Nel 2001 usciva il romanzo “The Constant Gardener” (da cui poi venne tratto un film) di John Le Carré. Il testo trovava ispirazione da una storia vera, il “caso Kano”.
Stato di Kano, Nigeria del Nord, anni Novanta: è in atto un’epidemia di meningite e la Pfizer, una delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo decide di testare un nuovo antibiotico, il Trovan, su alcuni bambini. Ne muoiono 11. Molti altri subiscono conseguenze e disabilità permanenti: sordità, cecità, danni cerebrali. Rimane ancora controverso se i genitori o i tutori dei bambini avessero dato l’approvazione alla somministrazione del farmaco o ne avessero capito gli effetti collaterali.
È un caso, uno tra moltissimi degli esperimenti condotti negli anni da medici, ricercatori, aziende farmaceutiche, sulle popolazioni più vulnerabili. Quelle ai margini della società opulenta e capitalista, che si sarebbe avvantaggiata dell’uso di esseri umani come cavie. Esseri umani che in molti casi sarebbero stati uccisi dalla scienza – o sarebbero rimasti disabili per sempre – al fine di garantire l’avanzamento della conoscenza e dell’uso di antibiotici, vaccini, medicinali vari.
Ed è ancora all’Africa che spudoratamente si dirige l’attenzione di chi pare considerarla un grande laboratorio e gli africani come topi da testare. Accade nell’epoca del coronavirus e accade che due importanti figure della sanità francese abbiano proposto di effettuare test per il Covid-19 in Africa.
Si tratta di Jean Paul Mira, capo del Servizio di Medicina Intensiva e Rianimazione dell’ospedale Cochin a Parigi e di Camille Locht, direttore della Ricerca dell’Istituto Nazionale della Salute e della Ricerca in Francia. Una proposta che naturalmente ha generato proteste e sdegno e obbligato i due a correggere il tiro delle loro affermazioni. Tornare sui propri passi non può cancellare il sentore di razzismo della loro proposta.
Perché se l’unico mezzo per affrontare il coronavirus sarà un vaccino – a cui in molti stanno lavorando – e se sicuramente test andranno fatti prima della sua immissione sul mercato, l’uscita dei due medici francesi tradisce un certo modo di pensare e riporta a galla questioni morali.
Tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficiamente criticato le affermazioni dei medici francesi.
“L’Africa non può e non sarà un banco di prova per nessun vaccino“, ha detto il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus in aggiungendo che il suggerimento dei due scienziati rappresenta un residuo della “mentalità coloniale”. “È stato vergognoso, spaventoso, sentire quel tipo di proposta nel 21° secolo. Lo condanniamo nei termini più forti possibili e vi assicuriamo che ciò non accadrà “, ha aggiunto l’ex ministro della sanità etiope, oggi a capo dell’OMS.
L’etica razziale, votata all’utilitarismo, al business, all’uso di risorse (anche umane) è un’aberrazione che – proprio come un virus – aleggia nel mondo e si insinua quando il momento sembra adatto, in epoche storiche – pensiamo solo al nazismo – e condizioni sociali estreme e di debolezza (quella che stiamo vivendo, per esempio).
Oggi però il continente è cambiato e soprattutto i giovani – il 75% degli africani ha meno di 35 anni e su 1 mld e 200 mln di abitanti almeno 453 mln hanno tra i 15 e i 35 anni – non hanno alcuna intenzione di essere vittime. Nella raccolta di firme aperta sulla piattaforma Change.org per dire no ai test sul vaccino in Africa, dopo aver elencato norme deontologiche e leggi e normative in vigore nei Paesi africani che puniscono i crimini legati alla somministrazione di sostanze che possono causare danni alla salute o portare alla morte, ci si sofferma su questa riflessione:
[…] sembra inverosimile che degli scienziati desiderino effettuare test in Africa, dove i tassi di diffusione [del Covid-19] sono più bassi che altrove. Infatti, secondo i dati dell’OMS, ci sarebbero 51.477 casi in Francia, 94.417 in Spagna e 105.792 in Italia. Per contro in Africa si contano [al momento] meno di 3000 casi. Quindi da dove viene l’idea che bisogna andare in Africa – dove ci sono così pochi casi – per eseguire test per un potenziale vaccino per una patologia che colpisce in modo lieve [noi africani]?
Di sperimentazioni in Africa ne sono state fatte molte. Come quelle di Eugen Fischer, medico, antropologo, seguace dei principi dell’eugenetica. E nazista. Era lui uno dei principali attori degli esperimenti su cavie umane in Namibia, allora colonia tedesca, in quei campi dove – tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – si anticiperanno i metodi della Shoa. Tra gli esperimenti introdotti da Fischer la sterilizzazione forzata delle donne herero.
