L’Arabia Saudita continua a essere una delle nazioni osservate speciali sul fronte diritti umani. Nonostante la nazione stia tentando di colmare alcune lacune, non è riuscita a cancellare l’etichetta di Paese tra i più repressivi del Golfo e del mondo.
Il 2020 è stato ancora un anno nero per quanto riguarda libertà, democrazia, diritti fondamentali. L’elenco di violazioni commesse dal Regno è lungo e vergognoso. Dalla campagna militare contro il gruppo ribelle Houthi nello Yemen, con attacchi aerei illegali che hanno ucciso e ferito migliaia di civili, alla detenzione arbitraria di dissidenti, attivisti per i diritti umani e religiosi indipendenti, ai processi senza alcuna difesa e con l’uso di torture contro detenuti “accusati” di attivismo pacifico e dissenso, fino al trattamento delle donne, ancora lontane dal raggiungimento del pieno rispetto della dignità umana.
Basti pensare che nonostante le importanti riforme negli ultimi anni, inclusa la fine delle restrizioni di viaggio (le donne sopra i 21 anni, come gli uomini, ora possono ottenere passaporti e spostarsi all’estero senza il permesso di un tutore), le donne saudite devono ancora ottenere l’approvazione di un protettore maschio per sposarsi o accedere a determinate cure mediche. Continuano, inoltre, a subire discriminazioni in relazione al matrimonio, alla famiglia, al divorzio e alle decisioni relative ai bambini, inclusa la custodia dei figli. Gli uomini possono ancora presentare cause contro figlie, mogli o parenti di sesso femminile sotto la loro tutela per “disobbedienza”.
Senza tralasciare la complessa vicenda dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018, per la quale si è svolto un processo farsa, senza alcuna trasparenza e con condanne fantoccio contro agenti di grado inferiore a pene detentive di 7-10 anni, a coprire coinvolgimenti ben più elevati, che arriverebbero addirittura al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
In questa desolante cornice sulla monarchia, fatta più di ombre che di luci, il mondo del lavoro non fa eccezione: un’analisi delle regole e dei diritti applicati agli occupati nel Regno, infatti, mostra quanto i lavoratori siano assimilabili a veri e propri schiavi. Assenza totale di garanzie, abusi fisici, mancati pagamenti degli stipendi, sfruttamento su orari e mansioni, negazione della libertà di movimento sono tra le più diffuse violazioni verso la manodopera impiegata in Arabia Saudita e formata soprattutto da migranti.
Il perno di tutte queste ingiustizie è l’ormai celebre sistema di “sponsorizzazione del visto“, al-kafala system, sul quale si basa gran parte del reclutamento e delle regole occupazionali dei Paesi del Golfo. E che, da sempre, in Arabia Saudita trova l’applicazione più rigida e crudele.
Di cosa si tratta? In teoria è un metodo emerso dopo la scoperta del petrolio nella regione del Golfo negli anni ’50 e utilizzato per monitorare i lavoratori espatriati e impiegati specialmente nel settore petrolifero.
Da allora è diventata l’unica via per la manodopera straniera – per lo più da Filippine, Bangladesh, India, Pakistan, Kenya e altri Paesi africani – di lavorare e rimanere nel Regno. Il sistema al-kafala richiede l’obbligo di avere uno sponsor dell’Arabia Saudita, di solito il datore di lavoro o un’agenzia, che diventa il diretto e unico responsabile del visto e controllore arbitrario dello status legale e giuridico del lavoratore espatriato. Di fatto, colui che offre lavoro, lo sponsor, diventa un vero e proprio padrone della vita del migrante giunto nel nuovo Paese per sopravvivere o tentare di migliorare la propria condizione economica.
Senza il consenso dello sponsor il lavoratore non può prendere autonomamente alcuna decisione che riguardi la propria vita, come cambiare occupazione o tornare in patria. Non solo, costrette ad obbedire al padrone, spesso queste persone sono vittime di veri abusi, come la confisca del passaporto, la trattenuta dei salari, lo svolgimento di mansioni senza riposo o possibilità di consumare i pasti.
