Nel 2020 persi 114 mln di posti di lavoro. E avanza la povertà

Il lavoro, diritto fondante di ogni società civile e presupposto della dignità dell’uomo è continuamente minato da ostacoli di vario genere: dalla disoccupazione elevata ai salari bassi fino alle condizioni di impiego senza alcuna tutela legale e rispetto della persona, ai limiti della schiavitù. Sono ancora troppe le sfide che questo sacrosanto e basilare diritto deve superare nel mondo.

Alcuni numeri relativi al 2020 aiutano a capire la situazione occupazionale a livello globale: 8,8% di ore lavorative in meno rispetto al 2019, equivalenti a 55 milioni di posti di lavoro a tempo pieno e circa quattro volte maggiori rispetto alla crisi finanziaria globale del 2009; diminuzione dell’8,3% del reddito percepito, che si è tradotto in 3.700 miliardi di dollari persi, ovvero il 4,4% del PIL (prima di attivare misure di sostegno da parte dei vari Governi a fronte della pandemia); 81 milioni di persone in più buttate fuori dalla forza lavoro.

La tragedia globale dell’epidemia di certo ha accelerato il peggioramento del quadro occupazionale nel mondo. Solo nel 2020, come sottolineano le statistiche dell’ILO (International Labour Organization), 114 milioni di posti di lavoro sono svaniti. Si è verificata soprattutto una crescente inattività (quando le persone non hanno e non cercano lavoro), che ha rappresentato il 71% delle perdite globali di occupazione, con una riduzione del tasso di partecipazione alla forza lavoro mondiale del 2,2% in più nel 2020, che ha così raggiunto la soglia del 58,7%.

La disoccupazione globale è aumentata di 33 milioni di unità l’anno scorso, con un incremento del tasso dell’1,1%, eguagliando la quota del 6,5%. Per alcuni Paesi i dati sono stati particolarmente allarmanti, aggravando condizioni già difficili per i lavoratori. E, di conseguenza, per il livello di sfruttamento, frustrazione, povertà.

Alcuni Stati infatti, nella rilevazione ILO e Banca Mondiale del 29 gennaio 2021, hanno registrato alla fine dell’anno scorso picchi di disoccupati, quindi persone che pur cercandolo non trovano un impiego, a doppia cifra percentuale.

Ma anche le nazioni che sono riuscite a mantenere livelli meno preoccupanti di disoccupati sul proprio territorio, hanno comunque registrato performance pessime. Basta, per esempio, soffermarsi su un dato: la disoccupazione di lunga durata, secondo la quale per almeno sei mesi una persona cerca ma non trova alcun impiego. L’allerta su questo indicatore è stata massima alla fine del 2020 in Stati non di basso reddito, come la Germania, dove i nuovi disoccupati di lungo termine sono aumentati di 500.000 unità; l’Austria, che ha visto un balzo del 37%; la Spagna che ha registrato un’impennata del 37% e la Francia, che ha contato 3 milioni di non occupati da oltre 6 mesi.

Stati Uniti e Canada hanno registrato anch’esse picchi degni di nota. Le persone senza lavoro da almeno sei mesi alla fine del 2020 erano il 2,8% della popolazione americana e il 2,2% di quella canadese. Numeri dietro ai quali si celano storie di persone sfruttate e disperate, di popoli impoveriti, di ingiustizie sociali, di ricchezze distribuite in modo sproporzionato e di strategie politiche spesso di scarsa incisività.

Impiegati in fast food USA protestano per un salario minimo garantito nel 2016 – Foto Fibonacci Blue – Flickr Creative Commons

La potenza statunitense è un esempio di tutto questo mix tragico per i lavoratori, che la pandemia ha fatto soltanto venire allo scoperto. Joe Biden non ha esitato a pronunciare una frase per alcuni versi scioccante in uno dei suoi primi discorsi: “Troppi americani stanno soffrendo la fame”.  