O, per venire a tempi più recenti (anni Novanta) le prove d’uso dell’AZT (Azitodimidina), prodotto dalla casa farmaceutica GlaxoSmithKline su africani sieropositivi da medici statunitensi e dall’Università dello Zimbabwe. Pare che gli studi sul farmaco fossero stati condotti senza il consenso o informazione adeguata. Ad essere sottoposte ai test soprattutto donne, 17.000, visto che l’obiettivo del farmaco è evitare il contagio al feto. La metà di queste donne aveva ricevuto in realtà un placebo e di conseguenza circa 1000 bambini contrassero l’HIV/AIDS sebbene già all’epoca esistessero altre terapie e protocolli in grado di frenare la malattia o il contagio.
Dallo scorso anno – e dopo una serie di trial portati avanti in alcuni Paesi africani – è in distribuzione un vaccino contro la malaria. Tre i Paesi pilota, Ghana, Malawi e Kenya. Per quanto l’entusiasmo sia stato alto, soprattutto sui media, ci sono da tenere in conto alcuni fattori critici. I test sono stati fatti su neonati e bambini molto piccoli e spesso senza una consapevolezza da parte dei genitori, senza contare la poca chiarezza, anche in questo caso, sugli effetti collaterali. È stata la rivista Science a mettere in guardia sui rischi – non bene accertati – legati alla somministrazione del Mosquirix (nome dato al vaccino).
È chiaro che la sperimentazione è stata fondamentale per debellare certe malattie e continua ad essere essenziale per la ricerca e per i benefici che ne derivano.
La questione fondamentale risiede nella condotta degli esseri umani. Spesso sono rapporti di forza, di potere, di subalternità quelli che intercorrono tra le persone comuni e chi prende decisioni, si parli di classe politica o del mondo scientifico. È una legge probabilmente logica e in qualche modo necessaria.
Ma è per evitare prevaricazioni aberranti che nel tempo sono stati elaborati documenti la cui parte centrale è il consenso. Un consenso chiaro e comprensibile alle persone su cui si fa la sperimentazione.
Il primo di questi fu il Codice di Norimberga del 1947, 10 principi che miravano – sulla scorta degli orrori nazisti – a “governare la ricerca” e focalizzati sul paziente. Seguirono la Dichiarazione di Helsinki del 1964 e numerosi emendamenti successivi, anche in questo caso una serie di principi etici riguardanti la sperimentazione su esseri umani, e il Belmont Report del 1978.
Quest’ultimo, in particolare nasceva come risposta allo scandalo sullo studio sulla sifilide di Tuskegee, lungo esperimento che andò avanti dal 1932 al 1972 su afro-americani affetti da sifilide. Lo scopo era studiare gli effetti della malattia su persone non curate. Da sottolineare che già negli anni Quaranta era stata provata l’efficacia della penicillina per la cura.
I tre aspetti chiave sono il principio di autonomia o del rispetto delle persone e quindi del consenso informato; quello di beneficialità e di non maleficità – non arrecare danno, massimizzare i benefici, minimizzare i rischi; e il principio di giustizia – procedure non basate sullo sfruttamento ed equilibrate; equa distribuzione di oneri e benefici.
Infine ci sono le 116 pagine dell’International Ethical Guidelines fro Biomedical Research Involving Human Subjects (edizione 2016) elaborato dal Consiglio per le Organizzazioni Internazionali di Scienze mediche, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ma nonostante i principi generali, il problema dell’indeterminatezza delle norme in contesti come quello africano e della trascuratezza del rispetto dei diritti umani rimane aperto, soprattutto quando parliamo di aree rurali. E veniamo al ruolo degli Stati che, si scrive:
devono proteggere le persone da potenziali danni derivanti e durante la ricerca scientifica […] hanno l’obbligo di proteggere le persone dall’uso o dallo sfruttamento in esperimenti scientifici dannosi, nonché l’obbligo di stabilire garanzie per prevenire i danni causati dalla ricerca o dalla sperimentazione.
Anche quando sono esponenti del mondo medico africano – come il direttore dell’Istituto nazionale della ricerca biomedica della Repubblica Democratica del Congo, Jean-Jacques Muyembe – ad affermare che il Paese è pronto alla sperimentazione del vaccino. Quando ci sarà accordo su quello da sperimentare. Ma a quel punto dovrà confrontarsi con l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
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