Ambiente, i danni alla terra delle ‘erbe cattive’ create dall’uomo

[Traduzione a cura di Davide Galati dall’articolo originale di Natalie Bennett pubblicato sulla rivista britannica The Ecologist. Natalie Bennett è parlamentare del Partito Verde di Inghilterra e Galles.]

Il fatto che viviamo su un pianeta fortemente degradato e biologicamente impoverito, in cui gli ecosistemi naturali vengono maltrattati ed eccessivamente sfruttati, sta oggi emergendo nella coscienza pubblica. Ma non c’è ancora sufficiente consapevolezza sul contestuale aumento delle piante super-infestanti (superweeds) e la crescente vulnerabilità delle specie coltivate.

Qui nel Regno Unito, la petizione #StateofNature, appoggiata dai principali gruppi di pressione e orientata all’inserimento di obiettivi di recupero della natura entro il 2030 nel progetto di legge sull’ambiente [Environment Bill, in discussione al Parlamento britannico NdT], è andata ben oltre le 100.000 firme. Il numero crescente di specie iconiche e carismatiche, dal passero allo storno, ha attratto una notevole attenzione, e c’è molta gioia per ogni nuovo piccolo progresso a favore della natura, dalle liberazioni di castori alle reintroduzioni di farfalle.

A livello mondiale, gli Stati Uniti cominciano a riconoscere di non avere una frontiera infinita verso la quale spostarsi, e che la gran parte dei suoi vasti territori sono stati avvelenati dalle industrie dei combustibili fossili, macinati dallo sfruttamento, compreso quello del settore agrochimico.

Fiori selvatici

La Cina sta per presiedere la cruciale conferenza COP15 sulla biodiversità [ottobre, NdT]. Eppure anche qui vediamo i segni della crisi. Lo Yangtze era un tempo ricco e verdeggiante come il Rio delle Amazzoni. Ha perso il baiji, un aggraziato delfino un tempo adorato come una bella fanciulla trasformata in dea. E ora sta per perdere il pesce spatola dello Yangtze, un tempo il pesce d’acqua dolce più grande del mondo, e la tartaruga dal guscio molle.

Ma stiamo appena iniziando a scoprire e comprendere che c’è un’altra enorme area di perdita biologica, che rappresenta una minaccia di grande importanza per l’esistenza umana. È il danno prodotto da decenni di agricoltura industriale ai tessuti e alla sostanze delle piante da cui dipendiamo direttamente – le colture – e degli ambienti in cui vivono. Dovrebbe essere incluso nel lavoro della COP sulla biodiversità, ma sta ottenendo poca attenzione.

Il danno ai suoli è abbastanza noto, spesso viene citata la cifra secondo cui con le pratiche attuali sarebbero rimasti solo 60 anni di colture, così come la stima di 30-40 anni di fertilità nel Regno Unito, come citato in passato da Michael Gove [politico britannico ed ex segretario di Stato per l’ambiente, NdT].

Eppure, ciò che viene spesso discusso aneddoticamente, ma poco documentato, è il danno al contenuto genetico delle nostre attuali colture e il rafforzamento dei loro rivali per l’accesso all’acqua, ai nutrienti e alla luce, i fiori selvatici che spesso chiamiamo “erbacce”.

Nei trial in corso dagli anni ’60, la quantità di raccolto perso a causa delle erbe infestanti è cresciuta da un terzo negli anni ’60 a più della metà oggi.

Calorie

In quella che nell’era della pandemia di Covid-19 è diventata una storia tristemente familiare, la focalizzazione sul miglioramento genetico delle piante in termini di maggiore “efficienza” e “produttività” – con la selezione di piante che mettono più energia nel seme, e meno nella crescita di un buon stelo lungo per raggiungere la luce del sole – ha lasciato i raccolti nella necessità di lottare per competere con i loro compagni di campo selvatici e selezionati naturalmente, vagliati dalla natura per la resilienza.

Amaranthus palmeri, una varietà di amaranto concorrente di cotone e soia cha ha manifestato resistenza al glifosato, foto Flickr dell'utente Delaware Agriculture su licenza CC.
Amaranthus palmeri, una varietà di amaranto concorrente di cotone e soia cha ha manifestato resistenza al glifosato, foto Flickr dell’utente Delaware Agriculture su licenza CC.

I fertilizzanti azotati pompati nei campi hanno potenziato quelle “erbacce”, progettate dalla natura per essere brillanti nell’afferrare le risorse che possono, tanto, e probabilmente di più, delle colture per cui sono progettati.

Quelle “erbacce”, esseri tosti quali sono, stanno andando meglio nel clima caldo. I raccolti, nel frattempo, stanno letteralmente appassendo, per l’impatto delle ondate di caldo e della siccità triplicate in tutta Europa negli ultimi cinque decenni.

