In un’epoca in cui la violenza è purtroppo protagonista indiscussa del racconto mediatico e atteggiamenti intolleranti e neofascisti sono in aumento in quasi tutta Europa (e non solo), è importante riflettere sul ruolo che ha avuto e può ancora avere la resistenza nonviolenta.
Il termine resistenza potrebbe trarre in inganno e condurre a pensare ad un uso della forza e magari ad un uso coercitivo di essa che può arrivare a ledere la persona umana. Infatti se si decide, per curiosità, di consultare un vocabolario, si potrà vedere che al termine “resistenza” verrà accostato il termine “militare” o che il “diritto di resistenza”, dal punto di vista giuridico, verrà considerato come “il diritto di opporsi, anche con la violenza, a ogni attentato o minaccia recati ai diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo da parte del potere costituito”.
La violenza oggi è davvero molto diffusa, basti pensare agli ultimi avvenimenti verificatisi negli Stati Uniti con l’attacco al Congresso organizzato da diversi sostenitori di Trump, che hanno fatto riemergere l’importanza della nonviolenza e di come sia necessario il ritorno ad una manifestazione pacifica del dissenso.
Allargando gli orizzonti e pensando a figure come Gandhi, Gene Sharp o Danilo Dolci, si approda all’aspetto nonviolento della resistenza.
La resistenza nonviolenta è una forma di lotta in cui troviamo persone disarmate che affrontano un avversario utilizzando, il più delle volte, un’azione collettiva – proteste, scioperi e boicottaggi – per raggiungere obiettivi politici e mettere in moto un cambiamento.
Gandhi ci ha fornito una nuova visione della resistenza cambiandone la natura. Ci ha infatti presentato una forma di resistenza basata sulla disobbedienza civile e la non collaborazione con l’avversario. È giusto ricordare il contesto in cui Gandhi agiva, quello del colonialismo, dell’occupazione da parte dello straniero. Grazie all’ideazione del concetto di nonviolenza è riuscito a conquistare il cuore dei suoi avversari portando l’India all’ottenimento dell’indipendenza e alla fine dell’Impero anglo-indiano.
Il potere del “Mahatma” era infatti l’amore, lo stesso amore che Martin Luther King ha usato per la sua lotta per i diritti civili degli afroamericani. Studiando e approfondendo il “Gandhismo” ha infatti affermato:
La resistenza nonviolenta non cerca di sconfiggere o umiliare l’avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione. […] L’escalation della violenza non fa altro che intensificare l’odio nel mondo mentre al centro della nonviolenza c’è il principio dell’amore.
La tecnica usata da Gandhi vede infatti l’avversario come un essere umano che non deve essere annientato poiché ha la possibilità di cambiare e migliorare.
Il suo pensiero arriva fino in Italia, a Perugia, dove Aldo Capitini lo fa suo. Chiamato il “Gandhi italiano”, Capitini ha cercato di usare la dottrina gandhiana per opporsi al fascismo. Si è servito di manifestazioni, ha organizzato marce per la pace, conferenze sulla nonviolenza e soprattutto ha fatto un regalo a tutti i suoi seguaci fondando il Movimento Nonviolento per la pace.
La teoria della nonviolenza non si ferma qui: Gene Sharp è un altro importante protagonista di questa corrente di pensiero, famoso per i suoi studi sull’argomento. Per Sharp la resistenza nonviolenta deve diventare massiccia, coinvolgere il maggior numero di persone possibili per essere incontrollabile da parte del nemico e quindi efficace. Deve consistere nel “boicottaggio” del sistema.
Sharp è il fondatore dell’Albert Einstein Institution, organizzazione non profit dedicata a promuovere lo studio dell’azione nonviolenta. È proprio a questa organizzazione che va il merito della formulazione dei 198 metodi per un’azione nonviolenta, che serve per convincere i più scettici della forza e validità di tale approccio.
I modi di reagire senza l’uso della forza o di armi, e senza ferire l’altro fisicamente, sono molteplici. Le parole, le manifestazioni pacifiche in piazza, la scrittura di articoli, parate, sono solo alcune delle opzioni che si hanno a disposizione per manifestare il dissenso.
C’è chi ad esempio ha usato anche la tecnica del digiuno, come Danilo Dolci, attivista italiano della nonviolenza, che come atto di ribellione decise di smettere di mangiare. Danilo Dolci inizia ad avvicinarsi alla teoria della resistenza nonviolenta una volta fuggito in Abruzzo, in seguito al suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Qui inizia a formarsi in lui un’avversione nei confronti del militarismo e della violenza in generale.
