Pirati dei Caraibi ai tempi della Brexit: la guerra delle banane

C’è una nazione che confina sia con la Francia che col Venezuela, via mare. Lo sporadico traghetto di collegamento con Guadalupa, più che navigare, galleggia: in un paio d’ore raggiunge una costa verde, costellata di baracche variopinte e palme cadute sulla spiaggia.

A bordo, i passeggeri trasportano frigoriferi, galline e altri prodotti che scarseggiano a destinazione; ma niente fiori o frutti tropicali, la cui importazione è vietata a tutela di un delicato ecosistema. La capitale in cui si sbarca, Roseau, è grande solo pochi isolati.

Simbolo della biodiversità, ultima isola caraibica a essere colonizzata grazie alla resistenza degli irriducibili indigeni Kalinago, il micro-Stato della Dominica è più vittima che beneficiario degli accordi economici stipulati con il Vecchio Continente.

Costa dominicense

Occupata dai francesi prima, dai britannici poi, l’uscita di questi ultimi dai Paesi membri dell’UE pone nuovi interrogativi sulle politiche di sviluppo e sull’influenza che l’Occidente continua a esercitare su Stati come la Dominica.

In contemporanea, si svolgono i negoziati post-accordo di Cotonou, che per vent’anni ha regolamentato i rapporti tra Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) e quelli dell’Unione Europea: è un momento importante per ridisegnare il partenariato, facendo attenzione agli squilibri di potere e agli interessi in ballo.

La promessa di Cotonou era quella di modernizzare le economie ACP attraverso i proclamati benefici della globalizzazione, in un contesto di liberalizzazione degli scambi commerciali; non è andata come doveva.

Veduta sul villaggio di Copthall, nella valle di Roseau (Dominica), a circa 5km dalla capitale

In particolare, la Dominica sta cercando di ridurre la sua dipendenza dalle banane, tradizionalmente il suo principale prodotto d’esportazione.

Il commercio di questo frutto si è scontrato con una concorrenza agguerrita, da quando l’Unione Europea è stata costretta a eliminare gradualmente il trattamento preferenziale per i produttori delle sue ex colonie, in una saga conosciuta come “guerra delle banane” con gli Stati Uniti e vari Paesi latinoamericani.

Con la Brexit, si predice che la situazione peggiorerà: non solo, infatti, l’uscita del Regno Unito riduce la domanda complessiva di importazioni di banane dell’UE del 20%; liberi dai regolamenti europei, gli inglesi potrebbero decidere di abolire tutti i dazi d’importazione sulle banane, intensificando notevolmente la concorrenza per i fornitori ACP sul mercato britannico.

Ma c’è un altro, catastrofico, problema di fondo.

Isola montuosa e boscosa, con clima tropicale tutto l’anno, rare specie di pappagalli e il secondo lago bollente più grande del mondo, la Dominica è un paradiso naturale estremamente vulnerabile. A parte l’attività sismica legata alla sua origine vulcanica, ciclicamente, il suo flagello sono gli uragani.

Tempesta tropicale in arrivo sul Lago Boeri (Dominica)

La Dominica non è un luogo adatto alla coltura su larga scala. Il terreno roccioso e le alture rendono coltivabile solo un quarto dell’isola: il clima e la topografia fanno sì che vi si possano piantare alberi, per questo in passato è stata produttrice di caffè, cacao e agrumi. A partire dagli anni ’50, però, la maggior parte dell’agricoltura nazionale è dedicata ai banani.

I pericoli di questa monocoltura sono diventati evidenti già immediatamente dopo l’indipendenza dal Regno Unito, avvenuta nel 1978: l’anno seguente, l’uragano David danneggia gran parte del raccolto. Quello ancora successivo, è l’uragano Allen a rincarare la dose, fragilizzando ulteriormente la neonata nazione; nel 1989 è la volta dell’uragano Hugo; nel 1995, l’uragano Luis distrugge il 95% della produzione di banane.

