Istruzione sotto attacco, quando la “guerra” entra nelle scuole

Foto dell'utente Flickr Carsten ten Brink - Licenza CC con attribuzione
Foto dell’utente Flickr Carsten ten Brink – Licenza CC con attribuzione

“Ero in classe nel mio villaggio quando all’improvviso abbiamo sentito urlare. Poi qualcuno ha iniziato a sparare, uccidendo uno dei nostri insegnanti. Hanno bruciato tutte le aule. Mi sentivo spaventato, fragile, perso. Per fortuna, “siamo riusciti a scappare”.

Hussaini oggi ha 14 anni. Dopo l’attacco subito ad opera di un gruppo armato di matrice islamica – nel 2018 – non ha più messo piede all’interno di una scuola. Insieme ai genitori è stato costretto ad abbandonare la sua casa nel Burkina Faso settentrionale.

Hussaini ha visto cose che un bambino non dovrebbe mai vedere. Ha vissuto un’esperienza che non avrebbe dovuto vivere, soprattutto alla sua età e in luogo comunemente considerato un “paradiso sicuro”. La scuola, appunto.

La storia di Hussaini non è però un episodio isolato. In situazioni di conflitto armato ovvero nell’ambito di Failed States e laddove sussistono sistemi deboli di tutela dei diritti umani, le strutture educative sempre più spesso vengono prese di mira da forze di sicurezza governative, ribelli, organizzazioni terroristiche.

Gli esempi più recenti, ci portano in Camerun, Pakistan, Afghanistan.

Il 24 ottobre scorso, un gruppo armato ha infatti colpito la Mother Francisca International Bilingual Academy di Kumba, provocando la morte di 8 bambini tra i 12 e i 14 anni. Lo stesso giorno, è stata bombardata la scuola religiosa “Jamia Zubairia” di Peshawar con un bilancio di 130 feriti. Mentre il 25 ottobre, è stata la volta di un attacco kamikaze contro un college di Kabul, in cui hanno perso la vita 24 persone, alunni inclusi.

La GCPEA (Global Coalition to Protect Education from Attack), tra il 2015 e il 2019, ha registrato 11.000 segnalazioni di “attacchi all’istruzione”. Oltre 22.000 studenti, insegnati, accademici sono stati coinvolti in tali incidenti. E circa 93 Paesi hanno sperimentato, nel periodo di riferimento, almeno uno di questi assalti. Nell’ultimo report, pubblicato il 9 luglio, la GCPEA ha profilato 37 Stati, evidenziando come – dalla Siria alla Colombia, dal Mali al Myanmar, passando per l’Ucraina – studenti, operatori scolastici, insegnanti siano vittime di omicidi, stupri, violenze sessuali, rapimenti, arresti arbitrari. Mentre scuole e università vengono occupate, bombardate, distrutte.

Data la complessità del fenomeno, troppo spesso trattato in maniera semplicistica, appare opportuno anzitutto andare a chiarire cosa debba intendersi per “attacco all’istruzione”.

Con tale espressione – sul piano internazionale – si è soliti far riferimento alla “minaccia o all’uso intenzionale della forza – per ragioni politiche, militari, ideologiche, etniche, religiose – contro studenti, insegnanti, istituzioni educative”. All’interno della definizione ricadono anche “l’occupazione e l’utilizzo delle strutture scolastiche da parte di militari o gruppi armati”.

Si può intuire come detti attacchi assumano differenti connotazioni in ragione del target (cose o persone) da colpire.

Negli ultimi 5 anni, il numero più alto di “incidenti” contro edifici scolastici – bombardamenti aerei, colpi di mortaio e artiglieria pesante – è stato rilevato nella Repubblica Democratica del Congo (DRC) e nello Yemen. Non è però andata meglio in Siria dove, in base ai dati delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto (2013) ad oggi, oltre il 40% delle scuole è stato distrutto o danneggiato.

Quanto agli attacchi contro studenti e docenti, la situazione appare particolarmente drammatica nel Sahel centraleregione dell’Africa occidentale destabilizzata dall’azione dei gruppi jihadisti.

In Ciad, Burkina Faso, Mali, Niger, gruppi armati non-statali hanno in diverse occasioni minacciato, picchiato, rapito, stuprato, ucciso tanto inseganti che scolari. Questi ultimi, peraltro, lungo la strada da casa a scuola (o viceversa) sono stati spesso reclutati come soldati.

Accadimenti del genere sono avvenuti anche in altri Stati dell’Africa occidentale, del Medioriente e dell’America Latina.

È nota – sebbene forse con il tempo sia stata dimenticata da molti – la vicenda delle 276 studentesse rapite nel 2014 dal Boko Haram a Cibok – città nel Nord-Est della Nigeria – mentre si trovavano in un collegio per sostenere degli esami. A distanza di 6 anni, 112 ragazze non hanno ancora fatto ritorno a casa. Non si sa nulla di loro. Magari sono morte. Oppure sono state ridotte in stato di schiavitù o impiegate in rischiose operazioni militari. Il Boko Haram ha poi replicato nel febbraio 2018, rapendo 110 studentesse, che sono state rilasciate circa un mese dopo con un chiaro messaggio da portare alle loro comunità: non mandate più le figlie a scuola.

In Colombia, Guatemala, El Salvador, il bersaglio preferito di gruppi armati e gang sono invece gli insegnanti.

Viviamo nel costante timore di eventuali rappresaglie delle gang. Qualsiasi decisione venga presa dal corpo docenti nei confronti di un allievo – ad esempio un’azione disciplinare – può diventare motivo di minaccia o persecuzione“, raccontava nel 2015 Francisco Zelada, preside in una scuola del El Salvador, all’agenzia di stampa britannica Reuters.