Anche le erbe infestanti stanno sviluppando una crescente resistenza agli erbicidi grazie al loro uso diffuso. Un altro studio recente parla di una “epidemia di resistenza”: i tentativi di mescolare il tipo di erbicidi utilizzati rischia di produrre una forma generale di resistenza a qualsiasi erbicida, vecchio o nuovo, chiamando, come sostengono i ricercatori, “in discussione l’ubiquità della gestione della resistenza basata su miscele e terapie combinate”.

Questo mentre abbiamo ridotto il pool genetico delle colture, e il numero di colture, a un numero bassissimo, con oltre il 50% delle calorie umane provenienti da sole quattro colture. E anche al di fuori di queste, altre colture significative, dalle banane alle arachidi , sono incredibilmente, pericolosamente povere di diversità, aperte alla distruzione radicale dalle malattie, mal equipaggiate per affrontare il clima in rapida evoluzione.

Varietà locali

La diversità delle colture coltivate è diminuita del 75% nel 20° secolo e si attende la diminuzione di un ulteriore terzo entro il 2050. Ciò sta accelerando un altro grande e poco riconosciuto impatto di secoli di globalizzazione. La manioca è arrivata nell’Africa subsahariana con i marinai portoghesi soltanto nel XVI secolo, ma ora ha sostituito molte colture tradizionali.

La palma da olio ha trovato un posto confortevole nell’Africa occidentale per millenni come importante e ricca risorsa alimentare locale però, trapiantata alcuni decenni fa in Malesia e Indonesia, è responsabile della vasta distruzione di preziose foreste pluviali, di scarso beneficio per la gente del posto, ma piuttosto per coloro che consumano i suoi prodotti come carburante, cosmetici e alimenti ultra-processati.

Un’ulteriore minaccia proviene da una tendenza ad aumentare la percentuale di colture che si affidano agli impollinatori, in particolare le api, per far crescere semi o frutti. Questo è generalmente accompagnato da un’enorme riduzione della diversità di specie sulla terra, il che rappresenta una minaccia per la sopravvivenza di quei cruciali impollinatori.

Quando studiavo Scienze agrarie in Australia tre decenni fa, il termine ‘varietà locali’ – non serie di piante selezionate per l’uniformità ma invece suites di diversità, adatte a una serie di condizioni e sfide – non era nemmeno menzionato. Eppure ora il concetto sta emergendo rapidamente nelle discussioni sull’agricoltura e la FAO ne sottolinea l’importanza.

Eppure, una ricerca nei documenti prodotti dal Parlamento britannico non ne trova alcuna menzione dall’inizio di questo secolo.

Nutrizione

L’agricoltura industriale è chiaramente un sistema pericolosamente fallito, la “Rivoluzione Verde” assomiglia sempre più a una versione moderna dello spargimento di sale romano sulle terre di Cartagine un tempo ricche.

Lentamente, tuttavia, emergono i principi del suo rovescio: l’agroecologia, un sistema di produzione che cerca di sviluppare sistemi in cui i suoli, le colture, le altre piante, la fauna selvatica e i flussi di nutrienti lavorano in armonia insieme, concentrandosi su resilienza e diversità – le stesse caratteristiche che abbiamo così danneggiato.

Questo è uno dei motivi per cui è particolarmente importante l’inchiesta attualmente condotta dal Gruppo Parlamentare di Agroecologia (APPGA) che cerca di stabilire la prassi, espressa nella terminologia formale del disegno di legge sull’Agricoltura (Agriculture Act), di una “soluzione basata sulla natura” ai problemi umani e naturali.

Ai tempi in cui Michael Gove si dedicava alle politiche agricole, l’ho sentito ammettere che gli approcci agroecologici avevano ricevuto solo una piccola parte dei finanziamenti per la ricerca, e poco è cambiato: i giganti dell’agricoltura globale non ne hanno alcun interesse, senza la possibilità di ricavarne soldi.

Ma si stanno compiendo progressi: agricoltori innovativi, ricercatori indipendenti, piccoli commercianti al dettaglio stanno ripristinando la diversità delle colture, cercando colture forti e resistenti che crescano bene in condizioni agroecologiche e forniscano un buon nutrimento per le persone, non solo vuote calorie.

Il Governo ci ripete, all’infinito, che mira a farci diventare leader mondiali. Ci sono poche aree di innovazione più importanti di questa a cui puntare. Ci possono essere davvero poche altre priorità per un Governo rispetto al garantire ai suoi cittadini che possano continuare a ricevere il nutrimento di cui hanno bisogno per la loro salute in un ambiente fiorente.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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