Moschea al-Aqsa, testimonianza dalla Gerusalemme divisa in due

[Traduzione a cura di Silvia Godano dell’articolo originale di Adel Ruished pubblicato su The Conversation]

Poche ore dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, dichiarato venerdì 21 maggio, membri delle Forze di difesa israeliane (IDF) sono entrati nella moschea di al-Aqsa e avrebbero utilizzato lacrimogeni e granate stordenti per disperdere i fedeli musulmani in preghiera.

Durante lo stesso weekend, il personale dell’IDF ha scortato visitatori ebrei alla spianata del Tempio, che occupa il medesimo sito dell’al-Aqsa e ha un particolare significato religioso in quanto sede del tempio biblico. Secondo la Waqf, l’autorità islamica che controlla il sito, l’IDF avrebbe cacciato giovani palestinesi dal luogo e impedito l’ingresso a tutti i fedeli musulmani sotto i 45 anni. Secondo alcune testimonianze, sarebbero stati trattenuti alcuni manifestanti musulmani. Restano poco chiari i dettagli.

Questi incidenti sono stati descritti come tentativi di provocazione. Nel corso degli anni la moschea è stata teatro di violenze tra israeliani e palestinesi ed è stato lì che è scoppiata la seconda intifada nel 2000. Accadde quando Ariel Sharon, all’epoca primo ministro di Israele, visitò il sito con una scorta pesantemente armata non molto tempo dopo il fallimento delle trattative di pace a Camp David con il leader palestinese Yasser Arafat. La rivoltà durò 5 anni: si stima che costò la vita a circa 3000 palestinesi.

Nell’ambito del mio PhD in Scienze Politiche sono stato a Gerusalemme Est per intervistare un po’ di persone e capire quali siano i diversi metodi di controllo utilizzati dal Governo israeliano per regolamentare la presenza palestinese in città. Ho osservato le azioni di giovani attivisti palestinesi e sono rimasto colpito dal modo in cui riuscissero a evitare la violenza servendosi piuttosto di forme di protesta pacifiche per spiegare la loro posizione ai media internazionali.

Un chiaro esempio di questo risale ai primi giorni del Ramadan (dal 13 aprile al 12 maggio), quando la polizia di frontiera israeliana aveva installato barricate metalliche nell’area circostante la Porta di Damasco. Le barricate limitavano il movimento delle persone e rendevano impossibili le attività dei commercianti ambulanti locali. Le stesse barricate impedivano, inoltre, ai cittadini palestinesi di sedersi sui gradini della piazza, che è un luogo di incontro tradizionale dopo le preghiere serali durante il Ramadan.

Giovani attivisti palestinesi si sono così radunati in gruppi in tutta la piazza e attorno ad essa. Li ho osservati affrontare la polizia israeliana stanziata in prossimità delle barricate cantando e facendo alcuni esercizi di ginnastica. A ben guardare la polizia israeliana sembrava impreparata. Né il loro equipaggiamento né le loro regole li avevano attrezzati per affrontare questa forma pacifica di protesta.

Così hanno usato lacrimogeni e granate stordenti per sgombrare l’area. Inoltre, hanno spruzzato sui manifestanti un’acqua sporca sintetizzata chimicamente, che lascia un cattivo odore sugli abiti ed è difficile da rimuovere. Poliziotti a cavallo hanno inseguito, intimidito e disperso i giovani dimostranti. Ho assistito a tutto ciò dal balcone di un ristorante vicino, il cui proprietario è un mio amico. Un altro amico, che era tra i manifestanti, è stato colpito dagli spruzzi di acqua sporca.

La porta di Damasco. Foto di Dan da Flickr in licenza CC

I manifestanti hanno continuato a raggrupparsi e a ritornare sul sito. Le proteste sono proseguite per due settimane fino a che, il 26 aprile, le autorità israeliane non hanno ceduto alle pressioni e rimosso le barricate, consentendo così ai palestinesi di tornare a riunirsi nei luoghi d’incontro tradizionali negli ultimi giorni del mese santo.

Sfida allo sfratto coercitivo

Intanto si avvicinava la data del 17 maggio, termine stabilito dal Tribunale distrettuale israeliano per l’espulsione di numerose famiglie palestinesi dalle loro case nel vicino quartiere di Sheikh Jarrah. Al loro posto si sarebbero insediati i coloni. Le autorità israeliane hanno parlato in maniera fuorviante di “disputa immobiliare“.

