Da anni si ripete che quando si parla del continente africano bisognerebbe ricordare che non esiste l’Africa, ma le Afriche. Tante quanti sono non solo i singoli Paesi che la compongono ma le molteplici realtà all’interno di ogni nazione, città, distretto, villaggio.
Oggi però l’impressione è che le Afriche si siano ridotte a due: quella di cui fa parte una popolazione più o meno privilegiata – politici, classe medio alta, giovani istruiti e connessi alla Rete e un’altra fascia (molto più ampia) di popolazione svantaggiata, vulnerabile. È quella che vive in slum e baraccopoli ai margini delle metropoli o anche a pochi passi da palazzoni, strade piene di negozi, aree di benessere insomma e quella che vive nelle aree rurali.
Secondo una stima di UN-Habitat nel continente sub-sahariano, nel 2010, circa 200 milioni di persone vivevano in slum. Un altro tipo di mappatura – riportata sulla rivista Nature – sottolineava che, al 2015, almeno 53 milioni di persone vivevano stipate in baraccopoli solo nelle aree urbane.
Aggiungiamo un dato che lascia capire il gap tra queste due Afriche: almeno il 52% degli africani devono andare a procurarsi l’acqua lontano dal luogo dove vivono: ruscelli, tubi collegati chissà dove, pozzi. Quello dell’acqua in Africa è un problema endemico, così come endemico è l’isolamento di molte aree rurali o costiere per la mancanze di strade (che possono definirsi tali) di collegamento.
La questione è: chi si sta occupando di queste persone? Chi se ne occuperà una volta finita questa emergenza sanitaria? Un’emergenza che molto presto diventerà emergenza sociale. E anzi, già lo è, visto che intere popolazioni sono bloccate nei loro villaggi dove i beni primari cominciano a scarseggiare e i prezzi di quelli che ci sono ad aumentare.
La consegna è: restate a casa e lavatevi le mani. Un paradosso lì dove l’acqua non c’è e quella che si trova – andando a piedi e tenendosi ben salde le taniche sulla testa – è preziosa e deve durare.
Ci sono Governi, come quello ghanese che inviano messaggi radiofonici – anche attraverso i rappresentanti locali – in cui assicurano i cittadini che in ogni dove verranno montate le Veronika bucket, sistema mobile e originale per lavarsi le mani. Peccato che queste siano state fornite solo nella capitale e forse nei grandi centri urbani dove, tra l’altro, in questi giorni sta emergendo il problema che un uso improprio potrebbe peggiorare la situazione provocando il passaggio di batteri da un individuo all’altro.
E per parlare di leader fa un certo effetto vedere il video del presidente ugandese, Yoweri Museveni (postato sulla sua pagina ufficiale) che da una enorme stanza del palazzo presidenziale fa sfoggio di abilità ginniche invitando i suoi cittadini a fare lo stesso. Quegli stessi cittadini stipati in quartieri poveri e affollati.
E fa un certo effetto – per contrasto – il video postato su Facebook da Stella Nyanzi, che ha trascorso mesi in prigione per aver postato una poesia che aveva preso di mira il presidente e la sua famiglia.
Stella non è solo una poetessa e attivista dei diritti umani, ma una saggista e accademica (prima dell’arresto insegnava alla Makerere University). La donna è stava ricoverata in ospedale e dal messaggio che ha inviato (quando è riuscita a parlare) non si stenta a credere che si sia salvata per miracolo. Per chiamare un’ambulanza (che non è gratuita) e permettersi le cure e anche il cibo, ha dovuto contare su una colletta fatta tra amici, parenti e sostenitori. Lei è un personaggio pubblico e dunque l’ovvia domanda è: quanti muoiono nel silenzio e nell’indifferenza? E non parliamo solo del covid-19.
Le analisi di questi giorni, a cura dell’Unione Africana e dell’Unicef sono drammatiche: in Africa si perderanno 20 milioni di posti di lavoro e 500 milioni di persone finiranno in stato di povertà. Chi affronterà queste questioni?
Fino a quando gli Stati continueranno a delegare a ONG, Onlus, e alla cooperazione internazionale la cura, il benessere e il miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini?
Strade, infrastrutture, acqua, elettricità, sono impegni che spettano agli Stati e se per qualcuna di queste ci si è affidati alla Cina (tra l’altro ora molti lavori sono bloccati a causa dell’emergenza) non si può pensare di continuare a contare sulle ONG per realizzare pozzi o per portare il piccolo pannello solare nei villaggi.
Servono misure strutturali, ma ancora oggi, come sa chi vive in Africa, se vuoi il palo della luce nel villaggio o le tubature dell’acqua devi pagartelo perché non sarà lo Stato a farlo.
Si potrebbe obiettare che il regime fiscale non consente di riempire le casse in modo tale da avvantaggiare anche le popolazioni rurali o a bassissimo reddito. Ma non regge, sia perché far funzionare lo Stato spetta allo… Stato, sia perché, ad osservare bene, la convenienza di certi leader sta nel mantenere lo status quo. Dopotutto classi sociali povere e assoggettate non rappresenteranno mai un pericolo e sono una garanzia per rimanere nella lista dei Paesi beneficiari di sostanziosi interventi esteri.
Aiutare – termine in uso per i progetti che arrivano dall’esterno sull’Africa – è un verbo pericoloso che porta con sé un costo di sottomissione e passività. Qualche speranzoso pensava potesse finalmente andare in disuso. È invece un termine (e un atteggiamento) che probabilmente ritornerà prepotente nei prossimi anni.
Creare posti di lavoro prelude al cambiamento vero. Non l’aiuto. Specialmente quello estemporaneo, che al contrario, non farà che creare ulteriore dipendenza, materiale e psicologica.
I giovani africani anche grazie all’uso delle nuove tecnologie stavano faticosamente riducendo il gap con le generazioni del mondo occidentale.
Gli abusi di potere di questi giorni per assicurare l’osservanza delle regole – stare in casa, non viaggiare, rispettare il coprifuoco – stanno dando la misura che la robustezza di certi Governi sta nel potere forte, un potere affidato spesso a militari con manganelli e pistole nella fondina a cui si delega non il mantenimento delle regole ma l’uso della forza e dell’autocrazia.
L’innata resilienza, l’atteggiamento tranquillo – e una spiritualità che non vede mai nella natura, ma solo nelle persone, un nemico – delle popolazioni africane, abituate ad affrontare malattie, carestie, abusi di potere e assenza di governo, può di certo aiutarli a superare questo momento.
Ma quello che servirà in futuro è che gli venga consentito di essere padroni e responsabili della loro vita. Che vengano loro assicurate quelle libertà fondamentali – al lavoro, alla casa, alla salute, che dovrebbero essere doveri dello Stato e non – ancora e sempre – di agenzie, privati, organizzazioni non governative, adatti alle emergenze, non alle ricostruzioni.
In caso contrario, quando tutti saremo usciti da questa crisi, l’Africa continuerà la sua strada nell’emergenza perenne. E la sacrosanta necessità e spinta all’autonomia, verrà probabilmente compromessa.