Arrivato in Sicilia, si rende conto dell’estrema povertà in cui vivono molte persone e così, istintivamente, come reazione ad una realtà ingiusta, inizia a prendere forma la sua azione di resistenza nonviolenta. In un’intervista ha affermato:
Allora cominciai a digiunare. Non c’era un ragionamento preciso, non avevo letto Gandhi, sapevo solo che non potevo accettare che esistesse un paese senza fognature, senza strade. Anzi le fognature erano le strade stesse. Volevo manifestare istintivamente la mia solidarietà. Avevo la vaga intuizione […] che nella zona le cose potessero cambiare.
Da questa prima iniziativa, si susseguono una serie di azioni nonviolente fino alla nascita de “Il centro studi e iniziative per la piena occupazione”, che ha portato molti giovani in Sicilia per rafforzare il fronte civile di “resistenza, senza sparare”.
Il War Resisters’ International, la rete internazionale di associazioni pacifiste e antimilitariste, con sede a Londra, ha lavorato alla pubblicazione di un manuale per le campagne nonviolente, che mira a porre fine alla violenza, sia essa fisica, strutturale o culturale, senza commettere altre violenze.
Per i membri di questa rete, la nonviolenza non è solo un modo di vivere ma è anche e soprattutto un’azione per l’affermazione della vita stessa, per riconoscere il valore di ogni essere umano, anche del proprio avversario.
Come si evince da uno studio pubblicato di recente, la resistenza civile nonviolenta negli ultimi cinquanta anni ha trovato la sua massima espansione: infatti sono molte le mobilitazioni organizzate da movimenti rivoluzionari che hanno cercato di opporsi al potere costituito.
Dagli anni Settanta c’è stato un incremento delle campagne di resistenza nonviolenta in tutto il mondo, per poi aumentare massivamente tra il 2010 e il 2019.
Il 2019, appunto, ha visto una grande ondata di movimenti antigovernativi di massa e nonviolenti della storia, che hanno portato alla caduta di governi che sembravano senza fine.
Tra questi la rivolta popolare in Algeria scoppiata in seguito all’annuncio dell’allora presidente Abdelaziz Bouteflika che, dopo essere stato in carica per vent’anni, aveva posto il suo nome sull’elenco dei candidati per un quinto mandato.
L’idea del presidente è stata però rovesciata dalle proteste pacifiche ricordate con il nome di Revolution of Smiles, organizzate prevalentemente da studenti, che hanno marciato a migliaia per rivendicare uno Stato democratico. Uno dei motti della rivoluzione era proprio questo: “Stato civile non militare“, per sottolineare la volontà pacifista e anti violenta.
Altro esempio di potente rivolta popolare nonviolenta è il Sudan. Omar Hassan al-Bashir, conosciuto per le diverse atrocità commesse negli anni, fra tutte il massacro in Darfur, e condannato da tutto il mondo, alla fine è stato costretto dal popolo sudanese ad abbandonare il suo ruolo dopo una serie di proteste. Queste in realtà hanno caratterizzato il suo intero mandato e sono culminate proprio nel 2019 con un sit-in di quasi una settimana, un’azione tenuta fuori dal complesso del ministero della Difesa nella città di Khartoum.
Il popolo sudanese non si arrenderà finché non vedrà l’arrivo di un sistema democratico e pacifico. Infatti all’annuncio, da parte dell’esercito, della fine del governo del presidente sostituito da un consiglio di transizione guidato dai militari stessi, i manifestanti si sono ripromessi di continuare la loro campagna per la riforma democratica.
Le manifestazioni pacifiche possono cambiare molte cose senza, appunto, l’uso della forza e della violenza. La resistenza civile, il potere popolare, sembrano – in alcuni luoghi – aver preso il sopravvento, diventando un pilastro dell’azione politica in tutto il mondo.
Ma cosa è accaduto nel 2020? A causa del Covid-19 è diventato sicuramente più difficile attuare azioni di resistenza nonviolenta. La pandemia ha reso difficile scendere in piazza, organizzare azioni collettive e creare un senso di appartenenza a movimenti e associazioni.
Però un modo per contribuire c’è, con la scrittura, l’attivismo sui social, fare corretta informazione e soprattutto diffondere concetti chiave della dottrina nonviolenta.