Il 26 giugno ricorre la Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura. Fu indetta dalle Nazioni Unite nel 1997, “in vista – ricorda l’ONU – della “totale eliminazione” di questa pratica “e dell’effettivo funzionamento della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”.
Sebbene non siano mancate le innovazioni e il progressismo in quell’anno di fine secolo (da Madeleine Albright che diventò il primo Segretario di Stato donna degli USA, ai 150 Paesi che firmarono il Protocollo di Kyoto sul surriscaldamento globale), la fine della tortura si rivelò tutt’altro che all’orizzonte.
Al contrario, è tuttora una piaga universale. In Occidente, prende spesso la forma di abusi di polizia e di isolamento. Inoltre, molti Paesi che formalmente ripudiano la tortura, si nutrono del business di strumenti concepiti e utilizzati solo per provocare dolore: ne abbiamo già parlato in un precedente articolo (Il business del dolore, il mercato e l’uso degli strumenti di tortura).
Essendo la tortura un crimine di diritto internazionale, il 26 giugno permette di ricordare a tutti gli Stati che la sua proibizione è vincolante, indipendentemente dal fatto che abbiano firmato i Trattati in merito o meno. Tuttavia, nel farlo è bene scegliere le parole adeguate.
Il termine vittima implica una connotazione di impotenza di fronte alla violenza. Suscita pietà nei confronti qualcuno a cui sono mancate le risorse per difendersi. Per questi motivi, potrebbe non descrivere adeguatamente le esperienze di alcune persone, o addirittura danneggiarne ulteriormente la salute mentale, spingendole a ritenersi deboli e incapaci di reagire anche in situazioni future di oppressione.
Certamente tutte hanno subìto degli abusi; è ovvio che ne siano rimaste traumatizzate. Ciò che cambia nel decidere di chiamarle sopravvissute, è che si lascia intendere che sono in grado di riprendere il controllo della propria vita.
Nel “sopravvivere”, la persona sta ancora lottando: sia attraverso il sistema giudiziario, sia per fare sensibilizzazione sul tema, o per imparare a vivere dopo l’aggressione. Il vocabolario della Treccani elenca questa opzione addirittura tra i contrari della parola “vittima”.
L’ONU ci tiene a ricordare che “aiutare le vittime di tortura non è carità, ma un obbligo legale. L’articolo 14 della Convenzione contro la tortura, ratificata finora da 157 Paesi, stabilisce che gli Stati devono garantire che una vittima di tortura sotto la loro giurisdizione ottenga una riparazione, compresi i mezzi per una riabilitazione più completa possibile.”
Non sarebbe appunto, per l’ONU in primis, più appropriato cambiare registro? Questi individui sono impegnati in un processo di lotta e di recupero a causa di qualcosa di esterno, che è intervenuto a minare la loro integrità.
In un fragile equilibrio universale di Paesi che finanziano un rimedio all’orrore che non riescono a eradicare da sé stessi (perchè, direttamente o indirettamente, continuano a perpetrarlo), rendiamo ai sopravvissuti ciò che è loro. Raccontando, per esempio, alcuni dei programmi finanziati dal Fondo volontario delle Nazioni Unite per le vittime della tortura e la loro importanza a livello globale: speriamo in questo modo di dar voce al coraggio e alla resilienza di queste persone che si battono per riacquisire dignità e ottenere giustizia.
Negli ultimi tre decenni, si stima che il Fondo abbia fornito assistenza per un valore di 140 milioni di dollari a più di 600 organizzazioni. Lo ha fatto assegnando sovvenzioni annuali (per una media di 30.000-40.000 dollari) a una serie di progetti.
Nell’ambito del Fondo, vengono riconosciuti anche i bisogni a lungo termine, le sofferenze dei cari e della comunità di chi ha subìto tortura: per questo, ancora oggi si sostengono iniziative che, per esempio, documentano gli orrori commessi durante il Governo militare negli anni ’70 e ’80 in Argentina e in Cile.
I progetti finanziati vanno da servizi di salute mentale ai rifugiati siriani e alle vittime degli attacchi dell’ISIS nel Nord dell’Iraq a un progetto di assistenza legale in Ucraina che si occupa delle violenze perpetrate nella regione orientale e in Crimea; o all’aiuto medico, psicologico e sociale in Senegal o a beneficio delle persone torturate nella Repubblica Centrafricana.
In Nigeria, il Fondo sostiene Avocats Sans Frontières France (Avvocati Senza Frontiere Francia). L’associazione è nel Paese dal 2014, per fornire servizi legali gratuiti ai sopravvissuti alla tortura in detenzione. Nonostante la Convenzione contro la tortura sia stata ratificata dalla Nigeria nel 2001, si registrano ancora numerose violazioni – non solo della Convenzione ONU, ma anche di altri strumenti giuridici pertinenti più datati, come la Carta africana dei diritti umani dei popoli o la Costituzione nazionale.
Tra le persone incontrate nelle visite dei legali alle carceri, c’è Elvis Davis. Il 29 luglio 2020, gli è stata resa la libertà dopo aver riconosciuto che la sua detenzione senza processo era anticostituzionale e violava i diritti umani. Davis era in carcere dal 2013.
