Media e diversità, in Italia redazioni prive di giornalisti stranieri

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Foto dell’utente Pixabay Gerd Altmann – su Licenza Creative Commons

Abitiamo un mondo sempre più multiculturale e interconnesso: mobilità e plurilinguismo sono caratteri ormai imprescindibili delle società in cui viviamo. In che misura il giornalismo contemporaneo riflette l’eterogeneità del mondo là fuori? Quanti giornalisti di origine straniera lavorano nelle redazioni italiane? La diversità rappresenta un vantaggio o un peso? Se nel gergo economico è diffusa la nozione di Diversity Management, questa fa ancora fatica a varcare la soglia delle redazioni.

Diversità è creatività

Il Diversity Management comprende l’insieme di pratiche il cui scopo è valorizzare le pluralità sociali e culturali e i diversi saperi all’interno di un’azienda. Se negli anni Settanta ci si limitava a garantire le pari opportunità di tutti i lavoratori evitando le discriminazioni nei confronti di minoranze, negli anni ’80 e ’90 si iniziò a pensare ai vantaggi economici che potevano delinearsi attraverso l’utilizzo delle diverse competenze presenti in azienda. Negli ultimi anni la diversità è diventata sinonimo di creatività: l’organizzazione che integra le diversità è disposta a mettersi costantemente in discussione sperimentando nuove pratiche in un processo di apprendimento continuo.

Sulla soglia della sfera pubblica

Anche nel dibattito pubblico la diversità è il motore dell’innovazione: lo spiegava Hannah Arendt, che vedeva nella pluralità non solo la conditio sine qua non, ma anche la conditio per quam di ogni vita politica. Soltanto laddove vengono incoraggiati il dissenso e la partecipazione di tutti i membri della società, è possibile il progresso sociale.

Eppure, vi sono persone che restano sulla soglia della sfera pubblica: soprattutto donne e uomini in condizioni socioeconomiche svantaggiate non godono di un’effettiva libertà di parola. I migranti, così come i senzatetto, i disoccupati e altre categorie vulnerabili sono spesso oggetto della discussione pubblica, ma difficilmente ne diventano i soggetti. Secondo il VII Rapporto Carta di Roma 2019 nello scorso anno si è parlato moltissimo di immigrazione, ma solo raramente i migranti sono stati rappresentati come individui capaci di partecipare attivamente al discorso pubblico. Anche quando vengono interpellati, le interviste sono riconducibili ad alcune categorie ricorrenti, quali la fragilità e debolezza o l’alterità come minaccia.

Lampedusa. La porta d’Europa. Quanti immigrati riescono a varcare la soglia della sfera pubblica? Foto dell’utente Flickr Carlo Alfredo Clerici – su licenza Creative Commons

Il giornalismo e i media svolgono un ruolo centrale nel disegnare l’orizzonte del dibattito pubblico: interrogarsi sulla diversità nelle redazioni giornalistiche significa testare la tenuta democratica delle nostre società.

Diversità in Europa

Nel 2007, la European Broadcasting Union (EBU) pubblicò delle linee guida per la corretta rappresentazione delle minoranze etniche e culturali nel servizio pubblico: “[…] perseguiamo la mission di incrementare la diversità culturale, di servire l’intera popolazione nazionale riflettendo accuratamente i diversi caratteri culturali, razziali e linguistici presenti nella società sia nei contenuti sia nei nostri dipendenti“.

In diversi Stati europei alcune testate giornalistiche o associazioni hanno messo a punto strumenti semplici ed efficaci come dei glossari, che aiutano i giornalisti a utilizzare un linguaggio non discriminatorio. Altre strategie non sono così facili da mettere in pratica e richiedono uno sforzo maggiore e talvolta una revisione delle routine redazionali: essenziale è – ovviamente – il controllo delle fonti. Ho instaurato un dialogo con i diretti interessati? Quali conoscenze ho sul loro Paese d’origine o sul contesto in cui vivono? Sono consapevole dei miei stereotipi e pregiudizi?

Secondo Maurizio Corte, docente di giornalismo interculturale presso l’Università di Verona, l’errore dei media è proprio quello di appiattire la persona a uno stereotipo. Il lavoro giornalistico alla scrivania, tipico dei media mainstream, si basa sulle notizie battute dalle agenzie e sulla consultazione di fonti istituzionali: questo fa sì che anche il dibattito pubblico risulti appiattito perché privo di prospettive alternative e dunque incapace di cambiamento. Riabilitare la persona nella sua individualità: questo l’obiettivo del giornalismo interculturale, un giornalismo che si nutre di fonti alternative, che cura uno scambio con i media etnici e preferisce la dimensione della comprensione alla cronaca live.

