I colloqui per la pace in Afghanistan sembrano essere già falliti, nonostante siano in corso da appena 3 mesi. A suggerire tale pessimistica valutazione sono i terribili episodi di violenza che continuano a interessare il Paese.
Solo pochi giorni fa, il 10 dicembre, si è compiuto l’ennesimo omicidio contro esponenti della società civile e dell’informazione femminile: è stata barbaramente uccisa Malalai Maiwand, giornalista e attivista per le donne. Nessun gruppo ha rivendicato l’accaduto, ma i talebani e le forze dell’IS afghane sarebbero i primi sospettati.
Come può, davvero, voltare pagina la nazione e incamminarsi verso la tanto sperata pace? Nel Paese tormentato e trasformato da decenni di guerra, dal dominio dei talebani, dall’invasione statunitense e dal terrorismo, i cosiddetti colloqui intra-afghani di Doha dovrebbero riaccendere una luce di speranza.
Tutto è iniziato a febbraio 2020, quando dopo più di un anno di negoziati diretti, gli Stati Uniti e i talebani hanno firmato un accordo che fissa il ritiro delle forze statunitensi dal Paese. In base a questa intesa, i militari USA andranno via definitivamente dalla nazione entro quattordici mesi.
In cambio, i talebani si sono impegnati a impedire che il territorio sotto il loro controllo sia utilizzato da gruppi terroristici, a cancellare legami con Al-Qaeda e ad avviare negoziati con il Governo afghano. Oltre a puntare su una promessa di liberazione di almeno 5.000 prigionieri (in parte soddisfatta).
Il 12 settemebre 2020, quindi, sono iniziati gli storici colloqui tra i rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Afghanistan e i talebani. Tuttavia, l’agenda del dialogo è ancora indefinita, dopo uno stallo durato mesi a causa di profonde divergenze sulla stessa struttura procedurale del negoziato. Solo il 2 dicembre scorso è stata raggiunta un’intesa, in base alla quale l’accordo USA-talebani e le risoluzioni dell’ONU saranno le fondamenta delle trattative.
Il Governo afghano ha espresso la speranza che questa volta i talebani riducano significativamente la violenza o concordino un cessate il fuoco. Silenziare le armi è il primo obiettivo governativo. Da parte loro, invece, i rappresentanti del gruppo talebano non sentono affatto questa necessità. Essi puntano su altre questioni, come il rilascio di prigionieri ancora detenuti nelle carceri di Stato afghano, la rimozione dei leader talebani dalla lista nera delle Nazioni Unite e l’affermazione dell’emirato islamico come forma di potere riconosciuta.
Pochi progressi sono stati compiuti finora e tutto parla ancora di conflitto, morte e violenza nella nazione.
Sabato 12 dicembre la capitale Kabul è stata colpita dal lancio di razzi che hanno ucciso almeno una persona. La città è stata presa di mira da bombardamenti più volte nelle ultime settimane, con esplosioni anche gravi, come quella che ha colpito l’Università uccidendo più di 30 persone a inizio novembre.
Pochi giorni fa, intanto, un attacco talebano contro una base militare del Governo ha provocato nuovi morti e feriti. Solo nella settimana dal 30 novembre al 6 dicembre il gruppo ha sferrato attacchi in 20 province, ai quali hanno risposto le forze armate governative. Di fatto, il cessate il fuoco non c’è e la popolazione continua a vivere sotto assedio.
Proprio il 6 dicembre scorso, Sayed Ashraf Sadat, attivista della società civile di Herat ha lanciato un grido disperato all’ONU:
Chiediamo alle Nazioni Unite e alle istituzioni per i diritti umani di rompere il silenzio sulle violazioni in corso in Afghanistan e di compiere sforzi per la pace e la giustizia nei confronti delle famiglie delle vittime.
Si respira un’aria davvero pesante nel Paese e la popolazione è allo stremo. I colloqui di pace sono un’ancora di salvezza ancora troppo fragile. Eppure, rappresentano l’unico appiglio per ritornare, gradualmente, alla normalità e mettere la parola fine a una guerra che ormai dura dal 2001, con alterne vicende.