Nel 1999, con l’assistenza delle sovvenzioni STABEX dell’Unione Europea, la Dominica Banana Marketing Corporation (di cui l’allora primo ministro dominicense Edison James è manager) incita i coltivatori a reimpiantare le banane e investire in fertilizzanti; la produzione aumenta leggermente, prima di essere di nuovo messa in crisi dall’uragano Lenny. Poi, nel 2007, tocca all’uragano Dean decimare le piantagioni.

Abitazioni danneggiate dall’uragano Maria, riparate con scarti di lamiera, e banani nel villaggio di Morne Prosper (di circa 100 abitanti) in Dominica

Nel frattempo, dato che le banane crescono rapidamente dopo la semina, i britannici garantiscono uno sbocco sicuro alla produzione del frutto e aumentano esponenzialmente i loro acquisti in Dominica, spingendo i coltivatori a continuare in questo settore tuttavia inefficiente.

Nel 2009, a coronare la crisi umanitaria e l’instabilità economica vigenti, viene abolita la quota fissa garantita delle Isole Sopravento meridionali (di cui la Dominica fa parte, assieme ad altre piccole Antille) sul mercato europeo, nell’ambito della risoluzione della diatriba sulle banane.

Alla fine del 2017 si registra un aumento senza precedenti dell’attività uraganica nei Caraibi: con diciassette tempeste, dieci uragani più altri sei di categoria superiore che si verificano uno dopo l’altro, molte isole vengono colpite più duramente che mai.

A metà settembre, l’uragano Maria si abbatte sulla Dominica, solcando letteralmente in diagonale il suo territorio; spazza via il 90% delle infrastrutture, cancellando completamente e per l’ennesima volta il suo settore agricolo.

Edificio danneggiato dall’uragano Maria, in vendita; sentiero fuori Copthall (Dominica)

I trasporti sono compromessi, rendendo difficile sia l’evacuazione degli sfollati, sia l’importazione di cibo e materiali di ricostruzione: si stima che 24.000 dominicensi (circa un terzo degli abitanti) siano rimasti al limite o al di sotto della soglia di insicurezza alimentare.

Come se non bastasse, anche le banane hanno sofferto una pandemia mondiale negli ultimi anni: un virus propagatosi proprio grazie alle tempeste ha infettato la varietà Cavendish, largamente coltivata in tutta l’America centrale e nei Caraibi.

Nonostante tutto, ancora oggi un’ampia fetta della popolazione della Dominica dipende dalla coltivazione delle banane: ben il 40% – in proporzione, questo numero è equivalente a quello degli italiani che portano gli occhiali.

Come mai non smettono di produrle? La Dominica e altri Stati ACP non insistono nel far crescere banane perchè costituiscano un business particolarmente redditizio o sicuro, ma perchè non hanno scelta.

Secondo la ricercatrice Rebecca Cohen, la banana è il simbolo dell’imperialismo commerciale e delle ingiustizie del mercato globale: è una delle principali colture a livello mondiale e uno dei maggiori prodotti di profitto dei supermercati, il che la rende fondamentale per la sicurezza economica e alimentare del pianeta.

Pioggia tropicale su forme di legno usate nella costruzione di edifici antisismici e a prova di uragano dall’ONG All Hands & Hearts – Smart Response, in Dominica. Il legno è d’importazione americana, fornito dal Comitato Internazionale della Croce Rossa

Essendo guidata in gran parte dalle esportazioni verso Europa e Nord America, l’industria delle banane fa sì che le economie produttrici possano trovarsi in balìa delle forze esterne in situazioni di guerra commerciale; le mantiene dalla parte debole del tavolo, quando si tratta di negoziare accordi.

C’è di più: la monocultura può distruggere interi ecosistemi – il che riguarda particolarmente la Dominica, dove proliferano specie animali e vegetali che non si trovano da nessun altra parte nel mondo.

