Ci sono segni, forse ancora poco visibili, che la drammatica esperienza legata al coronavirus lascerà su ogni individuo. Sono gli effetti psicologici dovuti soprattutto alla quarantena, una condizione di vita imposta ormai alla maggior parte dei cittadini del mondo. Improvvisamente siamo stati tutti chiamati a una esistenza nuova, che sta riformulando il concetto stesso di libertà come siamo soliti intenderla.
Il motivo è assolutamente comprensibile e condivisibile: salvare la nostra vita e quella delle persone contagiate dal Codiv-19. Ma l’obbedienza a questi ordini così eccezionali e la prolungata costrizione a una quotidianità perlopiù sconosciuta, fatta di solitudine e di chiusura dentro spazi chiusi sempre uguali, potrebbero generare cambiamenti psichici di non poco conto.
Come saremo e, soprattutto, come sarà la società mondiale dopo il coronavirus? Se lo sono chiesti medici e scienziati. Osservazioni e analisi sulla relazione tra quarantena e benessere mentale e fisico delle persone esistono già, in quanto sono state eseguite durante altri episodi di epidemie. SARS, ebola, febbre equina, influenza H1N1, sono soltanto alcuni esempi di situazioni sanitarie assolutamente straordinarie che alcune aree del mondo hanno vissuto, affrontando la cosiddetta quarantena.
Uno studio riportato da The Lancet ha cercato proprio di sintetizzare gli effetti psicologici causati dalla costrizione a dover restare a casa e isolati a causa dello scoppio di una malattia ad ampia diffusione.
Perché si parla a livello scientifico di conseguenze emotive e sulla psiche dovute alla quarantena? Innanzitutto, per la particolare condizione che essa rappresenta per una vita normale. Scienziati, a tal proposito, ricordano che:
La quarantena è la separazione e la restrizione del movimento delle persone potenzialmente esposte a una malattia contagiosa per accertare se si ammalano, riducendo così il rischio di infettare gli altri.
Tradotto, significa non poter frequentare le persone e i luoghi preferiti, separandosi da familiari e amici e perdendo margini di libertà di scelta.
Gli studiosi hanno rivelato che i sentimenti provati durante l’isolamento, così come dichiarati dalle persone stesse, sono soprattutto negativi: paura, tristezza, nervosismo e sensi di colpa sono stati riscontrati molto di più rispetto ad emozioni positive come felicità o senso di sollievo.
Non solo, analizzando le vite del personale sanitario costretto alla quarantena a causa della SARS, sono stati constatati maggiori casi di abuso da alcol e altre forme di dipendenza anche a distanza di tre anni.
Inoltre, a cambiare è proprio l’approccio nei confronti della società. Le persone costrette all’isolamento, una volta tornate alla vita normale, evitavano chi tossiva o starnutiva, stavano lontane da luoghi chiusi e affollati e non frequentavano posti pubblici.
Il vissuto emotivo della quarantena ha, quindi, probabilità di tradursi, anche a distanza di tempo, in depressione, rabbia, disturbi emotivi, stress, insonnia, umore basso, dolore, confusione e addirittura tentativi di suicidio. La cronaca di questi giorni lo testimonia. Una giovane infermiera della Brianza si è tolta la vita. Si trovava in isolamento in casa e forse era risultata positiva (gli accertamenti sono in corso). Non ha retto il forte stress accumulato nel reparto di terapia intensiva dove lavorava e il senso di colpa per avere – anche solo in ipotesi – contagiato altre persone.
La quarantena genera anche molta insicurezza. Per la maggior parte di noi, la vita non è mai stata così incerta come adesso. L’incertezza, secondo uno studio del 2016 condotto dai neuroscienziati all’University College di Londra, è uno stato d’animo ancora più stressante in questi momenti straordinari, in cui non si sa se accadrà qualcosa di veramente brutto. O, comunque, come andrà a finire.
