Thailandia, la gioventù ardita che sfida il reato di lesa maestà

In Thailandia si lotta per diritti civili, libertà e democrazia, con proteste in corso da mesi nelle piazze del Paese, a dimostare l’alto livello di frustrazione verso un sistema politico finora considerato intoccabile.

De jure, la nazione asiatica è una monarchia costituzionale dal 1932, quando il potere assoluto del re è stato abolito grazie alla Rivoluzione siamese, guidata da un gruppo di civili e militari. Senza coinvolgere il popolo, questi rivoluzionari posero fine al regno monarchico assolutistico che aveva forgiato la nazione per 800 anni. Si parlò, allora, dell’inizio della democrazia, con la prima Costituzione del Paese e la creazione dell’Assemblea nazionale. L’evento è cruciale per la storia thailandese e ha dato il via anche alla rivalità civile-militare per il controllo del Governo, dalla quale emerge tutta l’instabilità politica della Thailandia moderna e contemporanea.

Dal 1932, infatti, il Paese ha subito ben 19 colpi di Stato e il testo costituzionale è stato cambiato e redatto più volte dall’esecutivo di turno, spesso in mano ai militari. Nel marzo 2019, la Thailandia ha indetto le elezioni dopo il golpe del 2014 che aveva rovesciato il Governo democraticamente eletto. Il voto, però, non è stato valutato come limpido e democratico. Piuttosto, il processo elettorale è sembrato un progetto politico ben studiato per prolungare e legittimare il ruolo dominante dei militari.

Il nuovo Governo, non a caso, è guidato dal primo ministro Prayuth Chan-o-cha che è anche l’ex capo dell’esercito e continua a limitare i diritti civili e a reprimere il dissenso. Il monarca thailandese in carica, il re Maha Vajiralongkorn, ha consolidato i suoi priveligi con l’appoggio e la complicità dei militari.

De facto, quindi, la nazione del Sud-Est asiatico è nelle mani di un re, che grazie alla Costituzione detiene ingenti ricchezze e controlla una parte dell’esercito, difeso dalla intoccabile legge sulla lesa maestà, e di un gruppo di militari.

Una cornice nella quale è difficile dipingere la Thailandia come una democrazia matura, tanto che anche l’Asean Global Democratic Ranking considera il Paese una flawed democracy (democrazia imperfetta). Il Governo eletto, infatti, poco ha fatto per cancellare l’eredità della dittutura militare.

Chiunque sia percepito come una persona critica della giunta al potere o della monarchia è ad alto rischio di sorveglianza, arresto, incarcerazione, molestie e attacchi fisici. Il nuovo esecutivo thailandese ha mantenuto attive 140 leggi in vigore negli anni del regime, comprese quelle che limitano la libertà di espressione. Resta vigente, per esempio, la legge sulla criminalità informatica introdotta nel 2016, che conferisce alle autorità ampi poteri per limitare l’espressione di pensiero online, per imporre la censura e per controllare il flusso di comunicazioni. 

La Costituzione consente ancora che i membri della giunta (e chiunque agisca per loro ordine) non siano ritenuti responsabili per le violazioni dei diritti umani commesse durante il Governo militare. Non solo, i casi giudiziari civili pendenti dovevano essere trasferiti dai tribunali militari a quelli civili con la formazione del nuovo esecutivo. Tuttavia, questo non è accaduto e i militari hanno mantenuto ampi poteri per eseguire detenzioni arbitrarie.

Immagine del sovrano della Thailandia esposta per le strade di Bangkok – Foto Flickr su licenza CC – Michael Swan

L’attuale sovrano della Thailandia, poi, è una figura alquanto ambigua e di certo non amata soprattutto dalle giovani generazioni. Trascorre gran parte dell’anno all’estero e da quando è salito al trono nel 2016 ha consolidato il controllo finanziario e militare. Con le modifiche alla Costituzione, ha reso più facile governare dall’estero, ha portato due importanti reggimenti dell’esercito sotto il suo comando e ha ottenuto la supervisione diretta sui beni reali. Si tratta del Crown Property Bureau, un vasto portafoglio immobiliare e di investimenti precedentemente gestito da agenzie statali. Sebbene il valore stimato non sia reso pubblico, le sue proprietà immobiliari nella sola capitale thailandese sono state valutate $ 33 miliardi.

In più, continua ad essere garantito dalla legge di lesa maestà, diventata ora il simbolo della protesta per il cambiamento. La monarchia è protetta dalla sezione 112 del codice penale del Paese, che afferma che chiunque diffami, insulti o minacci il re, la regina, l’erede al trono sarà punito con la reclusione da 3 a 15 anni. Tale legge contro gli insulti ai reali è in vigore dagli inizi del 1900, quando la Thailandia era conosciuta ancora come Siam. Il re è descritto nella Costituzione come colui che è “investito della regalità in una posizione di venerato culto”.

Tra il colpo di Stato del 2014 e l’inizio del 2018, sono state presentate almeno 98 accuse di lesa maestà. Le organizzazioni per i diritti umani hanno affermato che molti di questi casi non sono stati altro che una persecuzione degli oppositori al Governo militare. Tra i processi ce n’era uno per diffamazione del cane da compagnia del defunto re.

L’ultimo caso di insulto reale è stato perseguito nel marzo 2018 contro due uomini processati per aver bruciato le foto del re, secondo Thai Lawyers for Human Rights. Ora, nonostante la legge non sia stata più applicata da quando è in carica il Governo eletto, stando alle informazioni degli attivisti, gli oppositori dei militari vengono accusati in base ad altre leggi, come quelle contro la sedizione e i crimini informatici.
Non è un caso, quindi, che le proteste degli studenti thailandesi, scoppiate a febbraio e ancora in corso, abbiano preso di mira proprio l’istituzione monarchica, invocando l’eliminazione di anacronistici e poco democratici meccanismi di potere.

Il re, finora, non era mai stato messo in discussione nella nazione, avvalendosi di un rispetto e di un’obbedienza totali. La monarchia è considerata sacra ed è parte integrante dell’identità nazionale. Per questo, le grida dei giovani in piazza affinché la Costituzione elimini alcuni privilegi del re (e soprattutto sia al di sopra dello stesso sovrano) sono state valutate come ardite, soprendenti, capaci di rompere un vero tabù per la prima volta nella storia del Paese.

La rabbia dei giovani studenti thailandesi è esplosa a febbraio 2020, quando la magistratura ha sciolto il partito di opposizione Future Forward Party, fondato nel 2018 da un giovane e ricco imprenditore appoggiato dalle nuove generazioni. Il FFP, infatti, aveva ottenuto un buon risultato alle elezioni del 2019, piazzandosi al terzo posto e invocando riforme istituzionali per limitare il potere della giunta dei militari, decentralizzare la burocrazia, avviare riforme per l’equità sociale ed economica.

Le prime manifestazioni sono state represse con facilità dalle forze di sicurezza. L’indignazione giovanile, però, non si è più fermata da quel giorno. Nuove tensioni sono emerse a giugno, quando è arrivata la notizia che un attivista pro-democrazia della Thailandia era stato rapito in Cambogia. Dell’uomo non si è più saputo nulla, aumentando i sospetti che la giunta militare fosse coinvolta nel caso.

Proteste di piazza a Bangkok, 18 luglio 2020. Foto Wikimedia Commons in CC – Supanut Arunoprayote

Pur in piena emergenza COVID, quindi, le manifestazioni studentesche si sono moltiplicate. Da luglio a settembre i raduni nelle piazze sono diventati man mano più numerosi e partecipati. Il culmine è stato raggiunto nel grande evento del 10 agosto scorso, quando è stato letto il manifesto delle proteste in dieci punti.

Le richieste di cambiamento sono diverse e comprendono: scioglimento dell’attuale Parlamento (che i manifestanti ritengono sia stato eletto attraverso brogli); ampi emendamenti costituzionali (in particolare l’abolizione del Senato non eletto e la modifica del sistema elettorale); fine degli abusi per chi critica il Governo; riforma della monarchia; cancellazione della lesa maestà; annullamento della protezione del re da potenziali azioni legali contro di lui; taglio del bilancio del Palazzo Reale ed eliminazione della lunga tradizione delle scuole thailandesi di lodare la monarchia.

In questo clima di aperto dissenso con lo status quo politico, sociale e culturale della Thailandia, si sono svolte anche altre grandi manifestazioni di piazza, come quella del 19 settembre. Migliaia di manifestanti, non solo studenti, hanno marciato nei pressi della residenza ufficiale del re per consegnare a mano una lettera che chiedeva di frenare il potere e il bilancio della famiglia reale.

Il popolo giovane della Thailandia promette battaglia per cambiare, non eliminare la monarchia. La convinzione nelle proteste è aumentata ancora di più dopo il 24 settembre, quando è stata rinviata la votazione su 6 emendamenti alla Costituzione, richiesti proprio dai manifestanti.

Lo slittamento è stato votato da 431 tra parlamentari e senatori contro 255, con l’opposizione che ha deciso di abbandonare l’aula e raggiungere le proteste. Gli studenti criticano apertamente anche la Commissione incaricata di riformare il testo costituzionale, visto che i suoi membri sono 16 deputati a favore del Governo e 15 senatori. Il Senato, da notare, è tutto nominato dalla giunta militare.

La situazione ora è incandescente, soprattutto dopo il grande raduno indetto il 14 ottobre. Questa volta, il Governo ha reagito severamente e in modo repressivo, dichiarando lo stato di emergenza nella capitale.

In base alle misure straordinarie entrate in vigore, le riunioni di cinque o più persone sono vietate, così come la pubblicazione di notizie o informazioni online che “potrebbero creare panico” o “influenzare la sicurezza nazionale“. Inoltre, le forze dell’ordine possono trattenere i manifestanti fino a 30 giorni, senza accesso ad avvocati o ai familiari.

Nonostante tutto, i manifestanti non si sono arresi e hanno sfidato le nuove leggi radunandosi nel centro di Bangkok ancora nei giorni successivi. L’agitazione è forte e destinata a continuare, con molte altre città coinvolte oltre alla capitale. La polizia sta intervenendo con rigore, disperdendo i manifestati con cannoni d’acqua, cariche e arresti arbitrari, come quelli di una cinquantina di dimostranti, tra i quali l’avvocato per i diritti umani Anon Nampa.

Un attivista è stato fermato, poi rilasciato su cauzione insieme ad altri, per aver cercato di danneggiare la regina – accuse raramente usate e che portano una potenziale condanna all’ergastolo – dopo che i manifestanti hanno gridato contro i sovrani al passaggio dell’auto reale.
Il bisogno di avere istituzioni democratiche e garanti dei diritti umani, civili, politici si è ormai trasformato in lotta in Thailandia, dove le piazze urlano slogan quali: “Nessun dio, nessun re, semplicemente uomini“, “Abbiamo bisogno di una vera democrazia”, oppure “Questo Paese appartiene al popolo e non è di proprietà del monarca che ci ha ingannati(frase incisa su una targa e deposta nei pressi del Grand Palace dai manifestanti).

Il movimento thailandese non ha alcuna intenzione di mollare la presa contro militari e monarca. I suoi leader, come Parit “Penguin” Chiwarak e Panasaya “Rung” Sitthijirawattanakul, la studentessa che ha letto le dieci richieste del manifesto, sono ormai nel mirino della polizia.

Con il loro saluto ribelle delle tre dita alzate – ripreso dalla serie di libri The Hunger Games – rappresentano la parte più vivace della Thailandia, intollerante alle ingiustizie, all’arretratezza delle tradizioni, come quelle legate alla monarchia, all’assenza di tulele per i diritti civili, alla mancanza di prospettive lavorative.

Come commentato dall’analista di ISPI Giulia Sciorati: “Il “gigante sepolto” thailandese si è svegliato. Sebbene le proteste pro-democrazia non siano una novità per il Paese, l’attivismo di questi giorni è radicalmente diverso dal passato poiché si poggia su una fascia della popolazione che ha lo sguardo rivolto verso il mondo”.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

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