L’industria delle banane utilizza più prodotti agrochimici di qualsiasi altra, a eccezione del cotone: “l’uso di queste sostanze inquina le riserve idriche, contamina i terreni e può avere impatti devastanti sulla salute dei lavoratori“, informa l’ONG Bananalink.

In qualità di uno degli unici Paesi in cui le aziende agricole a conduzione famigliare dominano l’economia delle banane, la Dominica è particolarmente svantaggiata. Ciò è aggravato dal fatto che il frutto è altamente deperibile: perdere alcune scatole di merce a causa di una tempesta o di una malattia può non essere importante per una grande piantagione, ma è sufficiente a far fallire una piccola azienda.

Iniziative governative come l’incoraggiamento a piantare alberi da frutto nei propri terreni per favorire l’autosostentamento della nazione, lo sviluppo del volonturismo per la costruzione di edifici a prova di catastrofe naturale, o la “vendita” della cittadinanza in cambio di investimenti non sono sostituti a una politica commerciale di lungo respiro capace di risollevare le sorti del Paese.

Il primo ministro dominicense, Roosevelt Skerrit, pianta alberi da frutto per incoraggiare la popolazione a fare altrettanto. Giugno 2018, foto dal suo profilo Facebook

Coscienti che i veri vincitori della guerra delle banane sono una manciata di multinazionali e i supermercati occidentali, ci si deve chiedere se non sia stato tralasciato finora un aspetto cruciale della questione: iniettare aiuti in questa produzione è davvero utile per i Paesi ACP, o più che altro vantaggioso per il nostro consumo di frutta esotica?

La stessa Commissione Europea ammette che i risultati attesi sull’aumento della diversificazione non sono stati raggiunti nell’ambito di Cotonou, e che “c’è ancora molto lavoro da fare per creare un clima commerciale stabile“, identificando come primo limite al successo dell’accordo la mancata volontà politica dei governi dei Paesi ACP.

D’altra parte, però, il prevalere dell’agenda politica europea sui reali bisogni delle popolazioni nell’allocazione delle risorse è stato visto come uno dei nodi da sciogliere, se si vuol finalmente concludere un partenariato che possa dirsi efficace.

[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo, salvo dove diversamente indicato]

Beatrice Chioccioli

Laureata in Scienze Politiche alla Sorbona, sostiene il diritto alla libertà di movimento. Attraverso esperienze con diverse ONG divide il suo tempo tra le metropoli e le frontiere d'Europa, dove si dedica a progetti, legali e sociali, a favore dei richiedenti asilo.

5 thoughts on “Pirati dei Caraibi ai tempi della Brexit: la guerra delle banane

  • …clima commerciale stabile…a quando?…c’è ancora molto da fare e da informare..grazie Beatrice, ancora una volta, di averci descritto in modo chiaro, una parte di mondo apparentemente lontano.

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  • Fotografia che rende molto bene l’idea. Purtroppo gli effetti del colonialismo non spariscono, anzi, sembrano moltiplicarsi per gemmzione. Nascono dallo stesso nucleo e le ricadute negative delle logiche che incoraggiano l’agricolrura intensiva si esportano benissimo

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  • Ottimo affresco di una realtà in cui la cooperazione allo sviluppo da parte dell’Occidente, inclusa la UE, ha le caratteristiche di una solidarietà “pelosa” che nasconde lo sfruttamento prodotto dalla globalizzazione selvaggia e senza regole

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  • Lucida analisi di fatti che, portati alla luce, dovrebbero indirizzare il pensiero sociale contro la logica del profitto e dello sfruttamento intensivo.

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  • Cara Beatrice,
    grazie per averci ancora una volta aperto gli occhi su una realtà poco conosciuta. C’è bisogno di voci come la tua, che scuotano le coscienze e inducano a riflettere sui disastri ambientali e socio-economici che un insensato sfruttamento delle risorse può provocare nei Paesi più deboli.

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