Una normalità che non ha una direzione chiara e che si scontra con l’idea di Stato diversa che hanno i due volti afghani in dialogo. Uno degli aspetti cruciali dei colloqui intra-afghani è proprio la definizione di una forma di Governo condivisa.
La Costituzione dell’Afghanistan del 2004, scritta dopo il rovesciamento dell’emirato islamico talebano nel 2001, inizia definendo il Paese “una Repubblica islamica, indipendente, unitaria e indivisibile“. È probabile che i negoziatori concorderanno sui principi generali, tranne sull’idea dello Stato in forma repubblicana. Questo perché i talebani si presentano ancora come un emirato islamico.
La repubblica afghana attuale, invece, trae la sua legittimità da un mandato popolare, piuttosto che dal diritto divino conferito all’emirato talebano. Il capo dello Stato e i membri del Parlamento sono ora eletti, anche se con accuse di frode elettorale e poca trasparenza. Dopo aver conquistato Kabul nel 1996, i talebani hanno formato un sistema di governance a due binari, composto da un consiglio di leadership politico-militare e da un ufficio esecutivo, con l’obiettivo di trasferire tale meccanismo di potere nelle strutture statali. Ma il gruppo non è mai riuscito a formare uno Stato funzionale.
Per garantire efficacia e stabilità, qualsiasi accordo sulla struttura di un Governo post-pace dovrebbe chiarire il ruolo delle istituzioni che sono state istituite dal 2001. E dovrebbe anche riflettere la configurazione del potere in Afghanistan, che è prevalentemente basato sul consenso tra le élite piuttosto che sul dominio di un gruppo sull’altro.
I talebani affermano di voler costruire un sistema islamico in cui tutti gli afghani abbiano uguali diritti, dove siano tutelati anche quelli delle donne “garantiti dall’Islam”. Un punto assai controverso quest’ultimo. Secondo quanto riportato da Human Rights Watch, alla domanda se alle donne venisse riconosciuto di poter uscire da sole, i leader talebani hanno risposto che sarebbe stato loro permesso di viaggiare unicamente per brevi distanze senza un compagno maschio. Una tale restrizione sarebbe tra le interpretazioni più severe del mondo della sharia, paragonabile al sistema dell’Arabia Saudita.
La questione è se i negoziatori talebani saranno disposti a riconoscere che ci sono molteplici interpretazioni della Sharia, così come ad abbracciare le realtà post-2001 dell’Afghanistan, che sono cambiate in modo significativo dall’ultima volta che il gruppo è stato al potere.
Non è difficile capire, quindi, perché tra la popolazione c’è chi guarda con diffidenza e paura ai colloqui di Doha, nonostante servano a costruire la pace.
Le ragazze della squadra femminile di calcio Herat Storm sono tra le più titubanti. Anche se corrono sul campo con magliette a maniche lunghe, leggings sotto i pantaloncini larghi e gli hijab neri in stile felpa con cappuccio per coprire i capelli, per loro il campionato femminile di football di Kabul è una conquista di libertà. Da custodire con forza.
È ancora più incredibile vederle giocare proprio nello stadio della capitale. È qui che una volta i talebani hanno inflitto punizioni disumane a chi violava la loro legge. Le uccisioni inflitte ai trasgressori – come le donne accusate di adulterio – erano così raccapriccianti che quando lo stadio è stato rinnovato nel 2007, durante i lavori sono stati rimossi circa due piedi di terreno per garantire che le persone non calpestassero resti umani.
I talebani hanno affermato che le donne che giocano in pubblico non sono islamiche. Un alto funzionario, vicino ai negoziatori dei talebani, ha spiegato: “Non è consentito a una donna mostrare il suo corpo a nessuno tranne che al suo tutore maschio. Questa faccenda non conta soltanto per i talebani, ma è comandata nel Corano“.
