La logica gestione delle epidemie nelle antiche società africane

[Traduzione a cura di Gaia Resta dall’articolo originale di Shadreck Chirikure pubblicato su The Conversation]

Veduta aerea delle rovine di Grande Zimbabwe. Autore Janice Bell / CC BY-SA

Di tanto in tanto irrompe sulla scena una pandemia, con annesso il suo impatto drastico sulla società umana. Per esempio, la peste nera (1347-1351) o l’influenza spagnola del 1918; attualmente è in corso quella del COVID-19.

Gli archeologi hanno studiato a lungo le malattie diffusesi tra le popolazione del passato, avvalendosi di un’ampia gamma di elementi in grado di fornire prove: la disposizione degli insediamenti, le sepolture, i resti funerari e gli scheletri umani.

Così, grazie agli archeologi sappiamo, ad esempio,che l’impatto distruttivo delle pandemie causò l’abbandono di alcuni insediamenti ad Akrokrowa in Ghana agli inizi del XIV secolo d.C.. In un insediamento abbandonato, ora incluso nel sito di Mapungubwe nella Limpopo Valley in Sudafrica, dichiarato Patrimonio dell’Umanità, sono state rinvenute circa 76 sepolture di bambini, segno che la popolazione locale fu colpita da una epidemia databile successivamente al 1000 d.C..

Le analisi architettoniche e storiche hanno inoltre rivelato alcune delle strategie adottate dalle comunità per affrontare le pandemie. Tra queste, il dare fuoco agli insediamenti come misura di disinfezione e il conseguente spostamento verso nuovi luoghi. Il distanziamento sociale veniva praticato frammentando gli insediamenti. I ritrovamenti effettuati dagli archeologi a Mwenezi nel sud dello Zimbabwe hanno dimostrato che toccare o violare i resti dei defunti era considerato un tabù, per timore che le malattie potessero trasmettersi in tal modo.

Verso la fine degli anni Sessanta alcune persone, che lavoravano presso uno sito archeologico a Phalaborwa in Sudafrica al rinvenimento di pavimentazioni del XIII secolo, si rifiutarono di andare avanti quando trovarono delle sepolture che ritenevano sacre. Temevano, inoltre, che fossero collegate ad un’epidemia.

Distanziamento sociale e isolamento sono diventati parole d’ordine durante la pandemia da COVID-19. L’archeologia ci ha mostrato che le stesse pratiche ricoprivano un ruolo fondamentale nelle strategie adottate dalle antiche società africane.

Nell’attuale Zimbabwe, nel XVII e XVIII secolo il popola Shona poneva in isolamento gli individui colpiti da malattie infettive (ad esempio la lebbra) in alloggi temporanei. A pochissime persone era permesso entrare in contatto con i malati. In alcuni casi i cadaveri venivano bruciati per evitare la diffusione del contagio.

L’uomo ha la tendenza ad allentare la tensione e modificare le priorità una volta terminate le calamità. I dati raccolti dagli archeologi relativi ai sistemi di conoscenze indigene impiegati nelle antiche società africane per affrontare lo shock delle malattie e delle epidemie, possono ricordare ai politici odierni dell’esistenza di svariati modi per preparare le società moderne a queste eventualità.

Distanziamento sociale e isolamento

Le ricerche svolte presso l’antico insediamento urbano K2, parte del sito di Mapungubwe, hanno fatto luce in modo significativo sulle epidemie del passato. Gli abitanti di K2 (datato ad un periodo tra il 1000 e il 1200 d.C.) vivevano di agricoltura, allevamento di bestiame, metallurgia, caccia e raccolta di cibo nella foresta. Le loro economie locali e regionali erano ben sviluppate e alimentavano reti di scambio internazionale con le civiltà che si affacciavano sull’Oceano Indiano.