La redazione è al centro del problema: “fino a che le minoranze non faranno parte dello staff dei media sarà difficile dare una copertura adeguata alle notizie che le riguardano [per questo] i giovani migranti hanno bisogno di essere incoraggiati per scegliere una carriera nei media: devono essere trovati, assunti, formati e integrati nell’ambiente di lavoro“. I giovani appartenenti a categorie sociali svantaggiate escludono spesso a priori la carriera giornalistica perché non possono “permettersela”, eppure hanno risorse preziose. I migranti, per esempio, sono spesso bilingui, hanno una profonda conoscenza culturale del loro Paese d’origine e potrebbero favorire l’accesso a informazioni difficilmente reperibili collaborando, per esempio, al racconto della politica estera.

Nel 2016, la BBC ha elaborato una strategia tesa a incrementare la diversità nei contenuti, ma anche a rimuovere le barriere di accesso alla professione per coloro che appartengono a categorie vulnerabili, per esempio attraverso programmi di formazione e sostegno specifici. Inoltre nel 2018, l’emittente britannica ha iniziato a monitorare la carriera degli impiegati appartenenti alla categoria BAME (Black, Asian and Minority Ethnic) per capire come favorire la loro crescita professionale.

Circa una decina di anni fa la testata britannica The Guardian ha avviato il programma A diverse work experience, con il quale offre a giovani appartenenti a diversi gruppi etnici un’esperienza lavorativa in redazione. L’editore mette inoltre a disposizione almeno sei borse di studio all’anno per giovani provenienti da gruppi sociali svantaggiati che vogliano intraprendere un apprendistato giornalistico.

In Francia, all’indomani delle rivolte nelle banlieues, nel 2005, ebbe inizio una seria discussione sul tema diversità nei media. L’allora presidente della Repubblica Chirac convocò il CSA (Conseil Supérieur de l’Audiovisuel) e tutte le emittenti radiotelevisive per chiedere un cambio di rotta: ci si rese conto che una parte importante della popolazione veniva sistematicamente esclusa dalla rappresentazione mediatica della realtà. Venne così creato un gruppo di lavoro e istituito l’Osservatorio della diversità nei media radiotelevisivi e il barometro della diversità, che misura il grado di diversità nelle emittenti televisive secondo cinque categorie: categoria socioprofessionale, genere, origine percepita, handicap ed età. Oggi France Television rifiuta di adottare strumenti come le quote e fa della collaborazione con le scuole di giornalismo la strategia centrale del proprio Diversity Management. Da qualche anno tra i criteri per accedere all’apprendistato vi sono le competenze interculturali e il plurilinguismo.

In Germania, sono soprattutto gli attivisti dell’associazione Neue Deutsche Medienmacher a impegnarsi per una maggiore diversità nei media. Un quarto della popolazione tedesca ha una storia migratoria, eppure soltanto il 5% dei giornalisti ha un’esperienza migratoria (propria o familiare). Negli anni l’associazione ha promosso programmi di mentoring a sostegno dei giornalisti migranti, ha avviato un programma di apprendistato per giornalisti in esilio e per aspiranti giornalisti stranieri. Gli attivisti si occupano anche di formazione interculturale e si impegnano per scardinare l’idea (diffusa) che il giornalista migrante sia esclusivamente un esperto delle migrazioni o del proprio Paese di origine: spesso infatti i giornalisti stranieri vengono contattati esclusivamente quando si tratta di migrazione.

Global Media Forum 2017: Identity and Diversity. Tutti gli anni l’emittente tedesca Deutsche Welle – che trasmette in 30 lingue differenti e vanta una redazione internazionale e interculturale – organizza l’evento. Nel 2017 era dedicato ai temi della diversità e identità. Foto dell’utente Flickr Deutsche Welle – su licenza Creative Commons

Diversità in Italia

Quando si parla di diversità nei media italiani si parla soprattutto di parità di genere e disabilità. Sia la Rai sia i gruppi editoriali privati sembrano non avere strategie per la diversità, né in termini di assunzione e formazione continua né in merito alla programmazione.

Dagli anni Settanta, l’Italia è una terra di immigrazione. Oggi i cittadini stranieri rappresentano l’8,7% della popolazione. Nel 2011, è stata fondata l’Associazione Carta di Roma per garantire una corretta informazione sui temi relativi alle migrazioni. Da allora è stato svolto un importante lavoro di monitoraggio, sensibilizzazione e formazione sul trattamento delle notizie sulle migrazioni. Eppure quanti sono i giornalisti stranieri che lavorano nei media italiani?

Non vi sono statistiche ufficiali, ma è certo che si tratti di un numero piuttosto sparuto. Tra il 2016 e il 2017 sono andata a cercarli e ho condotto una serie di interviste per capire quali fossero le loro condizioni lavorative. Albania, Turchia, Romania, Algeria, Cile, Montenegro e Serbia: questi i Paesi da cui provenivano i nove giornalisti con cui ho parlato. Soltanto tre di loro erano iscritti all’albo dei giornalisti, di cui uno solo come professionista. I temi emersi dalle interviste sono la difficile cornice legislativa per i giornalisti stranieri in Italia, il lavoro nei cosiddetti media etnici e la tortuosa collaborazione con i media mainstream.

