Morie di massa, il Covid diventa dramma anche per la fauna

Che l’emergenza Covid-19 sia la più disastrosa calamità sanitaria del secolo e una delle più grandi sfide che l’umanità abbia dovuto affrontare dalla Seconda guerra mondiale è un dato di fatto che ormai incontra poche obiezioni.

Crisi finanziaria globale, disoccupazione, smantellamento del tessuto sociale, disturbi ecologici, tensioni razziali e milioni di morti e contagiati sono stati alcuni dei suoi drammatici effetti.

Ma mentre molti di questi sono evidenti per i preoccupanti intralci causati ad aspetti pertinenti alla vita quotidiana, altri sono meno ovvi o quasi completamente trascurati.

Ci riferiamo alle morie di massa che, fin dall’inizio della pandemia, stanno mettendo a rischio milioni di animali.

Da quando sono stati scoperti i primi casi di polmonite atipica a Wuhan in Cina l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (OIE) e vari altri attori della scena internazionale hanno svolto molteplici studi sperimentali volti ad attestare il ruolo epidemiologico degli animali, sia domestici che selvatici, nella trasmissione del SARS-CoV-2.

Nonostante il ruolo della popolazione animale nella diffusione del virus non sia del tutto accertato ad oggi, segnalazioni in tutto il mondo stanno dimostrando la suscettibilità di diverse specie animali al virus.

Non tutte le specie sembrano tuttavia essere a rischio. I bovini, i suini, il pollame e i cani sembrano – secondo i risultati di studi sperimentali effettuati dall’OIE – non essere suscettibili alle infezioni. Fortemente sensibili al virus sono, d’altro canto, i furetti, i conigli e i gatti.

Particolarmente colpiti risultano essere i mustelidi la cui particolare sensibilità al coronavirus sta causando una vera e propria moria di massa in special modo di visoni. A partire da aprile difatti, la registrazione di una forma mutata di Covid-19 negli allevamenti di animali da pelliccia in vari Stati europei – Danimarca e Olanda in particolare – ha portato all’abbattimento di milioni di visoni.

In Danimarca, primo produttore in Europa di pellicce di visone, la minaccia di infezioni è cominciata con la comparsa dei primi focolai a giugno. L’approccio iniziale del Governo è stato quello di non abbattere i visoni presenti negli allevamenti infetti. Ma il crescente numero di focolai (passati da 41 a 207 in un mese) e la diffusione del virus mutato nella popolazione hanno costretto il primo ministro danese Mette Frederiksen ad annunciare, il 4 novembre scorso, la decisione di abbattere tutta la popolazione di visioni nel Paese, ossia 17 milioni di animali.

La tempesta politica provocata da tale decisione e le resistenze del parlamento danese alla sua applicazione hanno portato alla sospensione del massacro. Ciononostante, oltre 5 milioni di visoni sono stati “illegalmente” abbattuti nelle strutture infette e gettati in fosse comuni o sepolti senza cura (vicino a sorgenti di acqua potabile in alcuni casi) rischiando l’ammorbamento delle sorgenti idriche nonché l’inquinamento del suolo.

L’allevamento del visone, spesso criticato nel Paese per motivi etici, risale agli anni ’20 e negli ultimi decenni l’esportazione delle lussuose pellicce ricavate dall’animale aveva dato vita a un business proficuo con un fatturato di circa un miliardo di dollari all’anno e un’industria che coinvolge un migliaio di imprese e circa 3.000 addetti.

Il virus ha trovato terreno fertile anche in Olanda, dove dalla comparsa dei primi focolai ad aprile sono stati decimati oltre 2 milioni di esemplari di visone. L’impossibilità di arginare la diffusione dell’epidemia negli allevamenti, nonostante i controlli preventivi adottati, hanno obbligato il Governo olandese a decretare, il 28 agosto, il definitivo divieto di allevamento di visoni dal 2021.

Anche l’Italia, dove sono attivi solo otto allevamenti di visoni, non è rimasta indenne a questi eventi. Il possibile replicarsi della nuova mutazione del virus ha portato il ministero della Salute prima a sospendere le attività nelle strutture di allevamento per tre mesi, poi ad imporre l’abbattimento di tutti i 28 mila visoni presenti nell’allevamento di Capralba (Lombardia), il più grande del Paese.

Mustelidi risultati positivi al virus sono stati segnalati anche in Spagna, Svezia, Grecia, Paesi Bassi e Stati Uniti.

Visoni uccisi in Danimarca per neutralizzare la diffusione di un ceppo mutato del Covid-19. Flickr/Becca Tyler in licenza CC.

Non è la prima volta negli ultimi anni che dolorose morie di massa di animali sono causate dal diffondersi di malattie zoonotiche. Secondo il National Institutes of Health, le zoonosi rappresentano il 60% delle malattie infettive conosciute e il 16% delle morti in tutto il mondo può essere attribuite a esse, e la maggior parte degli abbattimenti hanno avuto in comune rapporti diretti con lo sfruttamento animale e significativi danni economici.

Ne è una prova l’altamente contagiosa peste suina africana (PSA) la cui diffusione in Cina dal 2018 ha costretto le autorità nazionali a decimare centinaia di milioni di suini nel corso del 2019 provocando perdite economiche pari a 141 miliardi di dollari.

