Rifugiati LGBTI, Paesi di accoglienza e centri di aiuto e sostegno

We have a broken heart here. […]” Aisha, rifugiata transessuale somala.

Nel linguaggio specialistico e di settore si parla di persone con SOGIESC diversificato. Questa “etichetta” permette di indicare molte sfumature: l’orientamento sessuale, l’identità di genere e della sua espressione nonché delle caratteristiche sessuali di una persona. Per semplicità utilizzeremo il termine ombrello LGBTI che sta per Lesbian, Gay, Bisexual, Transexual e Intersex.

Quale Paese di origine si lasciano alle spalle coloro che lo abbandonano e cercano rifugio in ragione del proprio orientamento sessuale e identità di genere? Cosa trovano queste persone al loro arrivo in Italia?

È difficile quantificare il numero delle persone LGBTI rifugiate e/o richiedenti asilo in Italia e in Europa, questo perché le commissioni asilo non pubblicano i dati sulle ragioni del riconoscimento della protezione internazionale. Quello che sappiamo, però, è che a 51 anni dal primo Pride della storia a New York ancora oggi in molti Paesi del globo gli omosessuali e le persone trans vengono represse, punite, criminalizzate, stigmatizzate, torturate e uccise.

Dai dati dell’Associazione “Carta di Roma”, aggiornati al 2016, risulta che l’omosessualità è un crimine in 78 Paesi del mondo ed è punita con la pena di morte in 13. Nell’Africa occidentale, per esempio, i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso sono legali solo in Mali e in Costa d’Avorio.

In Cecenia, con la complicità del Governo di Mosca, gli omosessuali vengono perseguitati, arrestati e torturati. In Russia non esiste una legge che punisca le discriminazioni contro le persone LGBTI e gli episodi di omofobia non si contano. In Nigeria la violenza è endemica e a farne le spese sono anche omosessuali e trans perseguitati/e dai propri connazionali così come dallo Stato; è infatti una legge dell’ex presidente Jonathan Goodluck a prevedere 10 anni di carcere per gli omosessuali.

Foto tratta dal web

Sembrerebbe paradossale che molte persone di orientamento LGBTI trovino rifugio in Paesi del continente africano perché vittime di violenza basata sull’identità di genere o orientamento sessuale; giovani donne, uomini e ragazzi gay, transessuali raggiungono paesi limitrofi come il Kenya dove, in ogni caso, vige ancora oggi una legge d’epoca coloniale contro l’omosessualità che l’Alta Corte del Paese africano ha riconfermato nel 2019 perdendo un’occasione per compiere dei passi in avanti. I rifugiati LGBTI in Kenya giungono soprattutto dalla confinante Somalia, dal Sudan del Sud e dalla Repubblica Democratica del Congo.

Un Paese nel quale, invece, è esplicitamente riconosciuta protezione alle persone LGBTI è il Sudafrica – esempio di progressismo nell’area del continente – eppure il gap tra il piano delle leggi e quello della loro applicazione è enorme così come il dislivello tra “buone intenzioni” e cultura omofobica diffusa.

Non è solo un problema giuridico, tuttavia legiferare a tutela delle persone LGBTI aiuta. C’è sicuramente una base culturale sulla quale è importante agire e che va riconosciuta come elemento cruciale per la vita quotidiana di un omosessuale.

In tema di clima culturale ostile, citiamo il caso dei due albanesi, Ardit e Mir (nomi di fantasia). Gli operatori di una questura italiana si sono opposti  fermamente alla loro volontà di presentare domanda di asilo allo Stato italiano perché “da quando in qua in Albania essere omosessuale è un crimine?“, un abuso di potere bello e buono.

Per fortuna ha vinto la tenacia e la coppia è riuscita a inoltrare la propria richiesta di asilo alla Prefettura (ministero Interno) come da prassi. Pochi mesi dopo arriva la notizia del riconoscimento della protezione internazionale per entrambi: la commissione asilo aveva riconosciuto loro la più alta forma di protezione ritenendo che la loro vita si sarebbe trasformata in un inferno se fossero dovuti rientrare a Valona.

Non si tratta di un caso isolato, una cosa simile avvenne molti anni fa a Pistoia, quando la commissione chiamata a decidere su un caso ritenne “ostile il contesto sociale” in Albania pur non sussistendo – in questo Paese – una legge che condanni esplicitamente l’omosessualità.

Certo, se il coming out (il dichiararsi) è difficile per chi nasce o vive nel mondo occidentale di sicuro vi sono molte variabili che complicano la situazione per i rifugiati. In molti casi questi non sono parte integrante della comunità nel loro Paese, non hanno una grande rete di supporto intorno a loro e – soprattutto – non godono e non possono godere della protezione del proprio stato.

C’è poi da considerare la variabile dell’indigenza e – non ultima – quella del colore della pelle. Il razzismo è endemico e non è il fardello di un solo Paese, ma è evidente come essere neri, omosessuali e spesso non ricchi, non faciliti affatto le cose. Non a caso nel mondo esistono black (gay) Pride come quelli storici di Atlanta e Washington D.C.

