[Traduzione a cura di Hannah Cartwright dall’articolo originale di Kerstin Carlson e Line Engbo Gissel pubblicato su The Conversation]
All’inizio di dicembre, la Corte Internazionale di Giustizia ha ascoltato in udienza le argomentazioni presentate dal Gambia contro la Birmania per l’infrazione della Convenzione sul Genocidio. Tra le richieste dell’accusa c’è quella di adottare misure provvisorie, chiedendo che il Tribunale dell’ONU ordini immediatamente alla Birmania di cessare gli atti di genocidio e di riferire entro quattro mesi.
In base alla Convenzione sul Genocidio del 1948, qualsiasi Paese membro può portare avanti una causa contro un altro Stato firmatario ed essere ascoltato presso la Corte internazionale di giustizia. Questo secondo il principio che il genocidio rappresenta un danno per tutta l’umanità, non solo per chi è direttamente coinvolto.
Nonostante esista questa possibilità, il caso contro la Birmania è soltanto il terzo in cui si invoca la violazione della Convenzione sul Genocidio davanti al Tribunale dell’ONU. Inoltre, la causa è la prima in assoluto a prendere in considerazione azioni e attori di Paesi non contigui e non in guerra.
In realtà, anche un verdetto positivo sulle misure provvisorie potrebbe non portare giustizia alla comunità di minoranza dei Rohingya in Birmania o in Bangladesh. Le misure provvisorie contro atti di genocidio hanno una storia sfortunata. Per esempio, nel 1993 la Corte internazionale di giustizia le ha rilasciate contro la Serbia, senza però impedire il massacro di Srebrenica nel 1995.
In più, anche se giuridicamente vincolante, l’imposizione di tali provvedimenti si rileverà difficile. I Rohingya sono ancora perseguitati e uccisi in Birmania e risultano sempre più sgraditi in Bangladesh.
Eppure, l’invocazione della Convenzione sul Genocidio da parte del Gambia assume un significato politico e legale, nondimeno per la potenzialità che offre nell’ambito dell’applicazione della giurisprudenza internazionale da parte di Stati del Sud del mondo.
Perché il Gambia?
Il Gambia è uscito da 22 anni di dittatura nel 2016. Il presidente Adama Barrow è salito al potere con un’agenda di riforme su diritti umani e anticorruzione, abbracciando la causa che il suo ministro della Giustizia, Abubacarr Tambadou, ha sostenuto con vigore.
Nel 2018 Barrow ha dichiarato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che il suo Governo avrebbe portato avanti e difeso un meccanismo di responsabilità per i delitti contro i Rohingya.
Tambadou ha lavorato per 13 anni nell’ufficio del procuratore del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Nel 2017, si è recato in Bangladesh per l’incontro annuale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Questa è un’organizzazione internazionale aperta ai Paesi con popolazione a maggioranza musulmana, che il Gambia attualmente presiede.
Dopo aver incontrato dei rifugiati nell’insediamento del distretto di Cox’s Bazar, Tambadou si è convinto della necessità che il suo Paese “usi la nostra voce” per assistere i Rohingya.
Gli argomenti dell’udienza
Due sono i punti centrali dell’udienza di dicembre sulle misure provvisorie. Innanzittuto, è emerso come la Birmania, rappresentata dalla figura di Aung San Suu Kyi precedentemente celebrata come un difensore dei diritti umani, neghi categoricamente le atrocità sulle quali ci sono prove schiaccianti.
Il Gambia, guidato da Tambadou, ha fatto affidamento quasi esclusivamente sulle prove raccolte dalle missioni investigative dell’ONU, che sono costituite in modo ufficiale e rigorosamente controllate. Nonostante questo, i risultati sono stati respinti da Aung San Suu Kyi che ha sostenuto le investigazioni interne della Birmania e ha concluso:
Non sarebbe utile per l’ordine giuridico internazionale se prendesse piede l’impressione che solo i Paesi ricchi di risorse possono condurre investigazioni e procedimenti interni in modo adeguato, e che la giustizia domestica di Paesi che stanno provando a gestire il peso di difficili eredità e sfide del presente non potrà diventare abbastanza buona. Il Gambia capirà che questa è una sfida che sta affrontando anch’esso.
In questo modo, Aung San Suu Kyi ha ripreso le fake news sia dal neocolonialismo che dal populismo per costruire le sue argomentazioni.
In secondo luogo, l’udienza ha sottolineato quanto la Corte Internazionale di Giustizia abbia in precedenza limitato la definizione di genocidio. Nei due casi precedenti che invocavano la Convenzione, il Tribunale si è rifiutato di affermare l’esistenza di un genocidio di Stato, a causa dell’interpretazione del concetto di “intento” così come espresso nella Convenzione. Come dichiarato dalla Corte nella sentenza del 2007 della Bosnia-Erzegovina contro Serbia:
Non è sufficiente che i membri del gruppo siano presi di mira in quanto appartenenti a quel gruppo, cioè che ci siano intenzioni discriminatrici da parte del persecutore. Occorre qualcosa in più. Gli atti delineati debbono essere fatti con l’intenzione di distruggere il gruppo come tale, intero o in parte.
Durante il sua discorso alla Corte, Aung San Suu Kyi ha invocato soprattutto questa parte di storia giudiziaria.
William Schabas, noto giurista, che ha parlato per conto della Birmania, ha spinto ancora di più in questa direzione. Egli ha sostenuto che dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia è emerso che per la corretta comprensione dell’intento genocida è necessaria la mancanza di qualsiasi altra spiegazione sul comportamento di uno Stato.
La Birmania dichiara che le informazioni contenute nella richiesta e nei materiali invocati per il suo sostegno… forniscono ampie prove per indicare conclusioni alternative… Se la Corte dovesse concordare che c’è un ampio supporto per una spiegazione alternativa, in tal caso non potrebbe non concludere che la richiesta non ha nessuna probabilità di successo nel merito. Non una probabilità del 50%. Non una probabilità del 25%. Nessuna probabilità.
Schabas ha continuato, citando l’investigazione della Corte penale internazionale sulla deportazione dei Rohingya a dimostrazione dell’esistenza di una conclusione alternativa che negherebbe alla stessa Corte di trovare i requisiti per l’intento genocida.
Schabas ha sviluppato questa tesi tramite un parallelismo su come il diritto penale interno stabilisce la classificazione dei delitti. Questa interpretazione distruggerebbe la possibilità di trovare degli Stati responsabili di genocidio, perchè è impossibile annientare un gruppo intero o in parte, che è l’essenza del significato legale di genocidio, senza commettere altri delitti internazionali sul percorso.
Tale visione distorta della Convenzione sul genocidio devia sia dal suo stesso obiettivo, sia dalla precedente giurisprudenza della Corte penale internazionale e sembra improbabile che la quest’ultima la metterà in pratica.
Una nuova promettente direzione?
Gambia e Birmania sono lontani l’uno dall’altro. In ogni caso, il piccolo Paese africano nel portare avanti questa causa contro la Birmania rappresenta l'”umanità“, piuttosto che l’Africa o il mondo islamico.
La curiosità e la sorpresa che suscita il passo coraggioso del Gambia ci ricordano che questo ruolo universale è stato svolto raramente dai Paesi africani. L’iniziativa del Gambia è il segnale di un nuovo promettente percorso.
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