Si chiamano scuole per l’assimilazione o Factory School e già il loro nome suona come qualcosa di contrastante con l’idea sana dell’ambiente e della missione scolastica (ovvero far crescere persone libere). Il fenomeno affermato in diverse parti del mondo è ormai accertato come un abuso su minori e ragazzi.
Le scuole per l’assimilazione, infatti, sono istituti con un obiettivo preciso: “riprogrammare” i bambini tribali e indigeni per adattarli alla società dominante, separandoli dalle loro famiglie, terre, culture, lingue e stili di vita.
La loro nascita ha radici nel passato, nello specifico alla fine del XX secolo, quando il Canada e gli Stati Uniti istituirono le Scuole residenziali o Collegi. Lo scopo di queste organizzazioni scolastiche era cancellare l’identità indigena dei bambini indiani e sostituirla con la mentalità dominante, trasformandoli da persone libere a forza lavoro a disposizione del sistema economico canadese e statunitense.
Il bilancio di questa assurda pratica, se si osservano i numeri del Canada, racconta una storia vergognosa. Tra il 1883 e il 1996 sono stati 6.000 i bambini deceduti in queste scuole e 38.000 le denunce per abusi fisici, psicologici e sessuali subiti all’interno della struttura scolastica. Alcune stime riportano anche la morte di circa 10.000 bambini nelle scuole degli Stati Uniti nello stesso periodo, con testimonianze di danni irreparabili a livello di salute mentale su chi è sopravvissuto.
La Commissione per la Verità e Riconciliazione in Canada ha concluso che questa politica scolastica equivaleva a un genocidio culturale. Eppure, nonostante tali evidenze, la pratica delle scuole per l’assimilazione è attiva ancora oggi. L’obiettivo è sempre lo stesso: assimilare, con la forza e l’imposizione dell’istruzione e dell’indottrinamento, i bambini dei popoli tribali alla cultura mainstream. Tradotto significa: mettere i popoli indigeni di India, Malesia, Indonesia, Ecuador, Botswana… al servizio dell’economia industriale e del profitto dei potenti del mondo, cancellando ogni legame con terre e tradizioni di origine.
E, soprattutto, lasciando ferite profonde su questi bambini. Testimonianze raccontano di abusi, suicidi, costrizioni e conseguenze nefaste sui villaggi da cui vengono prelevati a forza i piccoli, allontanati dalle loro famiglie. Spesso, infatti, quando i ragazzi tornano nei loro nuclei familiari al temine dell’esperienza di assimilazione, la loro reazione è di un ripudio della vita del villaggio e della comunità, che rischia così di sfaldarsi e perdersi per sempre.
Le stesse pratiche virtuose che accompagnano la vita dei villaggi, come il saper lavorare la terra e i materiali della natura, riconoscere quando seminare e raccogliere, vengono disprezzate e dimenticate. In molti casi i ragazzi che tornano dalle scuole non hanno le competenze pratiche per badare alla sussistenza delle comunità, ma conoscono solo quanto sia importante sfruttare le risorse e lavorare per grandi aziende. Un intero patrimonio di saggezza e di pratiche, quindi, va completamente disperso.
Perché, allora, continuano ad esistere le Factory School? Rispondere a questo interrogativo significa esplorare gli interessi che spingono multinazionali e Governi a investire in tale sistema di indottrinamento.
La motivazione di base è senz’altro la convinzione di stampo razzista che considera superiore la cultura dominante su quella tribale. Ma ci sono, nello specifico, almeno tre ragioni profonde che mantengono in vita questa pratica scolastica al giorno d’oggi. Innanzitutto, l’assimilazione è utilizzata per annullare ogni desiderio di indipendenza, come accade in Indonesia, dove il Governo ricorre alla scuola per educare i papuani indigeni al sano nazionalismo.
Poi ci sono gli interessi religiosi, che si traducono in una scolarizzazione missionaria di tipo cristiano, indù o islamico per sopprimere le pratiche culturali indigene legate alla religione.
Infine, le scuole per l’assimilazione sono uno strumento potente per spezzare per sempre il legame tra i popoli tribali e le loro terre e, soprattutto, rompere la loro simbiosi con le risorse della natura. Lo scopo, spesso, è favorire gli interessi di profitto delle industrie estrattive che mirano a far crescere lavoratori forti che acconsentano allo sfruttamento senza freni della loro terra.