Gli effetti psicologici e la loro gravità dipendono molto, naturalmente, dalla durata della quarantena. Un protrarsi di questa particolare condizione oltre i dieci giorni si traduce in maggiori possibilità di conseguenze psicologiche ed emotive. Tra queste: senso di frustrazione, paura di essere infettati e di infettare gli altri, timore di non avere scorte di beni di prime necessità, ansia generata da informazioni poco chiare sulla malattia provenienti dall’esterno e dalle autorità o dalla eccessiva esposizione a notizie mediatiche (come nel caso del coronavirus, tanto che l’OMS ha suggerito di evitare i continui aggiornamenti sull’epidemia per non accrescere l’ansia).
Poi c’è l’angoscia di tipo economico e lavorativo. Molti operai, commercianti, liberi professionisti, sono fermi e non sanno cosa accadrà tra qualche mese. Come suggerisce Paolo Crepet:
La prima fase quando ti comunicano che sei in cassa integrazione è una fase euforica, nel senso che dici “vabbé tutto sommato sto a casa, faccio cose che non ho mai avuto tempo di fare”. Poi subentra la seconda fase, quella depressiva, in cui si abbassa l’autostima individuale e collettiva. Occorre ricordare che fu proprio in corrispondenza con la più grande crisi economica mondiale, quella del 1929, che si contò il più alto tasso di suicidi del Novecento.
Conseguenze che in un certo senso possono amplificarsi in quei luoghi dove le persone già stanno sperimentando una condizione di costrizione, come le carceri. Qui, infatti, il senso di distacco sociale e lo stress sono già a livelli elevati. La prigione cambia le persone, come spiegato da Jérôme Englebert, professore universitario di Psicologia a Liegi:
Quando imprigioniamo il corpo, alteriamo la sua relazione con lo spazio e il tempo. Ogni detenuto ha una percezione parziale dello spazio, del tempo e del proprio corpo. Il suo mondo, la sua psiche e la sua identità risultano forzati, non naturali, quasi artefatti.
I prigionieri vivono già dunque, in modo aggravato, l’incertezza e l’ansia che noi stiamo conoscendo in questi giorni. Per loro, ci sono due linee temporali che si muovono a velocità diverse. La prima è legata alla routine quotidiana ed è estremamente ripetitiva. I detenuti non possono scegliere quando mangiare, fare il bagno, dormire o svegliarsi: tutto è deciso per loro. La seconda si riferisce al mondo esterno, con il quale il prigioniero è completamente fuori sincrono. Il professore spiega che:
Ricordo i detenuti che non erano a conoscenza dell’euro o del GSM quando furono rilasciati dal carcere. Ciò ovviamente solleva il problema della desocializzazione dell’incarcerazione.
Si comprende, allora, perché queste persone sono ancora più vulnerabili ai tempi del coronavirus e perché si siano ribellati in Italia, quando hanno saputo di non poter vedere i familiari, l’unico legame ancora esistente con la vita fuori. Il livello di fragilità è massimo. Anche in Colombia sono esplose rivolte nelle carceri quando i detenuti hanno appreso del diffondersi della pandemia. Proteste che hanno causato 23 vittime.
Sembra, dunque, che il coronavirus sia una bomba pronta a esplodere anche appena la pandemia sarà finita. Ad aggravare il quadro c’è anche l’aspetto della socializzazione, quasi azzerata in questo momento o mantenuta solo a livello virtuale, e la dimensione della solitudine, ora ingigantita.
Il distanziamento sociale è necessario per contenere la diffusione del virus, ma questo può anche contribuire alla cattiva salute a lungo termine, trasformandosi in isolamento emotivo.
Il senso di solitudine può aumentare la probabilità di depressione, ipertensione e morte per malattie cardiache. Può anche alterare il sistema immunitario, un fatto particolarmente rilevante durante una pandemia.
Il problema è particolarmente evidente negli anziani, la categoria maggiormente a rischio di morte per contagio. Più si sentono isolati e senza l’assistenza necessaria, maggiore sarà la propensione a non prendersi cura del proprio benessere.
Uno studio condotto a Hong Kong a seguito dell’epidemia di SARS del 2003 ha scoperto che tra gli anziani il senso di benessere soggettivo non era diminuito rispetto alla normalità. I ricercatori hanno concluso che ciò era in parte dovuto a un sentimento di connessione con la comunità che si era mantenuto vivo. Ovvero, i più anziani non avevano avvertito isolamento e scollamento con la società nonostante l’emergenza.