Si tratta tuttavia di un atto che gran parte dei palestinesi vede come un’azione deliberata di “pulizia etnica per forzare un cambiamento demografico in un quartiere tradizionalmente arabo musulmano. Stando alle testimonianze, i coloni avrebbero intimidito e attaccato le famiglie palestinesi e i manifestanti, spesso con il sostegno delle forze di sicurezza israeliane.

I coloni avrebbero fatto ricorso a mezzi violenti, legali e illegali, come lo spray al peperoncino utilizzato contro i manifestanti che si preparavano per l’iftar, la prima colazione durante il Ramadan. Ancora una volta gli attivisti palestinesi, riuniti a sostegno delle famiglie minacciate di sfratto, hanno evitato la violenza scegliendo piuttosto di ballare la dabka e intonare canti patriottici.

Gli stessi attivisti hanno anche utilizzato i social media, postando regolarmente informazioni e dettagli su Twitter (con l’hashtag #SaveSheikhJarrah), Facebook e TikTok per mostrare le aggressioni per mano dei coloni e spiegare le questioni legali dietro ai tentativi di sfratto.

L’attenzione del mondo sui tentati sfratti così come il grande sostegno alle famiglie palestinesi minacciate hanno fatto sì che il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ordinasse il congelamento delle procedure di sfratto presso la Corte Suprema il 9 maggio.

Evitare la violenza

In maniera analoga, tenuto conto dell’elevata tensione, le autorità israeliane hanno compreso che far “sfilare la bandiera” per il quartiere musulmano di Gerusalemme e alla Porta di Damasco avrebbe potuto provocare nuovi focolai di violenza e condanne da parte di tutto il mondo. Per questo il percorso della marcia è stato modificato stabilendo che questa sarebbe passata attraverso la Porta di Jaffa per tenere i partecipanti più vicini a Gerusalemme Ovest, praticamente sulla linea di confine del 1967.

Sembra che le proteste pacifiche siano state almeno in parte la ragione per cui sono state perlopiù evitate esplosioni di violenza a Gerusalemme questa volta. Mi piace considerarla come la “primavera di Gerusalemme”.

Tuttavia la politica nazionale israeliana ha mostrato improvvisamente il rovescio della medaglia. Netanyahu si stava rendendo conto che, dopo l’elezione del 23 marzo, non avrebbe potuto formare un Governo. Il presidente di Israele, Reuven Rivlin, aveva chiesto a Yair Lapid, politico dell’opposizione, di formare una coalizione con il ministro della Difesa, Naftali Bennet. Questo avrebbe significato una perdita di potere per Netanyahu.

È in questo contesto che la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa. Le cronache hanno riferito di reazioni violente da parte dei musulmani nella moschea: alcuni attivisti avrebbero anche lanciato bombe molotov. Io ero lì e non ho visto nulla.

Nel frattempo i combattenti di Hamas hanno iniziato a lanciare missili nel territorio israeliano da Gaza, causando una imponente rappresaglia da parte di Israele. Per 11 giorni l’attenzione del mondo intero si è concentrata su quella piccola enclave palestinese, nella quale 2 milioni di persone erano praticamente sotto costante bombardamento degli aerei israeliani.

Nonostante questo, il 18 maggio i palestinesi a Gerusalemme Est hanno indetto uno sciopero di un giorno, ancora una volta pacifico. La protesta ha assunto una forma creativa, con tornei di scacchi nelle strade dove si trovavano le case delle famiglie minacciate di sfratto.

Dopo le pressioni della comunità internazionale, il 21 maggio Israele e Hamas hanno concordato il cessate il fuoco. Come sappiamo, poche ore dopo le forze di sicurezza israeliane sono entrate nella moschea di al-Aqsa e hanno disperso i fedeli in preghiera con la forza. Le provocazioni continuano, ma possiamo solo sperare che le manifestazioni pacifiche prevalgano e vengano evitati ulteriori conflitti violenti in questa città divisa.

Silvia Godano

Laureata in Filosofia Politica e Comunicazione Interculturale, vive da alcuni anni in Germania, dove si occupa di politiche per l’integrazione, dialogo interculturale e migrazioni. È inoltre giornalista pubblicista, traduttrice e viaggiatrice per passione.

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