Canarie, vertiginoso incremento di sbarchi sulla rotta atlantica

Poco meno di 8 miglia nautiche, equivalenti a circa 14 chilometri. Questa è la distanza che separa il punto più a Nord della costa marocchina dalla Spagna continentale. Una distanza minima, che ha reso questa stretta lingua di mare una delle rotte migratorie più battute dell’intera area mediterranea.

Seguendo l’ormai consolidato pattern sud europeo che da anni vede i Paesi frontalieri impegnati nella stipula di accordi bilaterali con Paesi terzi – basti pensare agli accordi fra Italia e Libia e fra Grecia e Turchia – nel 2019 anche la Spagna si è fatta promotrice di un trattato di collaborazione con il Marocco finalizzato a controllare i flussi migratori diretti verso la costa iberica. Tale documento, siglato dal Governo socialista di Pedro Sanchez, prevede lo stanziamento di 140 milioni di euro in cambio di una più stretta e pronta collaborazione da parte delle autorità marocchine nel bloccare le partenze.

Operazione di salvataggio nello Stretto di Gibilterra, foto dell’utente Shutterstock Gene Isenko in licenza CC

Ed effettivamente, stando ai dati riportati da UNHCR, l’accordo ha centrato in pieno i propri obiettivi: nel 2020 gli sbarchi sulle coste continentali spagnole sono diminuiti di oltre il 20% rispetto al medesimo periodo di riferimento dell’anno precedente.

Se preso singolarmente, tale dato potrebbe apparentemente far pensare ad una vittoria strategica del Governo Sanchez, un’ottima carta da giocare a fini elettorali. Ma non è così, perché i flussi migratori difficilmente si estinguono; piuttosto, trovano nuove vie di fuga. E infatti, in questo caso, l’immediata conseguenza è stata un vertiginoso incremento di sbarchi provenienti da una nuova rotta migratoria: quella diretta verso le Isole Canarie.

Sempre secondo quanto riportato dalle statistiche elaborate da UNHCR, gli arrivi nell’Arcipelago Canario al 27 settembre 2020 superano le 6 mila unità. E stando ai dati diffusi da CEAR Canarias, solo nei primi quindici giorni di settembre sarebbero sbarcate 1300 persone. Si tratta di numeri che, paragonati ai dati raccolti negli anni precedenti, equivalgono ad un incremento degli arrivi di oltre il 500%.

Sbarco sulle coste delle Isole Canarie, foto dell’utente Flickr Noborder Network in licenza CC

Ma la questione va ben al di là di numeri e statistiche. La rotta verso le Isole Canarie è infatti molto pericolosa.

Maria Greco, portavoce del collettivo Entre Mares con base a Fuerteventura, spiega a InfoMigrants che la traversata atlantica comporta una serie di complicazioni tecniche e atmosferiche che rendono il rischio di naufragio estremamente alto: la notevole distanza fra le coste africane e quelle dell’arcipelago spagnolo, le correnti e la totale assenza di punti di riferimento sono solo alcuni dei fattori che hanno fatto schizzare il tasso di mortalità lungo questa rotta ad una persona ogni sedici. A ciò si aggiunga che le partenze non avvengono soltanto dalle coste più vicine alle Isole Canarie, quali Marocco e Mauritania, ma anche da Paesi molto più a Sud, come Gambia e Senegal.

È del 19 agosto l’ennesima notizia del ritrovamento di una scialuppa alla deriva a circa 150 chilometri dall’isola di Gran Canaria. Al suo interno, 15 corpi senza vita. L’autopsia successivamente effettuata ha svelato che il decesso è avvenuto per fame e sete fra gli otto e i dieci giorni antecedenti al ritrovamento, confermando quanto la rotta verso l’Arcipelago Canario sia lunga e orribilmente rischiosa.

Ma non finisce qui, perché una volta affrontata la traversata oceanica chi sopravvive deve fare i conti con un sistema di accoglienza completamente allo sbando.