Altri esempi sono dati dall’epidemia di influenza aviaria (H5N1) che, iniziata nelle concentrazioni di volatili nel Sud-Est asiatico, ha coinvolto più di 140 milioni di polli dalla fine 2003, e da quella di influenza suina (H1N1) scoppiata in Messico nel 2009 in uno dei maggiori allevamenti intensivi del pianeta. Quest’ultima ebbe un devastante impatto sull’economia messicana provocando una delle più grandi cadute del peso.

Suini in un struttura di allevamento in Cina. Flickr/Angie and Steve in licenza CC.

Questi sono solo alcuni casi di morie di massa di animali sulle migliaia che si sono verificate negli ultimi settant’anni.

L’ultimo biennio in particolare è stato profondamente tragico per svariate specie animali. Basta ricordare i devastanti incidenti che hanno sconvolto l’Australia fra il 2019 e il 2020. Incendi che bruciarono oltre 8.4 milioni di ettari in tutto il Paese colpendo quasi tre miliardi di animali fra uccelli, rettili, mammiferi e anfibi.

Lo studio più esaustivo sulle morie di massa è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States (PNAS) nel 2015. La ricerca analizza 727 “eventi di mortalità di massa” (MME) avvenuti in 2.407 popolazioni animali documentate in tutto il mondo dal 1940.

Dall’analisi è emerso che le segnalazioni di morie di massa sono in aumento. Inoltre, il numero di animali abbattuti in ogni evento sta crescendo per gli uccelli, i pesci e gli invertebrati marini, mentre è rimasto invariato per i mammiferi e diminuito per gli anfibi e i rettili.

Le malattie risultano essere la principale causa delle morti. Esse colpiscono il 26,3% degli esempi documentati nella ricerca. L’inquinamento causato dall’attività umana è responsabile del 19,3% dei casi costituendo il secondo fattore più importante. La biotossicità (compresi fenomeni come le alghe blu-verdi) ha contribuito al 15,6% degli eventi, mentre fattori climatici quali lo stress da ossigeno, la fame, lo stress termico e i disastri meteorologici il 24,7%.

Le morie di massa possono essere estremamente pericolose. Il loro incremento negli ultimi anni, infatti, potrebbe portare all’estinzione di varie specie animali.

L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) a luglio ha pubblicato l’ultima edizione della lista rossa delle specie minacciate di estinzione. Si valutano le condizioni di 120.372 specie di esseri viventi. Di esse, oltre 32.000 specie sono attualmente minacciate, più o meno gravemente, di estinzione. Nell’elenco, il criceto europeo, la balena franca del Nord Atlantico e diverse specie di lemuri sono state classificate nella categoria “critically endangered“, ossia a un passo dall’estinzione in natura. Non sono a rischio di estinzione solo 62.033 specie, poco più della metà di quelle valutate dall’IUNC.

Lemuri del Madagascar, specie attualmente minacciata di estinzione secondo la lista rossa 2020 dell’IUNC. Flickr/Corrado de Bari in licenza CC.

L’intensificazione delle morie di massa potrebbe anche sconvolgere l’ecosistema del pianeta rimodellando le traiettorie ecologiche ed evolutive della vita sulla Terra. “In natura, tutto è connesso in modo complesso. A prima vista quindi non si può essere sicuri di cosa succederà quando una specie si estingue“, afferma Mateusz Iskrzyński, post-doc dell’Instituto Internazionale per l’analisi dei sistemi applicati (IIASA).

In effetti, poiché le diverse specie di un ecosistema sono interconnesse (si nutrono l’una dell’altra), la scomparsa di una specie potrebbe portare all’estinzione di altre. Cosa che può, a sua volta, destabilizzare l’intero sistema. Nel 1983, un agente patogeno causò una moria di massa dei ricci di mare Diadema antillarum nei Caraibi. A sua volta, l’atto di scomparsa dell’erbivoro spianò la strada a un’invasione algale che mise a rischio i coralli.

L’aumento delle morie di massa potrebbe inoltre mettere in pericolo attività umane come l’agricoltura la cui crisi non solo comprometterebbe le condizioni socio-economiche del pianeta, ma interromperebbe in modo permanente anche le catene alimentari nonché processi naturali quali l’impollinazione delle piante da parte degli insetti.

Il 2020 è stato l’anno dei grandi cambiamenti secondo molti analisti. E uno degli aspetti positivi della pandemia è stato quello di “ridare alla natura gli spazi che le erano stati rubati“. La ridotta mobilità umana causata dalle chiusure generalizzate ha rivelato i lati critici dell’impatto che l’esistenza della nostra specie ha sulla fauna. Le immagini pubblicate su giornali e social di animali selvatici a spasso per le città deserte durante il lockdown ne sono una prova.

Ampliamento degli areali e maggior successo riproduttivo per le specie a rischio sono stati solo alcuni degli effetti positivi del lockdown sulla fauna selvatica come suggeriscono gli studi “COVID-19 lockdown allows researchers to quantify the effects of human activity on wildlife e “The good, the bad and the ugly of COVID-19 lockdown effects on wildlife conservation: insights from the first European locked down country“.

Potrebbe questo essere l’inizio di una nuova era di risanamento per il nostro ecosistema che tanto dipende dalla salvaguardia delle specie animali per mantenere la propria stabilità?

Abdoulaye Coumbassa

Laureato in Scienze Politiche, si interessa di diritti umani, economia e lingue. Frequenta il corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali e Diplomazia all'Università di Padova.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *