Guerre cibernetiche, quel pericolo silenzioso e sottovalutato

C’era una volta la statua di un soldato dell’Armata Rossa nel centro di Tallinn, in Estonia. Una statua di bronzo come tante altre statue di bronzo, di quelle che sono sulle nostre piazze da sempre e a cui spesso non facciamo neanche più caso. E chi avrebbe mai detto che una qualsiasi statua di bronzo potesse scatenare un tale putiferio.

In un giorno qualsiasi del 2007, mentre il freddo dell’inverno estone si sta sciogliendo per cedere il posto alla primavera, il Governo di Tallinn decide di spostare quella statua di bronzo dal centro della città in un cimitero militare della periferia. Come un brutto ricordo che fa ancora male e che si vuole seppellire in un cassetto polveroso. E un brutto ricordo lo è davvero, perché se per i russi quel soldato rappresenta la vittoria dell’Armata Rossa sul nazismo, per il popolo estone non è altro che la memoria di una dolorosa oppressione: gli anni in cui la loro terra venne occupata dall’Unione Sovietica a seguito del patto Molotov-Ribbentrop.

La statua di bronzo nel centro di Tallinn. Immagine ripresa da Flickr/Edgar Zamogilny in licenza CC

Nei giorni successivi l’Estonia precipita nel caos.
I giornali principali del Paese non possono più trasmettere notizie, le banche sono in tilt, la gente non riesce a prelevare e a pagare i conti, la comunicazione tra i membri del Governo è bloccata. L’intero sistema digitale del Paese non funziona più.
La spiegazione non tarda ad arrivare: è un attacco cibernetico.
La Russia non se ne assumerà mai ufficialmente la responsabilità, ma le indagini dimostrano che l’attacco viene da degli indirizzi IP russi e che le istruzioni online sono scritte in russo.
Evidentemente per Mosca quella statua di bronzo doveva rimanere proprio dov’era in principio, nel centro di Tallinn.

Una mappa della Norse Attack che mostra attacchi cibernetici in tempo reale. Immagine ripresa da Flickr/Christiaan Colen in licenza CC

Molte miglia più a Sud, tre anni dopo.
L’Iran prosegue il suo programma nucleare.
Fino a quando a Natanz, una delle più grandi strutture di arricchimento di uranio del Paese, le centrifughe smettono di funzionare correttamente. Il Paese sospende il funzionamento dei suoi impianti, ma inizialmente non spiega il perché.

Anche qui la risposta non tarda ad arrivare: si tratta di un altro attacco cibernetico. E anche se nemmeno loro se ne assumeranno mai ufficialmente la responsabilità, ci sono prove sufficienti per credere che l’attacco sia stato un regalo confezionato dall’intelligence americana e dall’intelligence israeliana: un virus sofisticato, Stuxnet, capace di penetrare i sistemi operativi dell’impianto nucleare di Natanz sino a danneggiarne il funzionamento. Silenziosamente, senza lasciare alcuna traccia, ma con danni irreparabili che rallentano il programma nucleare iraniano.

Gli hacker sono spesso raffigurati con un volto incappucciato, a sottolinearne l’identità segreta e spesso impossibile da rintracciare. Immagine ripresa da Flickr/medithIT in licenza CC

Internet ha cambiato le nostre vite, e anche il modo in cui facciamo la guerra. I nuovi conflitti spesso non hanno bombe né trincee, non uccidono in massa. Anzi, hanno l’aspetto di un virus che penetra un sistema operativo, e ingenuamente ci fanno sentire anche un po’ più al sicuro. Un po’ più al sicuro quando andiamo a lavoro, quando giochiamo con i nostri figli e quando mangiamo al ristorante, perché ci illudiamo che questa guerra cibernetica non ci riguardi poi davvero. Solo il nome stesso, guerra cibernetica, suona complicato e astratto: una partita che si gioca tra Governi, tra potenti, lontano da noi comuni mortali. Niente di più sbagliato.