Come osserva il dottor Martin Castillo, medico in servizio sull’isola di Gran Canaria intervistato da El Diario, le 72 ore successive allo sbarco giocano un ruolo fondamentale nel porre le basi per il recupero psico-fisico dei sopravvissuti. Eppure, sempre secondo quanto riportato dal quotidiano spagnolo, non è raro che le persone vengano letteralmente abbandonate per giorni sui moli dei porti di sbarco in attesa che si liberino dei posti in accoglienza. E anche quando il trasferimento in apposite strutture viene finalmente effettuato, non si può certo dire che il contesto favorisca l’elaborazione del trauma.

L’attesa dopo lo sbarco, foto dell’utente Flickr Noborder Network in licenza CC

Il collettivo Caminando Fronteras si occupa da anni di denunciare le inadeguatezze del sistema di gestione dei flussi migratori in ingresso in Spagna, e da ormai svariati mesi sta svolgendo un accurato lavoro di monitoraggio sulle Isole Canarie. In un video comunicato pubblicato il 27 agosto, il collettivo denuncia le degradanti condizioni di vita all’interno di un centro di accoglienza ubicato sull’isola di Lanzarote.

Le immagini, registrate da alcune migranti che vivono nella struttura da circa due mesi, mostrano un garage malamente attrezzato in cui alloggiano più di cento persone costrette a condividere un solo bagno privo di acqua corrente. Le donne affermano di non aver ricevuto alcun tipo di assistenza dal loro arrivo, lamentano di trovarsi nella più totale impossibilità di comunicare con le proprie famiglie e di essere costrette a rovistare nella spazzatura per procurarsi degli indumenti.

Condizioni di accoglienza che dunque non rispettano nemmeno lontanamente gli standard minimi richiesti – tanto più ai tempi dell’emergenza covid – incidendo negativamente sull’equilibrio fisico e psicologico di persone già duramente provate da un percorso migratorio di certo non facile.

La risposta del Governo spagnolo a quanto sta accadendo sulle Isole Canarie è stata l’imposizione di una riserva geografica simile a quella utilizzata dal Governo greco sulle isole dell’Egeo: a chi sbarca nell’Arcipelago Canario vengono rilasciati dei documenti provvisori che non consentono di raggiungere la Spagna continentale. Tale decisione richiama inevitabilmente alla mente gli spettri di Lesvos e Samos – le due jungle europee dove migliaia di richiedenti asilo e rifugiati vivono bloccati in un limbo costellato da quotidiane violazioni dei diritti umani – e viene da chiedersi se la policy europea in fatto di flussi migratori stia definitivamente virando verso il più estremo livello di contenimento fisico del fenomeno.

Quel che resta dello sbarco, foto dell’utente Flickr Noborder Network in licenza CC

La risposta a tale quesito è probabilmente affermativa. Il ministero dell’Interno spagnolo ha infatti recentemente dichiarato che riaprirà i CIE di Gran Canaria e Tenerife, strutture detentive in cui vengono trattenuti i cittadini stranieri in attesa di rimpatrio. I centri, chiusi dallo scorso 31 marzo a seguito di alcuni casi di coronavirus, consentiranno alle autorità di procedere speditamente al rimpatrio forzato di tutti coloro i quali verranno giudicati non rispondenti ai requisiti richiesti per ottenere un permesso di soggiorno spagnolo.

Ciò che preoccupa è l’impatto potenzialmente ampissimo del piano rimpatri. La Spagna vanta infatti ben tre accordi bilaterali, tutti con Paesi da cui partono massicci flussi diretti verso le Canarie: Marocco, Senegal e Mauritania. Quest’ultimo, in particolare, prevede la possibilità di rimpatrio forzato non solo per i cittadini mauritani ma anche per cittadini stranieri che sono entrati illegalmente in territorio spagnolo transitando per la Mauritania.

A quanto pare, la strada verso una gestione dei flussi migratori che rispetti pienamente il diritto alla libertà di movimento è ancora tutta in salita.

Camilla Donzelli

Laureata in Scienze Politiche per la Cooperazione e lo Sviluppo, si forma poi come consulente legale professionale con ASGI - Associazione Studi Giuridici Immigrazione e lavora per diversi anni nel sistema di accoglienza italiano. Appassionata di antropologia politica e da tempo impegnata nella diffusione di buona informazione circa i fenomeni migratori, nel 2020 si trasferisce ad Atene per studiare da vicino gli effetti delle politiche europee sulle popolazioni in movimento. Attualmente collabora con Jafra Foundation Greece.

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