D’altronde negli U.S.A. è un’altra storia, sono passati 50 anni ormai dalle rivolte di Stonewall a New York, sorte in seguito all’ennesima irruzione della polizia nel locale “Stonewall Inn”; leggenda vuole che fossero state due transessuali – una di origini latine, Sylvia Rivera, e un’afroamericana, Marsha P. Thomson – a inaugurare la rivolta contro la polizia, lanciando una scarpetta con il tacco.

Pride nel 2016, il giorno dopo che il presidente Barack Obama proclamò lo Stonewall monumento nazionale. Foto tratta da Wikimedia

Ma in Italia? I rischi cui sono esposti i rifugiati LGBTI sono ovunque: nel Paese di origine, in quelli di transito e di asilo. Corneille è un giovane ragazzo gay e a lui in Italia è andata bene; in Camerun ha due figli e ha subito torture dopo essere stato scoperto in flagrante durante un rapporto intimo con un ragazzo. Ha dovuto lasciare il suo Paese sotto esplicite minacce di parte della famiglia e della comunità, ma le minacce si sono trasformate in atti di cui, ancora, porta i segni sulla pelle. Oggi Corneille è un’attivista per i diritti civili e con l’associazione LGBTI “Omphalos” ha contribuito a dar vita a un gruppo migranti LGBTI.

Un’altra esperienza italiana rilevante è quella del circolo Pink di Verona finanziato, tra gli altri, dall’8 x mille della chiesa Valdese. Il Pink Refugees Group propone incontri di gruppo e lezioni di italiano a stranieri. Altre esperienze virtuose sono quelle della Cooperativa Caleidos di Modena che, come ricorda Giorgio Dell’Amico di Arcigay Nazionale: “è stata la prima realtà, dal 2017 ad aver previsto l’accoglienza specifica per richiedenti asilo lgbt in collaborazione con Arcigay Modena“. Infine è da segnalare l’attività di “Il Grande Colibrì – essere LGBTI nel mondo”.

Non esistono molte realtà di accoglienza per le persone LGBTI , ma a Bologna c’è un progetto  “Rise The difference” realizzato grazie alla Cooperativa Camelot, il centro risorse LGBTI e il MIT (movimento identità transessuale) che prevede anche soluzioni abitative. Infine Arcigay ha sportelli per migranti e rifugiati in molte città d’italia.

Non è abbastanza, ma non è poco e l’Italia sembra saper proporre servizi diversificati e in evoluzione in questo ambito. Sarebbe utile prevedere delle vere e proprie strutture di accoglienza per le persone sessualmente offese, vittime di molestia sessuale (sexual harassment).

È invece un’urgenza quella di dare un posto, una casa a chi viene cacciato dal nucleo familiare, a chi è stato abusato e ha bisogno di un recupero psico-fisico, a coloro che vogliano intraprendere, o hanno già avviato, un percorso di transizione sessuale. Finalmente si è aperto un dibattito in Italia anche sul Revenge Porn (la porno vendetta) che, per estensione, indica la diffusione non consensuale di materiale “intimo” di una persona. Spesso dietro la fuga di rifugiati LGBTI ci sono proprio storie di Revenge Porn come nel caso di A.S., 28 anni, cittadino iracheno fuggito dal suo Paese perché minacciato a seguito della diffusione di un video esplicito che lo riguardava.

L’attivismo, i Pride, un corpus di leggi anti discriminazione sono gli ingredienti di una ricetta che concorre al raggiungimento di una società meno discriminatoria.

Ma B. D. cittadino maliano, 27 anni e omosessuale è convinto che nulla cambierà in Africa, neanche qui in Italia è dichiarato e ha deciso di non dichiararsi mai, troppa sarebbe la sofferenza per sua madre che ama profondamente. Si sposerà con una ragazza e farà un figlio o due, così i genitori – da lontano – saranno felici quando vedranno le foto Facebook e finiranno, un giorno, per prendersi cura sia della moglie che dei bambini (dice lui). B. vivrà una vita nell’ombra, nascondendosi quando vorrà lasciarsi andare alla sua vera sessualità.

Anche nel continente africano, comunque, le lotte per il riconoscimento dei diritti dei gay e per combattere le discriminazioni sono massicce e in atto da tempo. Saranno proprio queste lotte a permettere a ognuno di fare le proprie scelte liberamente e magari a B. D., un giorno, di raccontarsi a viso aperto.

Michele Ramadori

Laureato in Filosofia a Perugia con una tesi sul filosofo ghanese Kwasi Wiredu e il dibattito storico sulle filosofie dell'Africa. Laurea Magistrale in Filosofia ed Etica delle relazioni. Si è occupato di immigrazione, protezione sociale e rifugiati in diverse ONG e nella sezione sociale del CIR (Consiglio italiano per i rifugiati) nonché di sensibilizzazione e prevenzione su Hiv/Aids, di NEET e diritti LGBT+. Attualmente lavora nell'ambito della progettazione europea e della cooperazione.

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