L’ondata Black Lives Matter, la vittoria contro la legge anti-aborto in Polonia, sono sprazzi di luce in quest’anno con tendenze apocalittiche. Il moltiplicarsi di movimenti per il riconoscimento dei diritti poteva far pensare di essere vicini al “traguardo equità“.
E invece, Plan International afferma che le donne saranno discriminate rispetto agli uomini almeno fino al 2065. Non solo le disparità di genere preoccupano, ma anche quelle razziali, che a livello educativo sembrano essersi acuite.
Il Social Progress Index esclude che gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, fissati per il 2030, saranno raggiunti prima del 2092 (aveva visto giusto The Conversation nello spiegare i limiti intrinsechi del voler eradicare la povertà con la crescita economica). Il recente patto europeo sull’immigrazione, poi, come ha scritto Francesca Spinelli “è riuscito a sconvolgere perfino chi, come me, non si aspettava nulla di buono” malgrado la retorica della solidarietà e dei partenariati internazionali.
Viene da chiedersi quale sia l’origine del circolo vizioso che ci impedisce di rendere il mondo un posto migliore, nonostante i tentativi, e una delle risposte possibili è: l’appropriazione indebita nel riconoscersi esponenti virtuosi del rispetto dei diritti umani; stiamo parlando di rightswashing, un neologismo inglese che potremmo tradurre con “etica di facciata“. Questo processo, la cui prima apparizione risale probabilmente al 2011 su Twitter, è il fratello minore del più celebre e consolidato fenomeno dell’ambientalismo farlocco.
Il cosidetto “greenwashing” si basa sulla strategia di comunicazione di certe imprese (ma anche Stati, Governi, politici) finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva dal punto di vista dell’impatto ambientale. Lo scopo? Crearsi una reputazione “verde” aiuta a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ecologia causati dalle proprie attività produttive – in alcuni casi, veri e propri disastri naturali.
Rightswashing è quindi, per analogia, tutto ciò che trasmette l’impressione che i diritti umani siano sostenuti nell’ambito di una data compagnia o istituzione, e fatti progredire. Proprio perché sembra che si facciano passi avanti, quando invece si cerca di nascondere una discriminazione, è un procedimento particolamente difficile da individuare.
I racconti aneddotici sono molti e vanno dal sospetto di posizioni manageriali date alle donne apertamente omosessuali, ma solo perché si ritiene che abbiano meno probabilità di richiedere periodi di maternità (e non per desiderio di parità di genere), alla “preferenza per gli albini” nella ricerca di personale con un handicap che non generasse costi extra a carico dell’azienda, come invece avrebbero fatto le persone con disabilità motorie: per una sedia a rotelle, si sarebbero dovute installare pedane e ascensori.
Sono leggi non scritte, dettate dal profitto come priorità, che vanno dalle penalizzazioni di alcune categorie al vero e proprio sfruttamento.
Un esempio “nostrano”? Benetton, famosa per l’inclusione di persone di colore nella propria campagna pubblicitaria “United Colors” (il cui lancio è stato fatto volontariamente coincidere col 50esimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite), è stata accusata di pesanti ingiustizie nei confronti del popolo Mapuche, di cui avrebbe occupato illegalmente le terre in Sud America. Pare che la marca di Oliviero Toscani fosse anche legata alla fabbrica conosciuta come Rana Plaza, in Bangladesh, nel cui crollo persero la vita più di mille persone costrette a condizioni di lavoro indegne.
A livello statale, un palese esponente di quest’etica apparente è l’Arabia Saudita: l’ampiamente mediatizzata autorizzazione per le donne saudite a guidare un’auto senza essere arrestate non è che il contraltare delle torture inflitte a importanti attiviste femministe locali, come Loujain al-Hathloul e Nassima al-Sada – lamenta Amnesty International.
Il Paese è stato anche accusato di “sportswashing“, cioè di usare la sponsorizzazione di eventi come il Gran Premio di Formula 1 o l’acquisto di società calcistiche in bancarotta per tentare di ridare lustro alla propria reputazione, offuscata dalle sue violazioni dei diritti umani.
Riflessioni su questo tema coinvolgono ovviamente anche i Governi occidentali: negli Stati Uniti, in reazione alla recente elezione di Kamala Harris alla vicepresidenza, voci critiche hanno argomentato che inserire “una sfumatura” progressista (in questo caso, una donna di colore) nel sistema di sempre sia in realtà un modo per renderlo “più digeribile, giustificabile, legittimo“, evitando così di riformarlo profondamente.
Etica e ambientalismo di facciata s’intrecciano spesso: il veganesimo dei soldati isreaeliani è stato visto da molti come un ironico esempio di queste tattiche comunicative, mirate a distrarre gli osservatori internazionali dalle discriminazioni e violenze esercitate sui palestinesi. Infatti, la promozione di uno stile di vita cruelty free (cioè libero da atti di crudeltà) risulta poco compatibile con le azioni di qualsiasi esercito.
Come fare, allora, perché questo “lavaggio dei diritti” non diventi il comportamento di default delle aziende di cui compriamo i prodotti o dei politici che ci rappresentano?
La buona notizia è che noi consumatori, elettori, osservatori dei vari enti esercitiamo una considerevole influenza sulle loro scelte: più coltiviamo uno sguardo critico sulle loro attività, più sono costretti ad adottare atteggiamenti conformi alle norme.
