in modo da promuovere una condivisione delle esperienze che sia assolutamente libera e il più sfaccettata, plurale possibile. E questo approccio sembra effettivamente funzionare molto bene, come dimostrano le tante storie pubblicate ogni giorno.
Megan, per esempio, racconta:
“Questa decisione è stata sia la scelta più facile che quella più difficile della mia vita; ma grazie a Dio ho il diritto di scegliere. La mia storia è probabilmente simile a quella di altre – il metodo contraccettivo che utilizzo da 8 anni ha fallito.
Sono in una relazione felice con il mio fidanzato. Entrambi sapevamo che tenerlo non era un’opzione per noi, finanziariamente o emotivamente. Non siamo pronti. E così abbiamo preso la decisione di abortire. Vivo in uno Stato interamente considerato zona rossa. A causa dell’emergenza Covid, sono dovuta andare da sola. Sono passata davanti a manifestanti che mi urlavano che ero un’assassina. Ho pianto. Mi sono sentita paralizzata. Ma in fin dei conti, sapevo che questa era la mia scelta, ed era giusta.
Non so chi stia leggendo quello che scrivo; una persona giovane, sola nella sua stanza, che lotta contro le lacrime pensando a cosa fare. Tieni presente questo semplice fatto: sei forte, sei amata, non sei sola, e questa è la tua decisione. Soprattutto, sei degna.”
Diversa, invece, la prospettiva di Lilith, che scrive:
“La porta si è aperta, ho guardato dentro,
Poi lentamente sono entrata, nel freddo e nel bianco.
Non è stato nemmeno doloroso per me
E per il coraggio di essere finalmente libera
Mi sono anche sentita piena di orgoglio
Per questo mi sono liberata del demone che avevo dentro
Questa è una poesia che ho scritto quando ero ancora piena di emozioni subito dopo il mio aborto. Ritrae metaforicamente i miei sentimenti per la cosa che cresceva dentro di me, poiché non ho mai avuto la sensazione che appartenesse o avesse valore per me.
Sembra duro e privo di emozioni, ma non è altro che la verità. Mi sono sentita malissimo per essermi sentita così dopo essere rimasta incinta e ho cercato di amare l’embrione nel mio grembo il più possibile, ma non ci sono riuscita. Non sono riuscita ad amarlo perché sapevo che non volevo fosse lì.
Non mi dispiace più. E mi sento così confortata da tutte le persone che sostengono il diritto all’aborto e le persone che abortiscono. Un enorme grazie a loro. Sono i migliori. Sono la comunità a cui voglio appartenere. Il loro sostegno è infinito. Grazie.”
C’è poi la testimonianza di Keli, che non nasconde quanto la sua scelta sia stata e sia tutt’ora travagliata:
“A distanza di anni, ancora lotto con la mia decisione. Anche se so che è stata la scelta migliore che potessi fare in quel momento, rimane un forte dolore nel mio cuore. Sento che le emozioni di tristezza e perdita sono spesso messe da parte nell’aborto – ma non è sempre una decisione rapida e indolore.”
Quelle sopra riportate sono soltanto tre delle moltissime esperienze di donne che hanno scelto un’interruzione di gravidanza. Esperienze che, come già emerge in queste tre testimonianze, sono estremamente diversificate – per circostanze, contesto sociale, sentimenti e stati d’animo.
E come in tutti i temi caratterizzati da strati e strati di complessità, si pone una questione cardine: quella dell’intersezionalità.
Renee Bracey Sherman è una scrittrice e attivista per la giustizia riproduttiva. È la fondatrice di We Testify, organizzazione impegnata nella diffusione di storytelling riguardante l’esperienza dell’aborto nella sfera pubblica. La particolarità è che, come si legge sul sito Internet dell’organizzazione, “We Testify investe in storytellers per elevare le loro voci e competenze, in particolare quelle di colore, quelle provenienti da comunità rurali e conservatrici, quelle che si identificano come queer, quelle con diverse abilità e status di cittadinanza, e quelle che hanno avuto bisogno di supporto mentre si barcamenavano tra le barriere nell’accesso alle cure abortive”.
La necessità di creare un network così specificamente orientato nasce dall’esperienza diretta della fondatrice, che sulla piattaforma online della National Committee for Responsive Philanthropy racconta:
“Quando ho abortito nel 2005 avevo 19 anni […] Nei 6 anni successivi ho detto solo a poche persone del mio aborto. Più condividevo la mia storia, più sentivo in risposta ‘Anch’io ne ho avuto uno’.
Incontrando più persone che avevano abortito, mi sono resa conto di quanti tratti in comune ci fossero nelle nostre storie, eppure non erano condivise ampiamente né rappresentate nelle discussioni pubbliche sull’accesso all’aborto.
Inoltre, quando le esperienze venivano portate nella conversazione, si concentravano quasi esclusivamente su giovani donne bianche cisgender che chiedevano l’aborto per poter terminare gli studi universitari.
