Sudan, dove le donne non hanno ancora smesso di lottare
Una donna non può essere considerata “capofamiglia” anche se è lei a crescere i figli. E anche se è da sola a farlo. Non ha gli stessi diritti a ricontrarre matrimonio. Non ha uguale trattamento di stipendio a parità di mansioni. La regola della tutela maschile (qawama) si espande alla maggior parte delle attività pubbliche (ma anche private): dal contratto di matrimonio alla richiesta del passaporto. Non ha la stessa libertà di un uomo di scegliere dove vivere o viaggiare. Eppure ha diritto alla pensione con le stesse regole di un uomo, al congedo parentale (che viene computato nel trattamento pensionistico), può aprire un conto bancario e anche un’attività commerciale a suo nome.
Siamo in Sudan, dove le leggi vigenti sono quelle del Personal Status Law del 1991, anche noto come Personal Status Law for Muslims. Un complesso normativo su cui da anni c’è un acceso dibattito teso alla riforma di gran parte dei suoi contenuti. Una riforma difficile visto che tale legge è percepita come “intoccabile” perché basata sulla Sharia.
Sono proprio quelle che riguardano le donne – i diritti delle donne – le riforme su cui si sta concentrando la battaglia di questi anni. E a portarla avanti sono appunto loro. Perché quelli che nell’ordinamento sembrano diritti egualitari non vengano più considerate “concessioni” a protezione dalla parte debole della società, e perché quelli non garantiti siano inclusi come “normali” diritti di tutti gli esseri umani e di tutti i cittadini del Paese, uomini e donne che siano.
La prima barriera da superare è quella religiosa/tradizionale/ideologica. Quella barriera che spinge molte donne sudanesi di religione islamica a dichiarare di lottare per l’equità di genere (insaf) piuttosto che per l’uguaglianza, termine troppo “secolare” e occidentale. Comunque sia quello a cui le donne sudanesi aspirano sono uguali diritti. Nella sfera pubblica come in quella privata.
Un’aspirazione che negli ultimi anni si è concretizzata con forme di attivismo e mobilitazione nelle strade, sui social, nelle dichiarazioni alla stampa. E che comincia a dare risultati concreti. Come l’abrogazione di una legge restrittiva (Public Order Law) che obbligava le donne a seguire codici di condotta e di abbigliamento. Quando è accaduto, nel novembre scorso, è stato uno dei primi, visibili risultati, di mesi di lotta per liberarsi del trentennale e opprimente regime di al-Bashir.
Ma le lotte delle donne sudanesi partono da molto lontano e riguardano il diritto a frequentare le scuole, a diventare ostetriche specializzate (che dovevano sostituire quelle tradizionali) ad abbandonare la “pharaonic circumcision”, la più terribile forma di mutilazione genitale, l’infibulazione, a rivendicare la presenza nella vita politica.
Erano gli anni del Sudan anglo-egiziano, durato dal 1889 al 1956, quando il Paese era guidato (dominato) dal Regno Unito e dal Regno d’Egitto. Il condominio lasciò il posto all’indipendenza dopo anni di lotte, mediazioni, imposizioni. Quelle delle donne era una battaglia che si svolgeva su due fronti, due sistemi patriarcali: quello europeo (britannico) e quello arabo. Sicuramente una svolta – che segnalava una maturazione e gli obiettivi futuri – fu il 31 gennaio 1952 quando 500 donne e teenager si incontrarono alla Omdurman Girls’ Intermediate School per discutere la condizione delle donne sudanesi.
È in quell’occasione che nacque la Sudanese Women’s Union, il primo sindacato di donne. Il 24 aprile di quell’anno ebbe luogo la prima conferenza generale della SWU. Erano al-ra’dat, le pioniere. Il sindacato era al tempo anche associato con il partito comunista, l’unico all’epoca che accettava donne. La repressione islamica e il colpo di Stato del 1989 costrinse la sua presidente all’esilio e il sindacato ad agire di nascosto. Inutile dire che sono tornate in azione più forti di prima quando è scoppiata la rivoluzione pacifica che ha messo al-Bashir in fuga.
