Nelle occasioni in cui mi è capitato di entrare in contatto con le società dell’Africa Occidentale, la conversazione è spesso finita sulla “famiglia”: che fosse per domande di cortesia e di rito piuttosto che durante incontri di lavoro, per ricerca o chiacchierando davanti a una birra.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito in relazione alla famiglia in Africa attiene ai rapporti tra il diritto della tradizione africana e quello dello Stato. Quest’ultimo è erede del diritto di importazione europea. Gli elementi di incontro/scontro sono molti, così come molte sono le problematiche etiche e morali che sottendono. Poligamia, dote, riconoscimento dei “matrimoni tradizionali”, età del consenso per i rapporti sessuali e per il matrimonio, sono tutte questioni che restano ancora aperte nei vari ordinamenti e all’interno delle società.
La poligamia è una realtà diffusa in Africa, specie nella forma della poliginia (matrimonio di un uomo con due o più donne; la poliandria consiste invece nel matrimonio tra una donna e più uomini).
In Benin, ad esempio, il Codice delle Persone e della Famiglia riconosce il solo matrimonio monogamo. Tuttavia, parlando con persone di diverse provenienze ed estrazioni sociali, mi sono reso subito conto di come tale Legge sia in realtà lettera morta. Molte persone hanno più mogli, che siano ricchi medici, imprenditori, contadini o guaritori tradizionali. Alcuni hanno due o tre mogli, qualcuno (un guaritore) addirittura dieci, sparse tra Benin e Nigeria. Altri hanno una moglie “ufficiale”, ovvero si sono sposati secondo il diritto dello Stato, pur conservando le altre mogli non riconosciute.
Ma come si è arrivati a queste modalità di relazione tra coppia?
A Cotonou, un professore di filosofia del diritto mi spiega che durante il colonialismo venne applicato il sistema del “doppio binario”: i tribunali e le leggi francesi vennero affiancati da “tribunali consuetudinari”, dove si applicavano le norme di diritto locale precedentemente selezionate e raccolte, nel rispetto dei “principi della civilizzazione francese”. Le scelte, tuttavia, rispondevano ad esigenze politiche.
Il diritto di famiglia rimase perlopiù intatto, in quanto le amministrazioni coloniali non consideravano conveniente intervenire in pratiche così culturalmente e socialmente radicate. Il rischio era fomentare proteste e rivolte, senza avere un riscontro economico o politico immediato.
In seguito all’indipendenza, sopravvisse il sistema del doppio binario giuridico. Si poteva, quindi, scegliere se applicare il Coutumier du Dahomey – la raccolta di “consuetudini” locali redatta negli anni ’30 – oppure il Code Civil francese (recepito nel 1958). Il Coutumier restò in vigore fino addirittura al 1996, quando venne abrogato dalla Corte Costituzionale. Ma ci vollero sette anni all’Assemblea Nazionale per votare un disegno di legge per il nuovo Code des Personnes et de la Famille nel 2002.
Il disegno di legge prevedeva però il riconoscimento del matrimonio poligamico. Fu sempre la Corte Costituzionale, con una pronuncia innovativa nel suo genere, ad abrogare gli articoli sulla poligamia in nome dell’uguaglianza di genere, non considerando legittimo che fosse permesso a un uomo di avere più mogli, ma non a una donna di avere più mariti. Tale pronuncia non è stata però esente da critiche: alcuni parlamentari hanno accusato la Corte di aver ceduto alle pressioni delle Ong che si occupavano di diritti delle donne, e di aver quindi applicato un modello imposto dall’Occidente.
La poligamia, per quanto non riconosciuta, resta tollerata, creando però un vuoto di tutela legale (per quanto riguarda, ad esempio, questioni patrimoniali o di eredità) nei confronti delle mogli non “ufficializzate”.
In Togo, al contrario, vi è una maggiore apertura nei confronti delle tradizioni giuridiche locali. La fase prematrimoniale viene riconosciuta e recepita nel codice, anche se svuotata di ogni carattere di obbligatorietà, ed è permessa la poligamia.
È facile dunque notare come vi siano risposte molto diverse nelle legislazioni dei Paesi dell’Africa Occidentale. La dote, ad esempio, è permessa in Togo fino ad un massimo di 10.000 franchi, tollerata in Benin, criminalizzata in Burkina Faso e, fino a poco tempo fa, in Costa d’Avorio. Il matrimonio religioso o tradizionale non ha alcun valore giuridico in Togo e Benin, mentre in Ghana è riconosciuto dallo Stato e la sua trascrizione non è condizione di validità. Questo può avere conseguenze importanti: ad esempio, in caso di ricongiungimento famigliare può essere fatto valere il matrimonio tradizionale.