Il lavoro degli archeologi nel sito K2 ha portato alla luce un numero insolitamente alto di sepolture (94), di cui 76 appartenevano a bambini nella fascia di età tra 0 e 4 anni. Questo indica un tasso di mortalità del 5%. Prove raccolte sul sito dimostrano che l’insediamento venne bruscamente abbandonato nello stesso periodo delle sepolture; questo potrebbe significare che un’epidemia avesse costretto la comunità a spostarsi in un’altra zona.

Spostandoci in un’altra regione africana, il lavoro archeologico svolto presso antichi insediamenti urbani nel Ghana centrale e meridionale hanno localizzato l’esplosione di epidemie in luoghi quali Akrokrowa (950-1300 d.C.) e Asikuma-Odoben-Brakwa nel distretto centrale del Ghana.

Questi insediamenti, come altri nella Birim Valley del Ghana meridionale, erano delimitati da un intricato sistema di trincee e terrapieni. Alcuni elementi hanno dimostrato che dopo circa due secoli di occupazione stabile e continua, gli insediamenti vennero lasciati improvvisamente. Questo avvenimento sembra collocarsi nel periodo in cui la peste nera devastò l’Europa.

Finita l’epidemia, le abitazioni non vennero ricostruite né si accumularono rifiuti prodotti dalle varie attività quotidiane. Invece, le comunità colpite andarono a vivere altrove. Data la mancanza di elementi che provino effetti a lungo termine (come lunghi periodi di difficoltà, decessi o cambiamenti drastici a livello socioeconomico o politico), gli archeologi ritengono che queste comunità fossero in grado di gestire le epidemie e di adattarvisi.

L’analisi dei reperti archeologici ha rivelato che le antiche comunità africane adottassero varie strategie per gestire le epidemie. Per esempio, bruciare gli insediamenti aveva un’azione disinfettante prima di occuparli nuovamente o di spostare le proprietà in nuovi siti. I sistemi di conoscenze indigene africane dimostrano che incendiare gli insediamenti o le foreste fosse una modalità consolidata per gestire le malattie.

La disposizione degli insediamenti aveva grande importanza. Nei villaggi dello Zimbabwe e di alcune aree del Mozambico, ad esempio, ogni spazio poteva essere occupato da una o due famiglie. In questo modo le persone potevano mantenere la distanza tra loro, ma non troppa, in modo da poter continuare ad accudire, aiutare e collaborare. Mentre la coesione sociale era il collante che teneva insieme la comunità, il distanziamento sociale era una modalità integrata con valore ausiliario. Le comunità sapevano che le epidemie erano imprevedibili ma possibili, quindi costruivano i loro insediamenti in modalità diffusa per essere pronti a gestirle.

A questi comportamenti si associava una dieta diversificata che includeva frutta, radici e altri prodotti che fornivano nutrienti e rafforzavano il sistema immunitario.

Il passato dell’Africa e il futuro delle pandemie

Numerose sono le implicazioni a lungo termine determinate dalle epidemie scoppiate in queste comunità. Forse la più importante è che le popolazioni si organizzarono in modo da semplificare la convivenza con le malattie, gestendole e rispettando le regole basilari relative all’igiene, la pulizia e il controllo ambientale. La vita non si fermava a causa delle epidemie: le popolazioni compivano delle scelte volte alla convivenza con le malattie.

Alcuni di questi insegnamenti potrebbero essere applicati al COVID-19, guidando le decisioni e le scelte per proteggere i più vulnerabili dall’epidemia e permettendo contemporaneamente alle attività economiche e ad altri aspetti della vita di andare avanti. Come dimostrano i reperti archeologici, i comportamenti sociali costituiscono la prima linea di difesa contro le epidemie. È essenziale che questo venga tenuto in considerazione quando verrà pianificato il nostro prossimo futuro post-pandemia.

Gaia Resta

Traduttrice, editor e sottotitolista dall'inglese e dallo spagnolo in ambito culturale, in particolare il cinema e il teatro. L'interesse per un'analisi critica dell'attualità e per i diritti umani l'ha avvicinata al giornalismo di approfondimento e partecipativo.

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