Quelle donne del secolo scorso non erano dunque le prime – solo più organizzate – e non sarebbero state le ultime. Dal 2009 un forte ruolo per la rivendicazione dei diritti alle donne sudanesi lo sta svolgendo il No to Women’s Oppression Initiative, nato a causa delle continue molestie e violenze dalla polizia sudanese nei confronti delle donne. A provocare la nascita del movimento fu l’arresto della giornalista Lubna al-Hussein. L’accusa: indossare dei pantaloni. Con lei furono arrestate – e poi frustate e multate – altre 13 donne.
Ora tutto questo non dovrà più avvenire, grazie appunto alla recente abrogazione della Public Order Law. Un risultato dovuto al rischioso impegno delle donne del No to Women’s Oppression Initiative che in questi giorni scende ancora per le strade per domandare al nuovo Governo di firmare la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). “Tutto il mondo tranne noi. Ci fate vergognare” questo hanno urlato le donne sfilando a Khartoum.
L’organizzazione è stata inoltre tra le 22 firmatarie della Dichiarazione di libertà e cambiamento che chiedeva (e segnava) la fine del Governo Bashir e l’avvio di una fase di transizione. A firmare anche la rappresentante del MANSAM, Sudan’s Women, Political and Civil Groups, alleanza femminile di gruppi politici, associazioni, società civile e gruppi giovanili.
Insomma, quella del movimento, anzi dei movimenti femminili in Sudan è un’onda che non ha mai smesso di allargarsi. Donne al cuore delle rivoluzioni che ci sono state e di quelle che non smetteranno di esserci. Secondo un report della BBC il 70% delle persone che hanno protestato per cacciare al-Bashir erano donne. Sfidando minacce, violenze, stupri.
Del resto quello delle sudanesi è stato sempre un percorso che ha previsto rischi di reazioni fisiche e maltrattamenti e non un semplice percorso di trasfromazione sociale e intellettuale. Un percorso che ha richiesto, e richiede, equilibrio e mediazione tra le tradizioni, i precetti religiosi, le regole patriarcali, la paura del cambiamento.
Lo sapeva bene Fatima Ahmed, fondatrice dell’Unione delle donne sudanesi e prima donna eletta in Parlamento, nel 1965. Conscia che la sua vita privata non poteva (agli occhi degli altri) rimanere disgiunta dai suoi comportamenti in pubblico, Fatima Ahmed non andò mai in macchina da sola con un uomo, anche se collega di partito, e non partecipò mai ad una riunione politica in cui non ci fosse almeno un’altra donna.
È anche grazie a quelle come lei che le donne oggi non hanno più paura di usare il termine “femminista”, di ricostruirlo questo movimento, visibile e attivo anche quando nessuno ancora lo chiamava così. Di ridisegnarne i legami dal passato ad oggi.
Di cose ne avranno da fare le donne sudanesi. In un Paese, il loro, dove quasi il 50% è ancora analfabeta; dove la rappresentanza in Parlamento è arrivata alla quota del 25% (a seguito dell’ introduzione di una legge nel 2010) ma non ci sono donne ad occupare posizioni di rilievo nelle strutture amministrative; dove 9 donne su 10 hanno subito la mutilazione genitale, vale a dire l’87% delle donne tra i 15 e i 49 anni, il 30% delle bambine tra 0 e 14 anni. Altre misure della condizione della donna sudanese li fornisce poi l’ultimo rapporto della World Bank Women, Business and the Law. Non sono incoraggianti.
Ma la sfiducia non sembra essere l’aspetto principale di queste donne. Se fosse stato così non sarebbe diventata una di loro, una donna, l’icona della rivoluzione che ha fatto cadere il trentennale regime di al-Bashir, Alaa Salah. Se fosse stato così non starebbero ancora lì, a vigilare a lottare, a prendere iniziative per un Sudan libero dalle oppressioni e dalle ingiustizie. Soprattutto quelle nei loro confronti.
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