Nonostante possa risultare un paradosso, agire tanto nel rispetto dell’ecologia come dei diritti conviene a tutti. I guadagni della marca Patagonia sono cresciuti del 40% in due anni, dopo aver lanciato una campagna pubblicitaria che chiedeva di non comprare la loro giacca per lottare contro il consumismo.
Da allora, l’azienda ha dimostrato impegno nel migliorare la gestione della propria catena di fornitura e trasparenza (rispetto a tasse pagate, donazioni ad associazioni o esponenti politici, diritti dei suoi impiegati), oltre che del suo impatto ambientale.
Patagonia ha aderito volontariamente al Fashion Transparency Index 2019: non ha ottenuto un risultato ottimo (64%), ma è riuscita a piazzarsi comunque tra le migliori cinque compagnie della lista (nessuna è andata sopra il 70%); è stata lodata da varie associazioni per il consumo etico anche solo per aver partecipato, perché più della metà degli interpellati non ha risposto all’appello e il 2% hanno rifiutato di essere esaminati.
In questo senso il rovescio della medaglia è che, se il rightswashing esiste, in parte è anche colpa nostra. Siamo talmente abituati allo status quo da interpretare come progressista e generoso ogni singolo passo in direzione dell’equità; come se il rispetto dei diritti umani non fosse dovuto.
Primo, semplice passo da compiere per combattere il fenomeno: l’informazione. Da tempo Greenpeace invita a diffidare di chi pubblicizza iniziative la cui messa in atto è obbligatoria per legge – o dovrebbe esserlo, come i già citati esempi di inclusione della diversità e parità di genere, sia a livello politico che imprenditoriale.
Il duro colpo inflitto quest’anno all’economia internazione da parte del Covid-19 rischia di abbattere i nostri standard concettuali in materia di lavoro degno: the Cotton campaign avverte che in Uzbekistan, dove si raccoglie materiale per la produzione dei nostri calzini, si lotta duramente per eradicare la schiavitù moderna e il lavoro minorile; nel 2019 i dati indicavano una riduzione di queste pratiche del 40%, mentre adesso si prevede che il crollo del prezzo del cotone provocherà una nuova impennata di sfruttamento.
Altra banalità, quindi, che i portafogli vuoti tenteranno di farci dimenticare: consumare, per quanto possibile, prodotti che contengano il marchio di certificazione equosolidale Fairtrade e il Wfto Label limita (ma spesso non elimina del tutto) il rightswashing da parte delle aziende.
Dovremmo forse allontanarci da Amazon, Easyjet, e tutte le imprese che non garantiscono la sicurezza dei propri impiegati. Ethical consumer ha stilato un elenco di compagnie da evitare per via della loro risposta al coronavirus, oltre a una lunghissima serie di vademecum che recensiscono marche di praticamente tutto (dalla carta igienica al cibo per cani, passando per saponette e computer portatili) in base al loro impegno sociale, politico e ambientale – o alle loro carenze in questi ambiti.
Meno scontata è la risposta da dare a coloro che ammettono le proprie mancanze: la giornalista Harriet Von Spiegel suggerisce di riconoscerne le buone intenzioni in merito di trasparenza, allo scopo di creare un ambiente generale di incoraggiamento all’onestà, chiedere informazioni precise sulle soluzioni che si vogliono apportare e basare su quelle il nostro giudizio.
Gli studi concordano: posti gli indiscussi vantaggi del rispettare i diritti, sia per i Governi che per i privati, le buone pratiche hanno buon seguito. Saper riconoscere le applicazioni del rightswashing non basta ad arginare le violazioni dei diritti umani, ma è nostra responsabilità – in quanto individui che comprano, votano, e si istruiscono – compiere precise azioni d’influenza per far sì che i comportamenti davvero etici siano la norma.
Il “lavaggio dei diritti” ci suggerisce un’ultima ovvietà: le cose cambiano col nostro esempio, molto più che grazie alle nostre opinioni.
Brava Beatrice, analisi lucida delle numerose ipocrisie che incontriamo come consumatori. Giusto non farsi prendere in giro e impegnarci come consumatori evitando certi produttori, ma dobbiamo soprattutto agire come cittadini ed elettori per cercare di rovesciare i rapporti di forza che sono alla base dello sfruttamento delle persone e delle risorse naturali
Ciao Beatrice,
Sono Sabrina, collega della tua mamma.
Grazie del tuo lavoro e di questa lucida analisi delle “menzogne” del nostro tempo. Ti mando un caro saluto
Grazie, Beatrice! Che le tue considerazioni possano suscitare comportamenti virtuosi in grado di dare vita a un’umanità realmente migliore
Sono d’accordo sul ruolo fondamentale che attribuisci all’informazione: troppo spesso si ignorano realtà e meccanismi, e anche chi non si nasconde dietro alla diffusa impotenza dei nostri tempi, trova giustificazione al proprio stare solo a guardare.
Quando poi l’informazione è lucida e documentata, come quella che porti avanti tu, si può sperare che la lotta per i diritti inizi a diventare un dovere di tutti. Complimenti per il tuo impegno e per la scrittura felice.
Pensa, rifletti, agisci…brava Beatrice.
Ora più che mai è importante avere occhi critici..cmq Oliviero Toscani è un fotografo che per un po’ di anni ha lavorato per l’azienda Benetton, non lo riterrei responsabile di scelte aziendali su cui magari lui ha costruito una strategia comunicativa discutibile, ma da contestualizzare, a mio avviso. Un abbraccio grande