A lungo termine, le guerre cibernetiche possono trasformarsi in qualcosa di ancora più catastrofico delle guerre che già conosciamo. Se un Paese lancia una bomba sui tetti di una città nemica tutti possono capirne e vedere gli effetti, tutti possono contare le vittime. Ma se un Governo compie un attacco cibernetico come nel caso di Stuxnet o della Russia con l’Estonia, le conseguenze sono molto più confuse, imprevedibili, e difficili da calcolare.

Un attacco cibernetico può portare ad una risposta militare, ad una protesta, ad una guerra civile, o ad un vero e proprio conflitto su scala internazionale. A lungo termine, un piccolo virus può scatenare una reazione a catena ben peggiore. È solo più difficile prevederla, comprenderla, calcolarla, spiega Michail Maniatakos, esperto di cybersecurity e professore alla New York University di Abu Dhabi, intervistato da Voci Globali.

Ma la guerra cibernetica non si ferma solo alle centrali nucleari, alle banche, alle grandi aziende. Può arrivare a controllare molto di più: le menti umane. Negli ultimi anni ci siamo ritrovati infatti a brancolare in una destabilizzante confusione in cui sempre di più sentiamo di aver perso il controllo sullo scambio di informazioni.

Paesi come la Russia si sono trasformati in una fabbrica di fake news e profili falsi che attraverso Internet e i social media cercano di influenzare gli esiti delle elezioni dell’Occidente, favorendo candidati come Marine Le Pen in Francia e Donald Trump negli Stati Uniti, o il Partito Laburista nel Regno Unito.

Questo è un altro preoccupante pericolo dell’attività cibernetica i cui esiti sono devastanti eppure molto complessi da individuare e comprendere inizialmente. Tempo fa erano i nostri politici ad influenzare le idee dei cittadini tramite campagne elettorali e propaganda. Adesso, invece, l’esito delle elezioni del tuo Paese potrebbe essere nelle mani di un Governo stranierocontinua l’esperto.

I cyberattacks contribuiscono anche ad alterare gli equilibri geopolitici, e ne è un esempio la Cina che se ne è servita nella sua scalata per il dominio mondiale. La Repubblica Popolare è infatti coinvolta da anni in varie operazioni di furto di proprietà intellettuale e spionaggio economico, soprattutto nei confronti di grandi aziende americane del mondo dell’aviazione, della robotica e dell’informatica.

Questo in vista del suo ambiziosissimo piano Made in China 2025, che dovrebbe portare la Repubblica Popolare a ridurre la sua dipendenza dalla tecnologia straniera e a renderla in grado, in breve, di prodursela da sola. Grazie ai cyberattacks che oggi passano spesso inosservati, nel giro di cinque anni la Cina non sarà più solo “la fabbrica del mondo”, ma il Paese che guiderà la prossima rivoluzione tecnologica, superando gli Stati Uniti.

Immagine ripresa da Flickr/tvnewswatch in licenza CC

Internet è così diventato il Wild West dentro cui i Governi si battono e si fanno la guerra quasi indisturbati, la nuova trincea del Ventunesimo secolo.

Il problema è che Internet si è evoluto troppo velocemente, e la maggior parte di noi è rimasta troppo indietro per comprenderne gli effetti reali. Mancano regole,misure di protezione, mancano talenti disposti a lavorare nella cybersecurity. Sarà l’attuale generazione di giovani a doversi rimboccare le maniche, a doverci fare i conti. Nel frattempo, non solo Internet si è trasformato in un’arma, ma anche in una questione che va di pari passo con il problema ambientale: è un’ecosistema che non abbiamo regolato, un’ecosistema in cui abbiamo gettato troppi “rifiuti” senza realmente comprenderne gli effetti futuri, dando vita ad una sorta di discarica che adesso va ripulita e risistemataconclude il professor Maniatakos.

Carlotta Erre

Laureata in Scienza della Mediazione Linguistica, da tre anni si dedica alla sua più grande passione: viaggiare raccontando le storie dei posti e della gente che incontra, soprattutto in Asia, suo continente preferito.

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