Una Repubblica giovane, ex-colonia inglese, dai paesaggi mozzafiato e poco conosciuta nel vecchio continente.
Fino a pochi giorni fa il sole della speranza e della democrazia sembrava splendere alto in quel Paese che una volta si chiamava Birmania; in pochi istanti, però, molti giovani, cittadini e cittadine hanno visto sgretolarsi le aspettative di un futuro di pace e stabilità.
Avviene mentre la cronaca mondiale riporta la notizia dell’arresto di Aung San Suu Kyi a seguito di un colpo di Stato militare.
Voci Globali ha raccolto la testimonianza e il contributo di Linn Rasimelli, conoscitrice dell’Asia, continente dove ha vissuto e lavorato nell’ambito della comunicazione e del marketing.
Linn è co-fondatrice del gruppo “Voci dal Myanmar”, costituito da italiani che per motivi personali e/o professionali sono legati a questo Paese e dalla comunità birmana in Italia. Il gruppo nasce per fornire un’informazione corretta sugli avvenimenti di questi giorni e per dare voce al popolo del Myanmar e al Movimento di Disobbedienza Civile in protesta contro la dittatura.
Linn ha vissuto in Myanmar, ha avuto modo di conoscere questo “giovane” Paese e ha raccolto le voci di chi – in questi terribili giorni – sta lottando perché il golpe in atto possa essere contrastato da un popolo desideroso e bisognoso di un orizzonte duraturo di pace.
Vi ringrazio per esservi messi in contatto con Voci dal Myanmar.
Stiamo facendo il possibile – da qui – per sostenere i nostri amici e il popolo che manifesta nelle strade di tutto il Paese. É importante tenere alta l’attenzione su quello che sta succedendo.
Ho vissuto in Myanmar per due anni, nella capitale commerciale Yangon. Dopo aver trascorso sei anni in Cina, volevo scoprire un altro spaccato di Asia, così ho preso al volo l’opportunità di lavorare con un gruppo francese nel settore del marketing e della comunicazione. Occupandomi di progetti di comunicazione diretta con il pubblico ho avuto modo di viaggiare molto all’interno del Paese e ho avuto la fortuna di farlo con un team locale.
Con loro ho visto luoghi che non sempre si ha la possibilità di vedere e questo è stato per me un grande onore. Ricordo i villaggi a ore di distanza dalle strade principali dove non mi sono mai sentita in pericolo e sono sempre stata accolta in modo meraviglioso. Ho sviluppato subito un forte attaccamento per il Myanmar e il suo popolo. Ma non è una cosa rara, accade a quasi tutti gli stranieri che hanno la fortuna di passarci un po’ di tempo.
Oltre a essere un’area paesaggisticamente incantevole, il Myanmar è un Paese molto complesso, un luogo quasi onirico che, con la sua forte umanità, ha anche il potere straordinario di farti tornare con i piedi per terra. Confinante con India e Bangladesh da una parte, e Cina, Laos e Thailandia dall’altra, la Repubblica dell’Unione del Myanmar è uno Stato relativamente giovane, con una storia complicata, costituito da diversi popoli, culture, etnie e religioni. Questo è certamente il suo fascino, ma anche la radice di tutte le sue contraddizioni.
Chiediamo a Linn Rasimelli di farci una sintesi della storia del Paese degli ultimi anni.
Con il passaggio alla democrazia federale avviato nel 2010, sotto la guida e il supporto delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, dopo le prime elezioni democratiche del 2011 vinte dal partito della Lega Nazionale della Democrazia, il Myanmar è uscito con un forte slancio positivo da un lungo e buio periodo. Non solo il mondo, in particolare quello del business, aveva puntato moltissimo su questo Paese, ma il popolo stesso ha investito negli ultimi anni sforzi e fiducia nello sviluppo economico e sociale, affacciandosi a una modernità e a un benessere che non aveva mai conosciuto sotto la coltre della dittatura militare. L’entusiasmo che ho visto nei birmani, soprattutto sul lavoro, è impressionante.
Per oltre un secolo colonia inglese, devastata dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Unione della Birmania si dichiara indipendente dalla Gran Bretagna nel 1948 sotto la guida del generale Aung San che con l’accordo di Panglong, unisce in un unico Stato federale diversi territori governati da diverse etnie.
Dopo l’assassinio di Aung San per mano dei suoi oppositori all’interno della stessa giunta, si stabilì un debole Governo che dopo poco più di un decennio venne sostituito da un colpo di Stato militare nel 1962 che diede inizio a oltre 50 anni di dittatura militare. La dittatura nazionalizzò tutti i principali settori del Paese: economia, informazione e produzione e portò la popolazione a un grave impoverimento. Quello che poteva essere potenzialmente la nazione più ricca del Sud-Est asiatico è divenuta la più povera dell’area.
Nel 1988 ci fu una storica massiccia rivolta popolare, la Rivoluzione Zafferano repressa con grande violenza. Aung San Suu Kyi, figlia del generale Aung San e leader della Lega Nazionale della Democrazia, NLD, venne messa agli arresti domiciliari. Ci è rimasta per 15 anni.