Le persone che lasciano il datore di lavoro senza il loro consenso possono essere accusate di “fuga” e rischiano la reclusione e l’espulsione perché considerate dei fuorilegge. Nel novembre 2017, per esempio, l’Arabia Saudita ha lanciato una campagna per imprigionare a tappeto gli stranieri trovati in violazione delle leggi esistenti in materia di lavoro e residenza, come quelli senza permesso di soggiorno o di lavoro valido (spesso ne sono privi perché i documenti sono confiscati dai datori di lavoro stessi).
Nel mirino sono finite anche le persone trovate a lavorare per un “padrone” diverso dal loro sponsor legale. Il 21 settembre 2019, le autorità hanno annunciato che l’iniziativa aveva portato a oltre 3,8 milioni di arresti, tra cui 3 milioni di persone in violazioni della legge sulla residenza e circa 595.000 delle misure sul lavoro. In quella occasione, sono state anche deportate 962.000 persone in Etiopia o in centri di detenzione sauditi, noti per le loro condizioni disumane.
Ormai tali prevaricazioni e violazioni dei diritti umani sono denunciate da organizzazioni e testimonianze e coinvolgono una fetta di popolazione residente in Arabia Saudita non trascurabile. Basti pensare che quasi un terzo dei 34 milioni di persone che abitano nella monarchia sono lavoratori migranti il cui status giuridico nel Paese è controllato dal datore di lavoro. Sono loro che continuano ad accrescere l’esercito di moderni schiavi in Arabia saudita. Anche il Parlamento Europeo ha esortato la nazione del Golfo ad abolire la procedura al-kafala applicata ai migranti, considerandola:
un sistema abusivo di sponsorizzazione dei visti indicato dalle organizzazioni per i diritti umani come schiavitù moderna.
Uno spiraglio di cambiamento è arrivato nell’autunno scorso, quando le autorità saudite hanno annunciato riforme proprio per allentare il vergognoso sistema di sponsorizzazione e dare un nuovo volto al mondo del lavoro, a partire da marzo 2021.
La proposta si inserisce nel più ampio quadro di cambiamenti sponsorizzati con grande enfasi attraverso il progetto Vision 2030. Un piano ambizioso, con il quale il principe ereditario Mohammed bin Salman intende soprattutto mettere in vetrina il suo Regno per renderlo attrattivo, dinamico, vivace in opportunità finanziarie, diversificando l’economia finora troppo dipendente dall’industria petrolifera. E cercare di cancellare, almeno in apparenza, alcune ombre su temi ormai non trascurati a livello internazionale come le libertà e i diritti fondamentali.
Nello specifico, le riforme del sistema di sponsorizzazione elimineranno alcune restrizioni per consentire ai lavoratori migranti di cambiare lavoro dopo aver terminato il loro contratto o dopo un anno, con un periodo di preavviso. Sarà permesso, inoltre, richiedere la possibilità di uscita dall’Arabia Saudita senza l’approvazione del datore di lavoro.
Ma queste sono piccole modifiche riguardanti due degli elementi più oppressivi del sistema al-kafala. Poiché i dettagli completi delle nuove norme non sono stati resi pubblici, è difficile valutare se davvero il meccanismo verrà cancellato. Anzi, al momento ciò che emerge della riforma sono soprattutto le perplessità e la convizione che si tratti di una modifica di facciata e non sostanziale sul piano dei diritti.
Ali Mohamed, un ricercatore di Migrant Rights, ha detto che il sistema “al-kafala” persisterà fintanto che sia i visti di lavoro che quelli di soggiorno saranno legati a un individuo, noto appunto come sponsor. Ha anche osservato che le condizioni disumane dei migranti imprigionati nei centri di detenzione dell’Arabia Saudita esistono indipendentemente da al-kafala e nessuno li ha aboliti.