La questione femminile è una delle più emblematiche per comprendere la complessità dei negoziati di pace e cosa c’è davvero in gioco con i colloqui. Molta strada è ancora da fare, ma almeno la Costituzione sancisce uguali diritti tra uomini e donne e l’attuale Governo sta cercando di impegnarsi in questa direzione (sebbene sia in grado di far valere i diritti solo per un piccola parte di donne afghane e senza un vera strategia politica, favorendo soprattutto coloro che vivono nei centri urbani e i cui uomini consentono l’accesso all’istruzione e al lavoro).
Durante gli anni ’90, i talebani non solo imposero brutalmente restrizioni sociali alle donne come la copertura obbligatoria del capo con il burqa. Essi limitarono il loro accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione e al lavoro, proibendo la frequentazione di spazi pubblici senza un accompagnatore maschio e condannando de facto le vedove e i loro figli alla fame.
Per questo, il mondo femminile delle aree urbane ha molto da perdere da un accordo di pace di apertura verso i talebani, dove si scambi la fine della violenza con la rinuncia alla libertà. Eppure, per molte donne delle aree rurali, in particolare quelle dei pashtun, la vita reale non è cambiata molto dall’era talebana, nonostante l’empowerment femminile formale. Esse sono ben lontane dallo sperimentare anche piccoli segni di emancipazione sociale, culturale e politica. Sono ancora completamente dipendenti dagli uomini per avere il permesso di accedere all’assistenza sanitaria, frequentare la scuola e lavorare. Molti uomini afghani rimangono profondamente conservatori. Per queste donne – che rappresentano il 76% del mondo femminile afghano – la priorità è la pace, visto che hanno subito i devastanti attacchi della lotta tra talebani e forze governative.
Fine della violenza, tutela di pari diritti, garanzia delle libertà, rafforzamento di istituzioni civili e non religiose: sono questi tutti temi cruciali per costruire un nuovo Afghanistan attraverso i colloqui di pace. Tuttavia, il rischio è che non vadano di pari passo. Il timore, piuttosto, è che il riconoscimento dei talebani come un soggetto politico legittimo nei negoziati li rafforzi, dando nuova linfa al loro sistema violento e integralista.
Secondo un documento, tra l’altro, i militanti talebani dell’Afghanistan sono diventati più ricchi e più potenti da quando il loro regime è stato rovesciato dalle forze statunitensi nel 2001. Nell’anno fiscale che si è concluso a marzo 2020, i talebani avrebbero ottenuto profitti da 1,6 miliardi di dollari, come trapelato in un rapporto confidenziale commissionato dalla NATO. Come? Commercio di oppio, controllo dell’estrazione mineraria su piccola scala e di grandi produttori, estorsione, donazioni da fondi privati provenienti dai Paesi del Golfo Persico, esportazioni di papavero sono tra le fonti di reddito più fiorenti e costanti, a testimonianza di una presenza comunque ben radicata in alcune parti della nazione. E anche ben finanziata. Tutti questi proventi non fanno altro che assicurare armi e mezzi per sopravvivere.
I colloqui intra-afghani di Doha sono quindi molto importanti e complessi. Trovare un equilibrio tra le richieste di legittimazione di entrambe le parti non sarà facile, ma avrà un ruolo cruciale per disegnare il futuro del Paese.
Intanto, sulla scia di 18 anni di instabilità e violenza, solo nel 2019 le operazioni militari tra le forze governative afghane e statunitensi e i talebani si sono intensificate, causando oltre 8.000 vittime civili. Per la prima volta è stato superato il numero di morti provocati dai talebani, in gran parte a causa di un forte aumento degli attacchi aerei statunitensi. Anche i talebani hanno effettuato centinaia di incursioni contro il Governo afghano e gli obiettivi militari statunitensi, uccidendo e ferendo civili.
E questo è l’attuale scenario del Paese. I colloqui di Doha si stanno svolgendo nel consueto clima di morte e paura nella nazione. La popolazione spera in un futuro in cui siano silenziate le armi, non i diritti. Come ha scritto l’artista Shamsia Hassani, giovane donna famosa per i suoi graffiti colorati e pieni di speranza sui muri di Kabul:
Vengo dall’Afghanistan, un Paese famoso per la guerra. Cambiamo argomento, portiamo la PACE con l’arte. La libertà non è rimuovere il Burqa, è avere PACE.