Iniziata a Wuhan a dicembre dell’anno scorso, l’emergenza Covid-19 è molto presto diventata una crisi di portata globale: 50 milioni di contagiati e più di 1 milione e 200 mila morti in tutto il mondo in soli 11 mesi. Ma oltre ad avere effetti devastanti sull’economia mondiale e sui sistemi sanitari nazionali, la pandemia ha riacceso tensioni razziali e xenofobe di lunga data.
Parliamo di Cina e Africa. Fin dall’inizio della pandemia si sono diffuse notizie di cittadini di origine africana residenti a Guangzhou soggetti a discriminazione razziale. Molti sono stati obbligati a un’ulteriore quarantena di 14 giorni, nonostante non avessero viaggiato fuori dal Paese. Alcuni sono stati sfrattati da hotel e abitazioni, e altri persino lasciati senza casa. Sono inoltre stati sottoposti forzatamente a test degli anticorpi ed è stato rifiutato loro l’accesso a servizi essenziali ma anche a ristoranti.
La Cina ha sempre rappresentato le relazioni sino-africane come “vantaggiose per entrambe“. In effetti, leader e diplomatici cinesi sottolineano spesso come la storia delle relazioni sino-africane sia una storia di lotta comune contro il colonialismo e l’imperialismo per raggiungere l’indipendenza e lo sviluppo economico. Nel 1955 per esempio, durante la storica Conferenza di Bandung, il premier cinese Zhou Enlai sottolineò i principi della solidarietà afro-asiatica e la necessità di cercare un terreno comune. Gli stessi principi sono stati ribaditi durante l’ultimo summit del Forum per la Cooperazione Cina-Africa (FOCAC) tenutosi a Pechino nel 2018.
Ma quindi quali sono le fondamenta e le origini della discriminazione razziale nei confronti degli africani in Cina?
Questo sentimento di xenofobia risale ai tempi della fondazione della Repubblica Popolare Cinese negli anni ’60 quando, nella speranza di sollevare una rivoluzione proletaria globale, gli ufficiali del Partito Comunista Cinese (PCC) iniziarono a strizzare l’occhio alle controparti africane allora più vicine agli ideali comunisti che all’Occidente capitalista.
Così come le relazioni politiche ed economiche sino-africane, anche la storia dei migranti africani in Cina risale a quel periodo quando il regime comunista, guidato da Mao Zedong a seguito della guerra civile cinese, iniziò ad invitare nel Paese giovani membri dei ceti dirigenti africani al fine di educare individui capaci di guidare gli sforzi rivoluzionari nei Paesi di origine.
Nonostante le differenze culturali, la convivenza tra giovani universitari cinesi e quelli di origine africana proseguì pacificamente fino alla fine degli anni ’70, periodo in cui, soprattutto nei campus universitari, la xenofobia anti-africana ebbe il suo inizio. In particolare, l’ostilità dei giovani cinesi verso gli africani divampò quando iniziarono a esserci contatti tra uomini africani e donne cinesi. Le frizioni furono inoltre dovute alla convinzione che il Governo comunista si fosse alleato con nazioni arretrate a scapito delle risorse del Paese e al risentimento per gli stipendi più alti attribuiti agli studenti neri.
Avvenuto a Shanghai nel 1979, il primo violento scontro tra studenti risultò nell’aggressione di studenti africani accusati di aver suonato musica ad alto volume e fatto commenti sessuali a donne cinesi. Tale incidente diede inizio a una lunga serie di manifestazioni anti-africane che durarono fino alla fine degli anni ’80. Molte di queste furono documentate all’epoca sia dal New York Times che da autori come Micheal J. Sullivan e Yinghong Cheng con studi e approfondimenti accademici.
L’incidente di Nanchino, che durò dal dicembre 1988 al gennaio successivo, fu uno degli episodi più violenti. Innescata all’Università di Hehai da una disputa tra una guardia di sicurezza cinese e due studenti africani che portavano ragazze cinesi nei loro dormitori, la controversia si trasformò in massicce manifestazioni studentesche con il risultato di 13 studenti feriti.
Nel 1994, Il professore Barry Sautman rivelò in uno dei suoi lavori di ricerca la presenza di stereotipi razziali nella popolazione cinese. In particolare, gli studenti di origine africana venivano caratterizzati come intellettualmente e culturalmente inferiori, portatori di malattie quali l’HIV e con tratti sessuali particolarmente pronunciati. Tali stereotipi, secondo Sautman, erano dovuti all’emergere di idee di classe in Cina, idee sviluppate a seguito della forte crescita economica.
A differenza del passato, la xenofobia verso i neri nella Cina contemporanea è strettamente legata alla globalizzazione e ai flussi migratori. La crescente presenza africana nel Paese viene vissuta da molti cinesi come minaccia alla pace e alla coesione sociale. Infatti, la stessa città di Guangzhou viene considerata particolarmente pericolosa a causa della numerosa presenza di migranti africani.
Questi vengono spesso associati ad attività criminali, in special modo spaccio di droga e abusi sessuali. La comunità africana viene altresì associata alla permanenza illegale sul territorio oltre la scadenza del visto. Da qui le radici del termine 三非 Sanfei (che significa “tre mali”, inteso come crimini di ingresso, permanenza e lavoro illegale) usato per indicare i cittadini africani che entrano, soggiornano e lavorano illegalmente in Cina.
I maltrattamenti di Guangzhou hanno subito scatenato l’indignazione internazionale e l’immediata reazione da parte dei Paesi africani, molti dei quali hanno chiesto una spiegazione sulla “stigmatizzazione e discriminazione” che si stanno mettendo in atto. Una delegazione di ambasciatori africani a Pechino ad aprile ha consegnato una lettera al ministro degli Esteri cinese chiedendo la fine immediata dei trattamenti disumani, dei test forzati e delle quarantene obbligatorie.
Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, esprimeva, invece, la sua estrema preoccupazione convocando un meeting con l’ambasciatore cinese nell’UA, Liu Yuxi. Dal canto suo, Moses Kuria, membro del Parlamento kenyota, assumeva una posizione più bellicosa chiedendo l’immediata espulsione di tutti i cittadini cinesi dal Kenya.
La popolazione di origine africana in Cina si concentra principalmente nella zona meridionale del Delta del Fiume delle Perle nella provincia del Guangdong, in modo particolare a Guangzhou. Qui, il numero di migranti africani è di circa centomila unità (tale cifra, riferita al 2012, è significativamente diminuita negli ultimi anni a causa delle restrizioni sull’immigrazione). Da qui la città prende il soprannome di “Chocolate City” o “Little Africa“.
I migranti provengono prevalentemente dall’Africa occidentale (specialmente da Senegal e da Mali) e si concentrano per la maggior parte nei quartieri di Xiaobei e Guangyuanxi dove studiano e fanno commercio.
Come in Cina, anche in Africa negli ultimi anni sono nati forti sentimenti contro la “predatoria” presenza economica cinese nel continente.
I sentimenti anti-cinesi in Africa
Negli ultimi anni, la presenza della Cina in Africa si è fatta sempre più forte, tale da diventare in poco tempo il più grande partner commerciale dell’intero continente, nonché il primo creditore. E sebbene molti leader africani elogino il contributo dello Stato cinese alle loro Nazioni, l’incremento della sua presenza incontra molto scetticismo nell’opinione pubblica che teme un “nuovo colonialismo” o una “seconda corsa all’Africa“.
Infatti, il commercio della Cina con l’Africa, che nel 2000 ammontava a 10 miliardi di dollari, nel 2018 ha raggiunto valori di 15 volte superiori. La Cina, inoltre, è anche il primo creditore dell’Africa, avendo prestato circa 148 miliardi di dollari a quasi 50 Stati africani tra il 2000 e il 2018.
In un tale contesto, politici e gruppi della società civile non hanno mancato l’occasione per screditare la relazione sino-africana. Le critiche riguardano lo sfruttamento cinese delle materie prime, il non contribuire di fatto alla creazione di posti di lavoro e l’indebitamento del continente africano. La Cina è inoltre accusata di invadere i mercati africani con cibi dannosi e prodotti di bassa qualità.
Nel 2006, l’allora presidente del Sud Africa Thabo Mbeki avvertì che le continue esportazioni di materie prime dell’Africa in Cina e le importazioni di manufatti cinesi avrebbero potuto condannare al sottosviluppo l’intero continente. Parimenti, il defunto presidente dello Zambia Micheal Sata riuscì a vincere le elezioni presidenziali del 2011 anche giocando la carta del “alla Cina interessano solo le nostre materie prime“. In molti dei suoi discorsi di campagna elettorale, Sata accusò gli investitori cinesi di retribuire salari da fame, di violare gli standard di sicurezza e ambientali sui luoghi di lavoro e di corrompere i leader africani.
Vogliamo che i Cinesi se ne vadano e che le vecchie potenze coloniali tornino. Queste ultime hanno sfruttato le nostre risorse naturali, ma almeno si sono prese cura di noi. Hanno costruito scuole e ci hanno insegnato la loro lingua e i loro costumi. Il capitalismo occidentale aveva un volto umano, ma i cinesi vogliono solo sfruttarci.
Così si espresse Sata in uno dei suoi discorsi nel 2007, attingendo al crescente risentimento verso gli investitori cinesi nell’ex colonia britannica.
Miles Sampa, sindaco di Lusaka, ha recentemente ricevuto elogi sui social per aver condotto indagini su società di proprietà cinese in Zambia (tra cui Simona Cement e Bank of China) dopo che si era sparsa la voce che lavoratori locali stavano subendo atti e trattamenti discriminatori per mano di manager cinesi.
Molte ricerche hanno tentato di sfidare (e sfatare) le percezioni negative degli africani sulla Cina. In più di mille aziende cinesi intervistate da McKinsey & Company nel 2017, l’89% dei dipendenti erano africani. È arrivata a conclusioni analoghe la ricerca quadriennale di Carlos Oya e Florian Schaefer condotta nel 2019.
Molti analisti ed esperti reputano il prossimo secolo un’età dell’oro sia per la Cina che per l’Africa. E nonostante sia abbondante di risorse naturali e di forza lavoro a basso costo, il continente africano è vittima di gravi problematiche strutturali: corruzione, bassi tassi di alfabetizzazione, mancanza di forti istituzioni democratiche, scarso accesso ai beni e servizi di prima necessità. In tale scenario, la Cina si presenta come un partner commerciale di primo ordine che può aiutare a risollevare la situazione in cui versano molti Paesi africani.
Similmente, l’Africa rappresenta la nuova fonte di sostentamento per l’economia cinese che, dopo decenni di crescita, si sta avviando verso una naturale fase di stagnazione economica. Inoltre, attualmente in Africa vivono circa 1 milione di cinesi.
In tale contesto, un deterioramento dei rapporti tra i due partner commerciali potrebbe rivelarsi fortemente dannoso. E per entrambi. Dovranno pertanto – consigliano gli analisti – accantonare le proprie differenze e definire obiettivi economici comuni per un futuro di prosperità per entrambi in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso.
Articolo molto interessante!
Mi sono sempre chiesta da dove provenisse questa discriminazione contro gli africani in Cina e se ci fossero comunità di africani in Cina.
Grazie a questo articolo, ho dato risposte ad alcune domande.