I dati relativi al legame tra povertà, disoccupazione, Covid hanno dato ragione alle parole del presidente. Dall’inizio della pandemia, 74,7 milioni di persone hanno perso il lavoro negli USA, soprattutto nelle industrie che pagano salari inferiori alla media. A gennaio 2021, circa 24 milioni di statunitensi hanno riferito di aver sofferto la fame e più di 6 milioni hanno affermato di temere di essere sfrattati a causa della loro incapacità di pagare l’alloggio. Al contrario, le persone con un reddito più elevato sono rimaste relativamente indenni dal punto di vista economico. Nonostante la peggiore contrazione economica dalla Grande Depressione, la ricchezza collettiva dei 651 miliardari degli Stati Uniti è aumentata di oltre 1.000 miliardi di dollari dall’inizio della pandemia, con un balzo del 36%.

La stessa Italia ha subito un calo occupazionale senza precedenti nel 2020. Lo ha rivelato l’ultimo rapporto Istat, secondo il quale il Paese ha perso un numero record di lavoratori nell’anno appena trascorso: 456.000, dei quali 249.000 sono donne. Forte è stata, inoltre, la crescita degli inattivi, che non hanno e non cercano un impiego: +3,1% nell’anno tra i 15 e i 64 anni.

Aggiungendo al tonfo del lavoro le difficoltà economiche innescate dalla pandemia, la nazione italiana ha riscontrato anche un aumento dell’incidenza della povertà assoluta sulle famiglie, arrivata al 7,7% nel 2020 rispetto al 6,4% dell’anno precedente. Tutti i miglioramenti di benessere raggiunti nel 2019 sono stati cancellati secondo il report Istat e ora il Paese ha sul territorio ben 2 milioni di familgie e 5,6 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta.

Un vero e proprio allarme è stato lanciato dalle Nazioni Unite anche per l’America Latina, devastata dalla pandemia e, di conseguenza, piombata in una crisi economica ed occupazionale molto seria. Tutta la regione rischia di tormare indietro di oltre 10 anni in termini di povertà. Questi dati sono eloquenti: dall’inizio dell’emergenza Covid, l’intera regione, che è già considerata la seconda al mondo per disuguaglianza, ha subito un calo del PIL del 7,7%, la chiusura di 2,7 milioni di aziende, un aumento del 2,6% della disoccupazione regionale, che ha raggiunto il 10,7%, con donne e lavoratori informali tra i più colpiti. La povertà estrema è balzata ai livelli visti l’ultima volta 20 anni fa, colpendo 78 milioni di persone. Secondo una stima del 2020 ben 491 milioni di persone vivono con un reddito inferiore di tre volte la soglia della povertà.

Venditore ambulante, lavoratore informale in Madagascar. Foto ILO - Flickr Creative Commons
Venditore ambulante, lavoratore informale in Madagascar. Foto ILO – Flickr Creative Commons

Fortemente colpito dalla crisi Covid è stato anche il lavoro informale, molto diffuso in alcune aree del mondo come i Paesi del Sud-Est asiatico. Qui, secondo un rapporto 2019 ASEAN, il tasso di occupazione informale nel settore degli alloggi e dei servizi alimentari variava dall’81% al 99% in Vietnam, Myanmar, Laos e Cambogia. Negli stessi quattro Paesi, i tassi di occupazione informale erano compresi tra il 70% e il 97% nel commercio all’ingrosso e al dettaglio e tra il 90% e il 99% nell’edilizia. Dallo stesso rapporto dell’ASEAN, si può stimare che in 8 dei 10 Paesi dell’ASEAN (esclusi Singapore e Filippine, che non hanno dati), 57,5 ​​milioni di lavoratori in questi quattro settori avevano un impiego informale prima della pandemia.

Con il Covid, questi lavoratori sono stati i primi a perdere il già precario impiego, precipitando non solo nella povertà, ma anche nell’esclusione da qualsiasi tipo di protezione e sussidio sociale. Un sondaggio condotto in Thailandia ad esempio, ha mostrato che circa i due terzi di coloro che hanno perso il lavoro nelle piccole e medie imprese tra maggio e giugno 2020 erano impiegati in modo informale, con l’81% occupati nel settore turistico.

