Taiwan, riconoscimento legale del genere: emessa sentenza storica
[Agenda 22 settembre – 5 ottobre 2021. Tenere una finestra aperta sul mondo. In questa prospettiva, la nostra rubrica quindicinale racconta, attraverso cinque notizie, quanto accade nel panorama internazionale, in linea con le tematiche di Voci Globali.]
Giustizia sociale – Taiwan, la “prova dell’intervento chirurgico” è incostituzionale
L’Alta Corte Amministrativa di Taipei, il 23 settembre, si è pronunciata a sfavore dell’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso quale requisito necessario per il riconoscimento del genere, definendo tale obbligo del tutto “incostituzionale”. La sentenza origina dal ricorso presentato da una donna transgender (Xiao E) contro la decisione delle autorità amministrative taiwanesi di respingere la sua richiesta di cambio genere nei documenti di identità in assenza della “prova dell’intervento chirurgico”. Al momento, la pronuncia avrà effetto solo su Xiao E. Le altre persone trans dovranno attendere eventuali modifiche legislative oppure avviare a loro volta delle azioni legali. Tuttavia, “il provvedimento del tribunale rappresenta un momento storico per i diritti dei transgender taiwanesi”, ha dichiarato E-Ling Chiu – direttore di Amnesty International Taiwan. Nel Paese, “le persone trans affrontano la discriminazione e la disuguaglianza tanto nel sistema legale che nella loro vita quotidiana”. Per questo, “chiediamo al ministero dell’Interno di dare seguito a questa sentenza, abolendo il requisito della chirurgia di rimozione degli organi riproduttivi ai fini del riconoscimento legale del genere”.
Diritti umani – Francia, cresce l’islamofobia istituzionale. Sciolto il CCIF
Il Consiglio di Stato francese ha approvato in via definitiva, il 24 settembre, la decisione del Governo di sciogliere il Collettivo contro l’Islamofobia in Francia (CCIF). L’organizzazione no-profit era stata creata nel 2003 con l’obiettivo di combattere razzismo e discriminazioni nei confronti dei musulmani, fornendo anche supporto legale alle vittime di tali abusi. Di tutt’altro avviso le istituzioni francesi, secondo cui il gruppo costituiva “un pericolo per la sicurezza nazionale”. Da qui l’annuncio, il 2 dicembre scorso, del suo scioglimento per decreto. Con un tweet, il ministro dell’Interno – Gerald Darmanin – aveva reso nota la decisione, precisando che “la CCIF aveva costantemente svolto propaganda islamista“. Human Rights Watch ha criticato con forza la decisione del massimo giudice amministrativo francese, evidenziando come tale scelta – rientrante in una più ampia strategia volta a combattere il “separatismo islamico” – di fatto pregiudichi alcune libertà fondamentali, quali: la libertà di espressione, di associazione, di religione. Producendo, inoltre, un “effetto dissuasivo su tutti i difensori dei diritti umani impegnati nella lotta contro il razzismo e la discriminazione”.
Politica internazionale – Territori Palestinesi Occupati, fonte di profitto per la finanza europea
Sono 672 le istituzioni finanziarie europee che intrattengono rapporti con le aziende attivamente coinvolte nell’espansione degli insediamenti illegali israeliani nella Cisgiordania occupata. La denuncia arriva dal report pubblicato, il 29 settembre, dalla coalizione “Don’t Buy into Occupation” (DBIO), composta da 25 ONG palestinesi ed europee. Tra il 2018 e il 2021, noti istituti di credito come BNP Paribas, Deutsche Bank, HSBC, Crédit Agricole e Santander hanno garantito alle 50 aziende coinvolte ben 114 miliardi di dollari. L’italiana UniCredit ha messo a disposizione 3,58 miliardi di dollari. “Il coinvolgimento nelle colonie – attraverso investimenti, prestiti bancari, estrazione di risorse, contratti infrastrutturali, attrezzature, accordi di fornitura di prodotti – assicura loro l’ossigeno economico di cui hanno bisogno per crescere e prosperare”, scrive nella prefazione al report Michael Lynk, relatore speciale ONU sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. In altre parole, “nonostante la natura illegale degli insediamenti, le istituzioni finanziarie europee continuano a fornire un’ancora di salvezza a queste società” anziché “interrompere ogni legame”.
Africa – RDC, caso “abusi sessuali” dipendenti OMS. Il presidente Tshisekedi chiede giustizia
“Il presidente della Repubblica chiede una leale collaborazione giudiziaria tra le competenti autorità nazionali e gli organismi internazionali al fine di far luce sul caso” degli abusi sessuali perpetrati dai dipendenti dell’OMS. La dichiarazione è stata riportata, il 2 ottobre, da Patrick Muyaya – portavoce del Governo congolese. La richiesta del presidente Tshisekedi arriva all’indomani delle conclusioni della Commissione indipendente, incaricata dall’OMS di indagare sulle violenze sessuali commesse – tra il 2018 e il 2020 – da dipendenti locali e staff internazionale impegnati nella lotta all’epidemia di Ebola. Secondo il report della Commissione, ben 82 persone (tra cui 21 dipendenti OMS) avrebbero compiuto abusi sessuali ai danni di decine di persone, sottolineando la presenza di “lacune strutturali” e “negligenze individuali” nell’ambito dell’OMS. Il presidente Tshisekedi ha espresso profonda indignazione per “tali atti spregevoli”. Al contempo, ha elogiato il coraggio dell’organizzazione internazionale per la pubblica denuncia dei crimini messi atti dai suoi agenti.
Ambiente – Greenpeace a Rotterdam lancia una petizione europea contro i combustibili fossili
Il 4 ottobre, oltre 80 attivisti – provenienti da 12 Paesi europei – hanno tentato di bloccare l’ingresso alla raffineria di Shell nel porto di Rotterdam. Il blitz ha rappresentato l’occasione per lanciare l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), con cui Greenpeace – insieme ad altre 20 organizzazioni – chiede di abolire “le pubblicità e le sponsorizzazioni dell’industria dei combustibili fossili in Europa”. Si tratta di una proposta legislativa di iniziativa popolare che la Commissione Europea dovrà considerare se “verrà raggiunto un milione di firme entro un anno”. Nello stesso giorno è stato pubblicato il report del gruppo di ricerca DeSmog dal titolo “Tante parole e pochi fatti. La verità dietro le pubblicità dei combustibili fossili“– commissionato da Greenpeace Paesi Bassi. Il documento rivela come “due terzi di un campione di pubblicità delle sei principali aziende europee dei combustibili fossili siano greenwashing“, ovvero messaggi fuorvianti per i consumatori che non riflettono le reali attività svolte dalle società. Ad esempio, solo l’8% degli annunci di Eni promuove i combustibili fossili, sebbene questi costituiscano circa l’80% del suo portfolio.