Infine, c’è da considerare l’aspetto della relazione sociale. Più studiosi stanno mettendo in guardia che la vita non tornerà come prima, almeno non nei tempi che noi speriamo. Probabilmente il distanziamento tra le persone sarà imposto ancora per molto.
Il modo in cui ci relazioneremo con gli altri, quando la pandemia sarà superata, sarà davvero lo stesso? Il focus è sulla relazione, nello specifico sul contatto fisico. I gesti verso le persone, in particolare il tocco di qualcuno aiutano a condividere ciò che proviamo, migliorando la nostra comunicazione verbale.
Una mano sul braccio quando si conforta una persona, per esempio, spesso dimostra che ci teniamo davvero a lei. Il beneficio tratto da un contatto fisico dura per tutta la vita. Ci sono molte prove che dimostrano che questi gesti hanno la capacità di influenzare il benessere sia a breve che a lungo termine. Per i bambini, è persino cruciale per un sano sviluppo del cervello.
Dopo che l’emergenza sarà finita il rischio è che le persone abbiamo un motivo in più per non toccarsi nella relazione. E questo a causa della paura accumulata. Maggiore è il tempo della quarantena, più aumenta la probabilità che si formi un’associazione mentale tra contatto sociale e senso di negatività. Le persone alla fine potrebbero dimenticare tutto del virus, ma diffidare degli altri senza saperne il motivo. Questo perché le associazioni di pensiero negative creano ricordi più facili e disponibili rispetto a quelle positive.
Se è vero che l’eccezionale situazione del coronavirus sta già cambiando noi e il mondo, non è detto però che tale trasformazione sarà completamente negativa. Si è sempre sottolineato che le crisi offrono opportunità. Questo potrebbe accadere anche con l’attuale epidemia.
La quarantena, per esempio, potrebbe stimolare un uso più sofisticato e flessibile della tecnologia, una diminuzione della polarizzazione del mondo, un rinnovato apprezzamento per la vita all’aria aperta e l’ambiente. E, ancora, cambiare la percezione del nazionalismo, inteso più come gratitudine verso chi ha lavorato con dedizione per la salute della comunità, come i medici, piuttosto che come una restrittiva difesa dei propri confini.
E poi, c’è la sfida dell’ottimismo. Perché se è vero che la quarantena genera più sentimenti negativi che positivi, è innegabile che il periodo di costrizione in isolamento ci invita a un atteggiamento comunque propositivo, vera linfa per la felicità. Non abbandonare un approccio ottimista può essere vitale secondo gli scienziati.
Casi di studio su prigionieri statunitensi durante la guerra del Vietnam, confinati in minuscole celle, hanno mostrato che la loro salute psicologica a lungo termine si è salvata grazie all’ottimismo. I detenuti convinti che, nonostante la drammatica situazione, sarebbero sopravvissuti hanno goduto di un maggiore benessere psicofisico.
Per coltivare uno spirito ottimista e positivo durante la quarantena, infine, alcuni psicologi consigliano di concentrarsi sul distanziamento fisico, non sociale. Il distacco forzato con le persone durante l’epidemia, infatti, deve essere inteso come temporaneo e solo spaziale. Il livello di socialità con gli altri non va affatto diminuito. Utilizzare chat e telefoni per ascoltare amici, parenti, vicini di casa bisognosi è importante, per non disabituarsi alla relazione.
Ci aspettano, dunque, tempi difficili e sfide nuove. Con e senza coronavirus.
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Se sopravviveremo a questa esperienza saremo tutti più ricchi nel cuore e nell’anima e apprezzeremo ciò che prima davamo per scontato. Ci soffermeremo a guardare il tramonto perché non è detto che ci sarà un domani. ❤️
Alla fine di questo isolamento scappero’ dalla città e me ne tornerò a vivere tra i boschi, dove solitudine è sinonimo di libertà, non di prigionia come qui in città.
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