Era stato arrestato dalla polizia e colpito a distanza ravvicinata durante il suo interrogatorio. Fu tenuto in custodia dalla polizia per tre mesi, anche se stando alla Costituzione nigeriana avrebbe dovuto essere chiamato in giudizio dopo un massimo di 48 ore. Il tribunale gli ha riconosciuto un milione di naira (circa 2.500 dollari) di danni.
In un altro Stato della Nigeria, una Corte ha ordinato una visita dal medico legale per Oguchi Kelechi Ihejirika, arrestato nel 2006 durante il suo esame di maturità alle superiori. Oguchi ha dichiatato di essere stato colpito alla mano, picchiato con lame di machete e accusato di rapina a mano armata. Prima che ASF Francia riportasse il caso all’attenzione del giudice nel 2020, l’ultima volta che il ragazzo era comparso davanti a un tribunale era stato nel 2007.
Secondo Angela Uwandu, che dirige le operazioni di ASF Francia in Nigeria, succede spesso che la polizia proceda con l’arresto prima di svolgere le indagini. “È per questo che ricorrono alla tortura, per costringere le persone a confessare i crimini, perché la confessione è la prova principale con cui vanno in tribunale.”
Molti dei casi difesi dall’organizzazione hanno ottenuto un giusto processo e riparazioni, altri sono ancora in corso; sentenze come quelle citate sono importanti per Uwandu perché “aiutano a dissipare l’ampia convinzione”, soprattutto tra gli avvocati locali, “che vincere cause contro la polizia per atti di tortura sia impossibile”.
Anche in Europa continua la necessità di supportare chi ha subìto tortura tramite azioni legali, talvolta molto prolungate nel tempo. Sempre nel 2020, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha adottato una sentenza storica sul caso di due famiglie richiedenti asilo, rappresentate dal Comitato Helsinki ungherese, che per cinque anni ha seguito la vicenda.
Le famiglie non hanno commesso nessun crimine. Dopo essere entrate nel Paese e aver richiesto asilo, però, sono state trattenute prima per 464 poi per 526 giorni in campi di container metallici circondati da recinzioni di filo spinato, in “zone di transito” che di fatto equivalevano a detenzione. La Corte ha deciso che questa situazione era illegale, obbligando l’Ungheria a modificare la propria legge sull’asilo.
Tra le associazioni finanziate dal Fondo, non manca chi ha dovuto modificare rapidamente e sensibilmente i propri servizi a causa del Covid-19. Infatti, molte delle attività presentate nell’ambito dei progetti che erano stati approvati dalle Nazioni Unite non hanno potuto avere luogo, perchè avrebbero messo a rischio la salute di operatori e beneficiari.
Di fronte alla pandemia, i team clinici del Center for Victims of Torture (CVT) in Giordania sono passati alle sessioni online: hanno usato telefonate, videochiamate, messaggi, e-mail e persino trasmissioni radiofoniche per restare in contatto con i beneficiari dei loro servizi. In un campo profughi, hanno trasmesso informazioni sulla salute mentale e la fisioterapia tramite gli altoparlanti.
Il CVT ha descritto quest’ultimo anno come estremamente difficile per molti sopravvissuti: l’obbligo di rimanere a casa può risvegliare ricordi ri-traumatizzanti, associati con la precedente prigionia.
Come per chiunque si sia trovato in una situazione di lockdown prolungato nell’ultimo anno, questo periodo può aggravare l’ansia e la depressione, di cui spesso chi ha subìto tortura soffre già in maniera acuta. Alcune persone che il CVT supporta hanno inoltre perso il lavoro nello stesso momento, ritrovandosi in una condizione di elevata insicurezza alimentare e abitativa.
I contributi al Fondo sono volontari e provengono essenzialmente da Stati membri delle Nazioni Unite. Ma parlare di vittime non aiuta necessariamente gli sforzi per raccogliere donazioni. Il Fondo stesso dichiara di avere una base di donatori limitata (soltanto 22 nel 2020) e mezzi insufficienti per rispondere a tutte le richieste di aiuto che riceve circa 10 milioni di dollari, ben al di sotto dei 21 milioni sperati.
Cosa può fare il singolo, di fronte alla vastità di abusi e all’impunità con cui la tortura viene ancora perpetrata a livello globale? Come individui, forse non possiamo sostituirci agli Stati nel donare milioni al Fondo – anche se, a dirla tutta, i contributi della società civile superano quelli di molti Paesi, arrivando a cinque volte tanto quanto offerto, per esempio, dal Vaticano.
Sicuramente però possiamo scegliere di riconoscere la forza di chi ha osservato il confinamento in un campo profughi, nonostante gli facesse rivivere il carcere; di chi si è fidato di avvocati stranieri, di chi ha avuto il coraggio di denunciare la polizia; di chi ha aspettato anni per ricevere un verdetto in suo favore e, nei casi più fortunati, un risarcimento. Se pensiamo alla tortura come a una violenza che ha lo scopo di uccidere non l’essere umano, ma la sua anima, la sopravvivenza è già una vittoria che merita di essere celebrata.
Cara Beatrice ancora una volta un articolo illuminante su un tema che purtroppo riguarda anche l’Italia…la violenza istituzionale del G8 di Genova del 2001 è storia recente. Continuiamo a tenere accese le menti e restiamo umani.
Articolo molto interessante, verso un problema che riguarda anche i paesi occidentali “civilizzati”, come ricordato nel commento precedente.
Ho riletto oggi l’articolo e ….Beatrice non smettere di scrivere!