Molti dei giornalisti intervistati hanno incontrato difficoltà di carattere legislativo. Nonostante il parere espresso nel 2005 dal ministero della Giustizia che equipara i giornalisti stranieri ai giornalisti italiani, gli intervistati hanno avuto notevoli difficoltà a iscriversi all’albo o vi hanno rinunciato.

Nel 2009, alcuni giornalisti stranieri hanno fondato l’ANSI (Associazione Nazionale Stampa Interculturale) con lo scopo, da un lato di fare formazione interculturale nel settore giornalistico, dall’altro di offrire supporto ai giornalisti stranieri. Negli anni anche gli stessi fondatori hanno perso entusiasmo: le attività di formazione vengono portate avanti dall’Associazione Carta di Roma e la questione legale non sembra costituire la maggiore preoccupazione per i giornalisti di origine straniera, a cui interessa soprattutto partecipare attivamente al dibattito pubblico. Ben maggiore frustrazione suscita la mancata cooperazione con i media mainstream, che continuano a rappresentare il migrante in termini stereotipati e in un contesto emergenziale sfruttando le dinamiche dell’imprenditoria della paura.

In molti casi i giornalisti di origine straniera non vengono interpellati nella costruzione della notizia sull’immigrazione, oppure vengono interpellati per suffragare uno stereotipo: non si sentono quindi presi sul serio come professionisti. In alcuni casi i giornalisti stranieri hanno ottenuto la possibilità di esprimersi in alcune piattaforme come La città nuova del Corriere della Sera o I Nuovi italiani de L’Espresso, o hanno lavorato in progetti interamente dedicati ai migranti come Babel Tv, un canale lanciato da Sky nel 2010. A lungo termine tuttavia, queste piattaforme create ad hoc per voci straniere vengono percepite come nuovi ghetti nei quali ci si sente fortemente discriminati.

Quasi tutti i giornalisti intervistati hanno lavorato in alcuni media etnici o sono diventati attivisti dando vita a forme di giornalismo alternativo. I media etnici, pur essendo utili in prima battuta perché permettono ai migranti di ritrovare la comunità perduta, non favoriscono l’integrazione: attraverso il giornalismo etnico le diverse comunità hanno la possibilità di coesistere l’una accanto all’altra, ma non riescono a far sentire la loro voce nel dibattito pubblico più ampio. Chi guarda Babel Tv? O chi legge una testata in serbo-croato? Ovviamente soltanto le comunità di riferimento. Si creano così nicchie che non comunicano tra loro: l’integrazione ha invece inizio col dialogo tra le diverse comunità.

Più promettenti sono i progetti di giornalismo alternativo nei quali sono impegnati i giornalisti di origine straniera: dall’agenzia stampa Pressenza fondata a Milano nel 2007, che oggi pubblica contributi in sette lingue diverse e vanta una redazione interculturale e internazionale, alla testata PiuCulture, una vera e propria officina del giornalismo di strada nata per dare voce ai cittadini di origine straniera.

Anche in questo caso la redazione si compone di giornalisti italiani e di origine straniera, che lavorano insieme sfruttando le loro diverse competenze: alcuni articoli vengono scritti in più lingue e questo ha permesso di raggiungere lettori che normalmente non fruiscono dei media mainstream. Negli scorsi anni la testata ha potuto finanziare i tirocini di giovani giornalisti, che sono poi stati iscritti all’elenco dei pubblicisti.

Nelle conversazioni con i giornalisti stranieri, la radio si è profilata quale medium particolarmente inclusivo: quasi tutti i giornalisti intervistati hanno fatto esperienze formative importanti o lavorano attualmente in un contesto radiofonico.

La trasmissione Radio 3 Mondo di Rai Radio 3. Tra i conduttori la giornalista di origine serba Marina Lalovic. Foto dell’utente  Flickr Chiarastella Campanelli – su Licenza Creative Commons

L’allargamento della base dei fruitori, e dunque dei partecipanti al dibattito pubblico, un’informazione accurata su temi spesso tralasciati dai media mainstream, l’accesso a fonti alternative, la conoscenza di altre lingue e culture e la capacità di leggerne le declinazioni nel contesto locale, l’interpretazione di eventi con un frame altro rispetto a quello egemonico sono soltanto alcune delle caratteristiche del giornalismo interculturale. Integrare queste competenze e saperi nelle redazioni dei media mainstream avrebbe evidenti vantaggi, non da ultimo sul piano della costruzione di una sfera pubblica effettivamente democratica, in quanto capace di integrare il dissenso.

Silvia Godano

Laureata in Filosofia Politica e Comunicazione Interculturale, vive da alcuni anni in Germania, dove si occupa di politiche per l’integrazione, dialogo interculturale e migrazioni. È inoltre giornalista pubblicista, traduttrice e viaggiatrice per passione.

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