I lavoratori informali di solito provengono da famiglie a basso reddito e quindi hanno pochi o nessun risparmio da parte per andare avanti in momenti di maggiore difficoltà. Hanno livelli di istruzione bassi, il che limita il loro accesso ad altre attività lavorative più qualificate. Un’indagine su 97.000 microimprese familiari a basso reddito nelle Filippine ha rilevato che tre quarti dei lavoratori sono caduti in povertà o si sono avvicinati ancora di più alla povertà, e quasi un terzo di tutti gli intervistati ha sofferto la fame dall’inizio della pandemia.

Una realtà, quella del lavoro informale, già evidenziata nei trends ILO per il 2020. Nel report l’organizzazione ha messo in evidenza che spesso avere un lavoro retribuito non è una garanzia di condizioni dignitose o di un reddito adeguato per molti dei 3,3 miliardi di occupati nel mondo (secondo i dati 2019). Solo in Africa, stando a dati del 2018, l’85,8% % dei lavoratori è cosiddetto “informale” e il 58% è impiegato in occupazioni di bassa produttività, scarsa qualificazione e pessime condizioni di paga e diritti.

La mancanza di reddito o di altri mezzi di sostegno finanziario costringe le persone a occuparsi in lavori informali, che offrono una paga bassa e forniscano poco o nessun accesso alla protezione sociale e ai diritti. Complessivamente, circa 2 miliardi di lavoratori nel mondo sono impiegati in modo informale. Essi rappresentano il 61% degli occupati a livello globale. Inotre, oltre 630 milioni di lavoratori in tutto il mondo vivono ancora in condizioni di povertà estrema o moderata e non riescono a garantire la sopravvivenza della famiglia pur avendo un impiego, guadagnando anche meno di 3,20 USD al giorno.

Per esempio, 19,5 milioni di lavoratori in America Latina e nei Caraibi non guadagnano abbastanza per sollevare se stessi e le loro famiglie dalla povertà. Questo è un numero elevato se si tiene presente il livello di sviluppo economico della sottoregione, che contiene molti Paesi a reddito medio.

E poi c’è la sfida della disuguaglianza di genere nell’occupazione. Nel 2019, il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro era di appena 47%, 27 punti percentuali al di sotto del tasso maschile (al 74%). Vi è una forte variazione regionale nelle disparità di genere all’accesso all’occupazione.

Stereotipi che enfatizzano il ruolo delle donne come principali caregiver e quello degli uomini come capifamiglia rimangono profondamente radicati in alcune regioni. La sottoutilizzazione del lavoro femminile è molto pronunciata in Nord Africa e negli Stati arabi, dove coinvolge circa il 40% delle donne in entrambe le sottoregioni (rispetto al 20 e al 12% degli uomini). Oltre all’accesso all’occupazione, ci sono anche persistenti disparità di genere in relazione alla qualità del lavoro. Questo è vero persino nelle regioni in cui le donne hanno fatto passi da gigante nel mercato del lavoro. In America Latina e nei Caraibi, ad esempio, il livello medio di istruzione femminile ora supera quella degli uomini, eppure le donne guadagnano ancora il 17% in meno all’ora lavorata rispetto agli occupati di sesso maschile.

Infine, resta da cancellare la vergognosa piaga del lavoro minorile. Non a caso l’Onu ha dichiarato il 2021 l’anno internazionale per l’eliminazione di questo fenomeno, che coinvolge ancora troppi bambini costretti a lavorare ed esclusi dall’istruzione.

Secondo le ultime elaborazioni ILO sul tema, relative al 2016, 152 milioni di bambini nel mondo sono costretti a lavorare, con 73 milioni di minori impiegati in occupazioni valutate come pericolose. Il settore agricolo assorbe il 71% di tutto il lavoro minorile e si traduce nell’impiego di 108 milioni bambini in termini assoluti. Nei servizi e nell’industria si contano 26 milioni e 18 milioni di minori impiegati, ma è probabile che queste attività diventino più rilevanti in alcune regioni in futuro di fronte a forze come il cambiamento climatico, che farà allontanare le famiglie dalle loro fattorie verso le città.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

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