Seguirono dunque anni di proteste e le regolari violente repressioni militari, il cambio del nome dello Stato da “Birmania” a “Myanmar”, e il misterioso spostamento della capitale da Yangon a Nay Pyi Daw.
Dopo le devastazioni dell’uragano Nargis e sotto una forte pressione internazionale, i militari cedettero alle elezioni che nel 2011 registrarono la vittoria dell’NLD ed elessero presidente Thein Sein. L’accordo tacito tra il partito di Aung San Su Kyi e la giunta prevedeva il mantenimento di un’importante fetta del potere nelle mani dei militari: il 25% di seggi, rendendo impossibile il cambiamento della Costituzione, oltre che la direzione di 3 ministeri, tra cui Difesa e Interni. Aung San Su Kyi non potrà mai diventare presidente secondo la Costituzione, perché sposata a un uomo di nazionalità diversa da quella Myanmar.
Cosa sta succedendo ora nel Paese e perché?
Dopo un decennio di governo da parte dell’NLD, e un lento processo di riforme verso la democrazia e lo sviluppo economico, il primo febbraio scorso nel Myanmar si è verificato un golpe. In seguito alle elezioni dell’8 novembre 2020, la giunta militare non ha riconosciuto la vittoria schiacciante dell’80% dei seggi da parte della Lega Nazionale della Democrazia.
Il partito, guidato e fondato da Aung San Suu Kyi, era al governo dalle prime elezioni democratiche del 2012. Una grave minaccia per la giunta militare, questa vittoria, che non solo avrebbe potuto portare all’indebolimento economico dei militari, ma avrebbe anche rischiato di portare alla modifica della Costituzione del Paese, che – come abbiamo detto – impone il 25% di seggi ai militari e la direzione da parte della giunta di tre ministeri, tra cui Difesa e Interni.
La notte tra il 31 gennaio e il primo febbraio, sotto il comando del Generale Min Aung Hlaing, i militari hanno arrestano la leader del partito del governo democraticamente rieletto, Aung San Suu Kyi, il presidente, U Win Myint e altre 40 persone tra esponenti del partito, parlamentari neo-eletti, monaci della Rivoluzione Zafferano, giornalisti e attivisti vicini all’NLD. Min Aung Hlaing ha dichiarato lo stato di emergenza di un anno fino alle nuove elezioni, e il conseguente trasferimento di tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario ai militari.
Il popolo, che ricorda ancora bene la dittatura militare che per 50 anni ha violato i diritti umani, distrutto il sistema educativo e cancellato la libertà d’espressione, ha iniziato a manifestare pacificamente il proprio dissenso, senza però scendere in piazza. La risposta è stata immediata: il nuovo Governo ha sospeso la rete Internet per due giorni, così come tutti i canali tv fuori dal controllo militare.
Il 2 febbraio è nato il Movimento di Disobbedienza Civile. A partire dallo sciopero del personale medico ospedaliero, il movimento si è diffuso in tutto il Paese e in moltissimi settori chiave. Medici, infermieri, insegnanti, studenti, dipendenti pubblici e organizzazioni religiose, sono scesi in strada insieme e marciando con comuni obiettivi e richieste: il riconoscimento delle elezioni del 2020, la liberazione dei leader dell’NLD e di tutte le persone detenute dal primo febbraio, e la ricostituzione della democrazia federale.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha richiesto l’immediato rilascio dei detenuti arrestati durante il golpe ed enfatizza la necessità di continuare a supportare la transizione democratica nel Paese, oltre al rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto e delle libertà fondamentali. Non è tuttavia riuscito a condannare direttamente il colpo di Stato a causa del veto di Cina e Russia. L’ONU ha sollecitato i Paesi dell’Unione Europea e ha richiesto il ripristino del governo democraticamente eletto e l’immediata scarcerazione delle persone detenute arbitrariamente dall’1 febbraio.
Le Nazioni Unite in Myanmar hanno dichiarato il supporto al popolo birmano in protesta e reclamato il diritto delle persone a manifestare pacificamente. Durante la seconda settimana di proteste, inoltre, le ambasciate di tutti i Paesi dell’UE, Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada hanno espresso sostegno al popolo birmano con una dichiarazione comune di grave preoccupazione e dissenso per la risposta violenta e incostituzionale della giunta militare che ha attaccato i manifestanti disarmati, arrestato e picchiato nella notte attivisti, manifestanti, giornalisti.
Gli ambasciatori hanno infine condannato gli atti illegali e violenti degli ultimi giorni e il blocco di Facebook e altri social media nonché il frequente taglio delle linee di telecomunicazione.
Il popolo del Myanmar non dorme sonni tranquilli da settimane, nel terrore di essere svegliato nella notte e portato in carcere senza spiegazioni né mandati, come prevede la nuova legge marziale.
Cosa possiamo fare per sostenere il popolo del Myanmar?
É necessario tenere alta l’attenzione su quello che sta avvenendo, fare una corretta informazione e diffonderla all’opinione pubblica. Come dicevo prima il Myanmar è un Paese complesso perciò le notizie vanno contestualizzate. Un’informazione priva di contesto ha di fatto indebolito il sostegno internazionale all’NLD al Governo di una democrazia molto fragile, già il potere del partito “di governo” era molto limitato e nel pieno di un lento processo di effettiva democratizzazione del Paese. Oltretutto c’è da tenere in considerazione che il Myanmar è l’unica semi-democrazia, in un’area geografica e culturale dove le giunte militari hanno un peso politico, ma soprattutto economico molto importante.
Non si può rischiare di commettere errori in questo momento. Oggi si parla di sanzioni da parte di UE e USA come azioni per esercitare pressione sulla dittatura militare, ma è necessario tenere conto che sanzioni commerciali, se non mirate al business in mano ai militari, incoraggeranno solo il ritiro della aziende e degli investimenti stranieri, andando a intaccare le fasce sociali medio-basse colpendo solo l’economia della popolazione nel suo complesso. Oltretutto, solo una limitata fetta del commercio estero del Myanmar riguarda Europa e USA, mentre la maggior parte dei guadagni proviene dai vicini Paesi dell’ASEAN come ha ricordato l’onorevole Fassino – già inviato UE in Myanmar – in una recente intervista.
Grazie a Linn siamo entrati in contatto con un giovanissimo attivista (23 anni) del Movimento di Disobbedienza Civile del Myanmar che ci ha chiesto di poter essere lasciato nell’anonimato.
Come ti senti rispetto a quello che sta succedendo nel tuo paese in questo momento?
Innanzi tutto c’è molta preoccupazione riguardo all’impatto che questi eventi avranno sul nostro futuro e su un possibile assalto al popolo da parte dei militari. C’è molta paura, ma questo tipo di offesa da parte dei militari non è la prima volta che si manifesta. Quindi, allo stesso tempo, stiamo anche cercando il coraggio di fare tutto il possibile per abolire questo colpo di Stato.
Sostieni il Movimento di Disobbedienza Civile? Quali sono gli obiettivi principali del movimento?
Il CDM è molto importante, ci sono molti ostacoli e siamo davvero messi alla prova ogni giorno, ma stiamo crescendo e stiamo anche diventando più forti. In questo momento ci stiamo rifiutando di pagare qualsiasi tipo di tassa e di obbedire a qualsiasi ordine da parte dei militari.
A oggi, quali settori si sono uniti al movimento?
Alla testa del movimento c’è la sanità pubblica, i trasporti e le municipalità. Nel movimento sono anche coinvolte persone che lavorano nel settore bancario, finanziario e giuridico. Persino membri delle forze armate e poliziotti si sono uniti al movimento.
Abbiamo visto che alcuni poliziotti si sono uniti ai manifestanti. Qual è il loro rapporto con la giunta e come sono visti tra le forze armate?
La maggior parte dei poliziotti che si sono uniti alle proteste sono quelli a più stretto contatto con il pubblico. La maggior parte provengono dalle fasce più basse della gerarchia del comando o sono nuove reclute. Sembra che si tratti proprio di quelli che ancora non hanno ricevuto un completo lavaggio del cervello dal sistema militare corrotto.
Con i militari al potere quali saranno le conseguenze per minoranze etniche e i conflitti già attivi in alcuni Stati?
È difficile parlare di questo. I militari e le forze armate delle minoranze etniche hanno relazioni particolari e diverse tra loro. Per esempio, l’Armata Arakan (AA) che controlla le zone di frontiera del Rakhine, era molto attiva in azioni ribelli, anche se non con veri e propri attacchi sotto il governo civile, ma ora è stranamente molto tranquilla. Tutte le azioni di protesta contro l’atto illegittimo dei militari partono dai civili che non sono in possesso di armi. La giunta militare al potere ha anche dimostrato un forte nazionalismo il che mi preoccupa molto per le minoranze e le possibili azioni di propaganda volte a creare conflitti.
Cosa chiedete alla comunità internazionale?
Siamo in lotta contro un’oppressione feroce e buia. Siamo un in momento molto buio. Il popolo del Myanmar ha manifestato anche di fronte alle ambasciate con la speranza di ricevere un aiuto dalla comunità internazionale che vada oltre le dichiarazioni di preoccupazione o incoraggiamento. Chiediamo aiuto nel far sentire la nostra voce e chiediamo loro di unirsi a noi nella lotta contro quest’oppressione condannandone i responsabili su tutti i fronti possibili.
Ci ha colpito una frase di Aung San Suu Kyi che ribalta la nota citazione di Bertolt Brecht “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” affermandone, però, il medesimo contenuto. In questo senso dedichiamo un augurio a tutte quelle persone che hanno deciso di non star zitte, di protestare, di mettere in gioco la vita per la democrazia, pensando a loro proprio a come degli eroi:
“Per quanto mi riguarda, voglio che tutti siano eroi, così non avremo bisogno di speciali eroi per il nostro Paese.” Aung San Suu Kyi.
Grazie per questa stupenda testimonianza. Mentre la gente si organizza per il pranzo pasquale io mi sono preso la briga di cercare più informazioni possibili su questa triste storia. Sto male per loro. Mi sento così inutile …. e sta cosa mi fa sentire ancora peggio. Ciao scusate le chiacchiere.