Un discorso certamente importante riguarda la legislazione sull’età del consenso per i rapporti sessuali. Come sottolinea un rapporto del United Nations Population Fund (UNFPA) – focalizzato sui Paesi dell’Africa sud-orientale ma le cui conclusioni valgono per tutto il continente – la criminalizzazione dei rapporti sessuali in età adolescenziale è un fenomeno ancora assai diffuso. Essa ha come obbiettivo la tutela dei minori, cercando di limitare certi fenomeni, quali: gravidanze indesiderate o infezioni sessualmente trasmissibili. Ma viene sottolineato come finisca in realtà per creare danni agli stessi soggetti che si propone di tutelare.
La mancanza di accesso a contraccettivi, all’aborto medicalizzato (dove legale) e a spazi di consulenza e informazione finiscono per esporre a gravi rischi gli adolescenti. Inoltre, le pene sono spesso molto severe e prevedono detenzioni anche lunghe, oltre a creare uno stigma sociale trattando gli imputati come stupratori o criminali.
Nella giurisprudenza di alcuni Paesi possiamo vedere come, pur partendo dagli stessi principi ed avendo gli stessi obbiettivi di tutela del minore, si arrivi a conclusioni diametralmente opposte.
La prima Corte a pronunciarsi sull’argomento fu la Constitutional Court of South Africa, che nel 2013, dichiarò incostituzionali le leggi che criminalizzavano i rapporti tra minori di 18 anni. La normativa in questione prevedeva la condanna per stupro per chi avesse avuto rapporti con un minore e, qualora vi fosse stato un rapporto tra adolescenti, entrambi sarebbero stati condannati per aver stuprato il partner. In seguito, la High Court of Kenya arrivò a diverse conclusioni. Nel caso C K W v Attorney General & another, pur prendendo in considerazione le sentenza sudafricana, rigettò il ricorso di un adolescente che rischiava 15 anni di carcere per aver avuto rapporti con la propria fidanzata, sostenendo che:
le disposizioni di legge considerate erano mirate al raggiungimento di un meritevole e importante obiettivo sociale, ovvero proteggere i minori dall’avere rapporti sessuali prematuri. I minori sono particolarmente vulnerabili e possono quindi avere bisogno di tutela legale. La legge che mira ad offrirgli tale protezione come è nei loro bisogni non è incostituzionale.
Una terza via viene offerta da un giudice dello Zimbabwe, che riduce la pena di un adolescente (anche lui condannato per una relazione sessuale con la sua fidanzata) a 210 ore di lavori socialmente utili, sottolineando come si debbano trattare diversamente le relazioni all’interno di un contesto affettivo tra coetanei e i casi di stupro o violenza sessuale nei confronti di ragazze minori in condizioni di fragilità:
Ignorare la realtà dei rapporti sessuali consensuali tra adolescenti e adottare un approccio oltremodo formalistico al crimine può risultare non solo come una sentenza punitiva non necessaria, ma anche come un precedente penale e una stigmatizzazione sociale come molestatore sessuale.
Uno studioso africano, Godfrey Dalitso Kangaude, porta la discussione anche sul piano del multiculturalismo. In un suo articolo, condanna le disposizioni penali sui rapporti tra adolescenti in termini di retaggio del colonialismo, dal sapore patriarcale. E racconta come nelle società africane non esistesse un concetto di “adolescenza” quale stadio di sviluppo intermedio tra infanzia e età adulta. Gli stadi della crescita non erano scanditi dal raggiungimento di determinate età anagrafiche: il bambino diventa adulto con la pubertà e con il compimento di una serie di rituali di passaggio.
Questo non significa che le società tradizionali africane non regolino i rapporti sessuali. Al contrario, secondo Kangaude, vi è una grande attenzione nei confronti dei minori che, nel corso dei riti, ricevono un’attenta educazione sessuale e vengono controllati in seno alla famiglia e alla comunità:
I sistemi culturali differirono nella maniera in cui costruirono e regolarono la sessualità adolescenziale. Le leggi coloniali sull’età del consenso proibirono le condotte sessuali basandosi sull’età anagrafica, e la proibizione era in termini assoluti.
I sistemi culturali africani limitavano la sessualità tra i post-pubescenti ma, in alcuni contesti, i giovani erano relativamente liberi di avere rapporti sessuali tra di loro. Inoltre, nelle società africane tradizionali, i giovani ricevevano un’educazione sessuale completa come parte dei riti di iniziazione
La questione è ancora attuale in molti Paesi, come si evince dalla richiesta del presidente della Young Women’s Christian Association (YWCA) del Ghana, che chiede di elevare l’età del consenso da 16 a 18 anni. Per quanto il fine possa essere quello di tutelare ragazzi a rischio, le norme penali non possono certamente sopperire a una mancanza di interventi sociali, di formazione ed educazione sessuale.
[Tutte le foto sono dell’autore]
Pingback: Famiglie africane, sessualità, relazioni: mix di leggi e tradizioni – Articolo21