Inoltre, le informazioni rilasciate non specificano se i datori di lavoro possono continuare a segnalare i lavoratori in fuga o annullare il visto di un loro dipendente prima che esso richieda il trasferimento per un nuovo lavoro. Il rischio è che il lavoratore venga privato dei documenti e sia passibile di arresto e deportazione.
Infine, ciò che più indigna è che la riforma – o presunta tale – del sistema di sponsorizzazione si applica soltanto ai lavoratori stranieri del settore privato (imprese edili e del petrolio soprattutto) e non ai migranti impiegati come personale domestico. Una mancanza grave, considerando che questi ultimi sono le principali vittime di abusi. Sono diverse le testimonianze di soprusi che questa ampia categoria di occupati in Arabia Saudita ha subito e continua a subire.
Alcuni conducenti privati indiani al servizio di famiglie saudite hanno raccontato di aver lavorato anche 18 ore al giorno senza una giornata di riposo, con stipendi spesso decurtati in modo arbitrario del 50% e senza nemmeno il tempo di pranzare. Queste le parole dei lavoratori: “È come se mi possedessero, quindi devono usarmi in ogni momento”.
Non solo, i migranti sono spesso già indebitati al loro arrivo e ulteriori ritardi o detrazioni del salario ostacolano il rimborso del prestito. Gli autisti, per esempio, pagano anche tra $ 626 e $ 1.355 per i visti di lavoro e per i viaggi aerei in Arabia Saudita. Di fatto, le tasse di reclutamento vengono addebitate ai lavoratori stranieri domestici. Alcuni migranti, quindi, hanno preso prestiti privati con interessi per pagare gli agenti di lavoro e le imposte sui visti, mentre altri hanno utilizzato i risparmi di una vita ancora prima di iniziare il nuovo impiego nel Regno.
Shefali è una delle migliaia di lavoratrici domestiche del Bangladesh che sono emigrate nella nazione del Medio Oriente in cerca di salari più alti e di una vita migliore. Le sue parole sono eloquenti:
Mi picchiavano con fili e bastoni. Ho le gambe piene dei segni della tortura… Ogni volta che chiedevo cibo, mi picchiavano.
Ha resistito tre mesi, prima che l’agenzia la facesse tornare in Bangladesh, dove è stata ricoverata 20 giorni in ospedale. Una storia di simile drammaticità è quella di Begum, cameriera in una famiglia saudita per 235 dollari al mese, costretta a lavorare anche 15 ore al giorno, senza mai la possibilità nemmeno di telefonare una volta alla famiglia. La donna ha subito anche molestie sessuali nella casa.
A peggiorare la situazione dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita è arrivata anche la pandemia, che ha esacerbato le condizioni disumane dei migranti. Quando alcune donne africane hanno perso il lavoro come lavoratrici domestiche a causa della diffusione del coronavirus, l’agenzia che le aveva reclutate le ha buttate in una stanza con qualche materasso e ha chiuso la porta a chiave. Le donne ricevono cibo una volta al giorno ma non sanno quando usciranno, tanto meno se potranno tornare nei loro Paesi. Una di loro è incinta, ma non riceve cure e un’altra è stata legata al muro con una catena.
Le sfide che deve affrontare seriamente l’Arabia Saudita per dare realmente una svolta al mercato del lavoro sono molte. Innanzitutto sul piano delle tutele e dei diritti, naturalmente. E poi sul fronte delle opportunità. La disoccupazione resta a livelli elevati tra la popolazione nazionale, con le donne a rappresentare appena il 18% della popolazione che ha un lavoro. Troppo ampia, inoltre, resta la differenza tra i salari nel settore pubblico (dove sono impiegati i sauditi) e quelli nel settore privato (nel quale l’80% di lavoratori sono migranti).
Per cancellare davvero le ombre sulla sua reputazione, la monarchia saudita dovrà affrontare questioni basilari come la giustizia sociale, il rispetto della dignità umana, la considerazione del lavoro come un diritto.