Le molteplici sfaccettature degli “attacchi all’istruzione” sono legate anche al fatto che gli stessi vanno a toccare disposizioni internazionali attinenti a diverse branche del diritto.

Da un lato, infatti, nel corso di un conflitto armato colpire le scuole,  in quanto “obiettivi protetti” – costituisce un’infrazione del diritto internazionale umanitario. Se l’assalto è di particolare gravità potrebbe addirittura configurarsi un crimine di guerra.

Dall’altro, la pratica in questione pregiudica i diritti umani dei soggetti coinvolti, studenti in primis. A essere violato, invero, non è “solo” il loro diritto all’istruzione. Ma altresì, il diritto alla vita, il divieto di tortura, di trattamenti inumani e degradanti, di riduzione in schiavitù e così via.

Certo, l’obiettivo ultimo di questi attacchi è sempre e soltanto uno: impedire l’accesso all’istruzione, dando così vita a un circolo vizioso che – nel lungo periodo – si riflette sull’esistenza delle vittime, sui processi di pace, sullo sviluppo socio-economico dei Paesi interessati.

Ragionando in termini pratici: un edificio scolastico danneggiato o distrutto comporta la sospensione/cancellazione delle lezioni spesso a tempo indeterminato. Succede di continuo in Afghanistan, Nigeria, Siria, Somalia, Territori Palestinesi Occupati.

Qualora le strutture vengano invece lasciate intatte, il senso di insicurezza spinge comunque i genitori a non mandare i propri figli a scuola. Gli insegnanti a lasciare il lavoro. Gli studenti a non voler tornare tra i banchi.

Mokhtar – un bambino yemenita sopravvissuto al bombardamento aereo della coalizione a guida saudita contro uno scuolabus, il 9 agosto 2018, a Dhahyan – in un’intervista raccolta dalla GCPEA, dice: “Mio papà mi ha promesso dei giocattoli e uno zaino nuovo. Ma io odio gli zaini e la scuola. Non mi avvicinerò mai più a un autobus. Da ora in poi, resterò sempre a casa“.

Per Virginia Gamba – Rappresentante Speciale del Segretario Generale ONU per i bambini e i conflitti armati – siamo difronte a un’emergente tattica di guerra finalizzata ad annientare intere giovani generazioni, privandole degli strumenti necessari per sviluppare un pensiero critico, acquisire competenze, emanciparsi, porre le basi per il loro futuro e per la crescita economica nonché sociale dei loro stessi Paesi.

Del resto, il mancato godimento del diritto all’educazione inevitabilmente barra la strada al concreto esercizio di un’ampia gamma di altri diritti umani, soprattutto in un’ottica di genere. A riguardo, secondo l’OHCHR, bambine e ragazze vittime di “attacchi all’istruzione” subiscono maggiori violazioni del loro diritto alla salute, della libertà di religione e di partecipazione alla vita culturale, politica, sociale delle proprie comunità. Sono più esposte a matrimoni forzati, traffico di esseri umani, abusi di vario genere. Per non parlare poi delle gravidanze frutto degli stupri, che condannano bimbe e giovani donne a patire lo stigma per la violenza sessuale ricevuta.

La comunità internazionale finora non ha fatto granché per contrastare il fenomeno. Non a caso, l’impunità continua indisturbata a dilagare.

Le Nazioni Unite, attraverso i suoi organi e le sue agenzie, si limitano di volta in volta a esprimere preoccupazione. Condannano questi attacchi, invitando tutte le parti coinvolte a rispettare gli obblighi internazionali in materia di diritti umani derivanti, in particolare, dalla Convenzione sui diritti del fanciullo.

E in perfetta linea con l’ipocrisia che spesso caratterizza l’ONU, l’Assemblea Generale – lo scorso maggio – ha proclamato il 9 settembre “Giornata Internazionale per la tutela dell’istruzione dagli attacchi armati“. Come se mobilitarsi una volta l’anno con campagne e dichiarazioni avesse il reale potere di incidere sull’esistenza di milioni di bambini e giovani, che affrontano ogni giorno situazioni disperate e disperanti. Senz’altro sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sul tema ha un’importante valenza. Ma se manca la volontà politica di fronteggiare e risolvere un dato problema, questo resterà tale.

Dal canto loro, i Governi interessati non intervengono né a perseguire i responsabili né a garantire che le strutture scolastiche restino “santuari sicuri” per studenti e insegnanti.

Eppure, ben 106 Paesi hanno approvato nel 2014 la Safe School Declaration. La Dichiarazione non è un atto vincolante. Non impone obblighi agli Stati aderenti. Tuttavia, rappresenta una chiara manifestazione del fatto che questi sono fin troppo consapevoli della gravità della questione in esame e della necessità di elaborare soluzioni efficaci.

Sembra quasi banale da scrivere. L’istruzione non è una scelta ma un diritto, che deve essere sempre garantito sia in contesti di pace sia di guerra. Basterebbe ricordarselo nei fatti più che nelle parole.


Video tratto dal canale YouTube della GCPEA: “Education under Attack 2020

Tiziana Carmelitano

Autrice freelance, si occupa in particolare di temi globali nonché di violazioni dei diritti umani in contesti conflittuali, post-conflittuali e in situazioni di "Failed States". Con un occhio di riguardo per donne, bambini e giustizia transitoria. Il tutto in chiave prevalentemente giuridica. Convinta che la buona informazione abbia un ruolo decisivo nell'educazione al rispetto dei diritti fondamentali e delle diversità.

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