Le storie di queste donne sono vitali, ma sono lo spaccato di una narrazione ristretta che non riflette necessariamente le esperienze della maggior parte delle persone che abortiscono – la maggioranza delle quali sono persone di colore, già genitori, che vivono con un reddito basso e navigano tra difficoltà finanziarie, logistiche e legali per l’assistenza all’aborto.”
Da qui l’esigenza di fondare una nuova organizzazione, che non solo si impegna nel combattere lo stigma dell’aborto tramite lo storytelling, ma fornisce anche un supporto a tutto tondo a chi mette a disposizione se stessa e la propria storia. Continua Renee Bracey Sherman:
“Quando ho cominciato a condividere la mia storia di aborto, è stato per contrastare i messaggi orribili che i leader anti-aborto stavano diffondendo sulle donne nere che come me avevano abortito.
Volevo parlare della complessità di rimanere incinta quando non ero pronta per diventare genitore e dei modi in cui la mancanza di educazione alla salute sessuale e gli stereotipi razzisti e sessisti sulle giovani donne nere hanno impattato su di me.
Ma nel momento della condivisione, mi sono spesso trovata ad essere la sola persona di colore, il che mi ha reso soggetta a feroci minacce e molestie violente. Sono arrivata a chiedermi se lo storytelling fosse un veicolo sicuro per il cambiamento.
Il movimento per la salute riproduttiva, i diritti e la giustizia non aveva investito nella protezione delle storytellers dell’aborto per assicurarsi che quando parlavano le loro voci sarebbero state accolte con amore, sostegno e cura. Alle storyteller veniva chiesto di condividere le loro storie in pubblico per poi essere lasciate a gestire il contraccolpo da sole.”
Per questo We Testify fornisce sostegno psicologico e logistico alle storytellers che collaborano con l’organizzazione, al fine di assicurarsi che abbiano tutti gli strumenti necessari per gestire al meglio l’esperienza di condivisione pubblica.
Ma non solo: consapevole delle profonde disparità socioeconomiche che colpiscono molte delle donne che abortiscono, offre un compenso economico commisurato al tempo e alle energie profuse da ciascuna storyteller. L’obiettivo è quello di mettere tutte le attiviste nella condizione migliore possibile per dedicarsi al raggiungimento di un obiettivo così importante come quello dell’abbattimento dello stigma sull’aborto.
Shout Your Abortion e We Testify sono due esempi che aiutano a capire quanto la nascita di movimenti di questo tipo stia lentamente cominciando a fare la differenza, restituendo protagonismo alle donne che hanno abortito e aiutandole ad uscire dal cono d’ombra in cui quasi sempre vengono risucchiate. Esempi virtuosi, che infatti hanno ispirato la creazione di network simili in altre parti del mondo.
Seguendo il solco tracciato oltreoceano, nel 2018 in Italia viene aperta la pagina Facebook “IVG ho abortito e sto benissimo“. Lo scopo dichiarato è quello di offrire uno spazio in cui poter prendere parola, raccontare il proprio aborto e gettare luce sull’immensa varietà di esperienze emotive legate all’interruzione di gravidanza.
Come spiega a Valigia Blu Federica Di Martino, psicologa co-fondatrice della pagina, la chiave è decostruire l’equazione interruzione di gravidanza-sofferenza, in quanto “il discorso dell’aborto come scelta necessariamente dolorosa affonda le sue radici nella necessità di colpevolizzare il vissuto di una donna che sceglie di autodeterminare il proprio corpo, rinnegando in quel momento specifico quella che è una funzione biologica predeterminata, cioè la maternità. La frase ‘sono favorevole all’aborto, ma è sempre un’esperienza dolorosa’ non fa altro che stigmatizzare la donna che si sta negando la maternità”.
E lo storytelling è uno strumento potentissimo in questo senso: fa emergere i vissuti emotivi più disparati, creando un tracciato narrativo ben più variegato e complesso rispetto all’univoca – e non veritiera – prospettiva di dolore e sofferenza.
Di Martino ricorda che al momento dell’apertura di “IVG ho abortito e sto benissimo” le aspettative erano basse, si pensava che l’appello a condividere testimonianze di aborto sarebbe un po’ caduto nel vuoto. Ma poi, invece, le storie hanno cominciato ad arrivare e a popolare la bacheca della pagina Facebook. Sempre più numerose.
Questo perché, continua la psicologa, “le donne spesso non hanno raccontato di aver abortito quasi a nessuno, e poi si rendono conto che c’è una corrente narrativa di autocoscienza rappresentativa e vogliono essere parte di questa possibilità, riscrivendo anche la loro storia. In secondo luogo, vogliono essere di supporto e sostegno ad altre donne, perché quello che mi scrivono sempre è ‘spero che la mia esperienza possa aiutare qualcun’altra a sentirsi meno sola'”.
Raccontarsi per stare meglio, dunque. Per sentirsi meno sole, per far sentire meno sole le altre. Per rielaborare e rielaborarsi. Per decostruire la narrazione dominante. In un parola: normalizzare. Perché infatti, concludendo con le parole di Di Martino, “è altamente improbabile che tu non conosca, non voglia bene o non ami qualcuna che ha abortito. E, come dico sempre, non vorresti meno bene a una donna perché hai saputo che ha abortito.”