È quello che stanno facendo, per esempio, le multinazionali Adani e Vedanta, gruppi di spicco nel settore minerario. Tra i loro obiettivi c’è anche quello di impadronirsi della forza lavoro proveniente dalle comunità indigene diffuse in India attraverso il modello scolastico dell’assimilazione. Adani, per esempio, ha sponsorizzato un istituto a Odisha, Stato dell’India orientale, per utilizzare l’istruzione, considerata “lo strumento più potente per la trasformazione sociale” a tutto vantaggio della sua ambizione estrattiva nell’area, evitando così fastidiose proteste da parte degli indigeni.
Per creare questa nuova scuola, Adani ha collaborato con il Kalinga Institute for Social Sciences (KISS), la più grande Factory School del mondo. La sua missione – come viene apertamente annunciato – è quella di “trasformare i consumatori fiscali in contribuenti, le passività in attività”. Si trova a Bhubaneswar, nell’India orientale e raduna nel suo immenso istituto circa 25.000 bambini provenienti dalle tribù locali, con l’ambizione di offrire un sistema di istruzione gratuito e completo, dall’asilo all’Università.
Ai bambini indigeni e tribali viene insegnato che i modi della loro famiglia sono primitivi e incivili, facendoli vergognare delle loro origini. La scuola indottrina gli alunni con una nuova serie di valori studiati per farli crescere come lavoratori obbedienti e fedeli alla ricerca del profitto, anche a discapito delle risorse della terra.
Non è un caso che la nuova scuola per l’assimilazione inaugurata da Adani a Odisha si trovi nel distretti di Mayurbanj, un’area nota per l’attivismo anti-mining. Sebbene la multinazionale non lavori attualmente nella zona, la regione è ricca di minerale di ferro. Qui, dunque, circa 1.500 bambini saranno staccati per sempre dai loro ritmi in piena simbiosi con la natura per osannare il profitto e lo sfruttamento della terra.
Lo scenario già tragico dell’annientamento culturale e sociale che questo indottrinamento comporta si aggrava se vengono presi in considerazione altri numeri. Le scuole residenziali tra il 2001 e il 2016, solo a Maharashtra, Stato dell’India nord-occidentale, hanno causato la morte di oltre 1.400 bambini tribali, registrando circa 30 suicidi.
Al 2019, secondo le stime dell’ong Survival – che porta avanti una battaglia contro le Factory School – i bambini costretti a frequentare le scuole di assimilazione nel mondo sono: 290.000 in Bangladesh, 7.000 in Botswana, 1.000.000 in India e in Indonesia, 130.000 in Malesia e 130.000 in Russia, per un totale di oltre 2 milioni di minorenni coinvolti.
Il rischio che si sta correndo a causa dell’esistenza di queste istituzioni scolastiche è grande. Malnutrizione, violenza, abusi sessuali, razzismo, incitamento al ripudio delle comunità di origini, traumi psicologici gravi e permanenti: queste sono soltanto alcune delle conseguenze – provate da operatori e attivisti di ong – che subiscono i bambini costretti a frequentare le scuole per l’assimilazione.
Gli istituti sono paragonati a vere prigioni, dove è possibile esercitare violazioni dei diritti senza correre rischi. Finora, nonostante siano emerse storie di abusi sessuali su minorenni da parte di personale docente di scuole in Botswana, Uganda, Burundi, India, Indonesia, Malesia, solo 11 persone sono state arrestate in un istituto di Maharashtra.
I Governi, in primis quello indiano, purtroppo sono complici di questi sistemi. In India, per esempio, Morsi ha sovvenzionato nuovi progetti per scuole residenziali nelle aree dove vivono più comunità indigene. Solo nel 2014, il numero di scuole residenziali gestite dai dipartimenti di affari tribali in India era oltre 7.000.
Un genocidio culturale si sta, quindi, consumando nel silenzio. Le scuole per l’assimilazione sono l’ennesima vergogna del mondo cosiddetto moderno, nel quale i diritti e le libertà non trovano più posto, nemmeno per i bambini.
Impressionante ciò che denunci sarebbe da gridarlo forte e denunciarlo anche con un documentario da far vedere in tutto il mondo.Sono una fotografa impegnata sui temi sociali.Ho realizzato un reportage sulle donne nelle tribu della Valle dellOmo.se hai tempo su facebook mi trovi.Adriana Miani