Iraq, carcere e torture a bimbi di 9 anni. L’accusa è terrorismo
Fa freddo. È impossibile riuscire a dormire tra il russare di un vicino e il gomito di un altro infilato nel torace. Umar, per distrarsi, pensa ai pranzi del sabato in famiglia. Rivive l’aria di festa. Ricorda il riso fumante e il pollo saporito cucinato dalla mamma. E ha quasi l’impressione di sentire le voci allegre dei genitori e dei suoi fratelli.
I picnic primaverili così come i tempi spensierati sono stati spazzati via dall’ISIS. Umar è imprigionato nel carcere di Tel Kaif. Non sa quando riuscirà a lasciare quel posto e neppure perché si trovi lì. Come lui, negli ultimi anni, migliaia di bambini e adolescenti sono stati rinchiusi dallo Stato iracheno e dalle autorità curde in orribili centri di detenzione con l’accusa di terrorismo. Sono sospettati di aver collaborato, a vario titolo, con lo Stato Islamico. Le loro condizioni nelle carceri di Tal Kaif, Qayyarah e Hammam al-Alil sono state definite, da Human Rights Watch, “deplorevoli”.
Siamo nella parte settentrionale dell’Iraq. Nella provincia di Ninive, un tempo culla delle civiltà assira attraversata dal fiume Tigri. Ci troviamo al centro di un’arida pianura, poco distante da Mosul. È proprio da questa città che, il 29 giugno 2014, Abu Bakhr al Baghdadi annunciava la fondazione dello Stato Islamico, o Daesh, in arabo.
In questa zona, arrestare i bambini senza una vera e propria accusa è una pratica piuttosto diffusa. Le forze locali anti-terrorismo spesso usano la tortura per estorcere ai giovani prigionieri false confessioni di partecipazione ad attività terroristiche. Seguono processi sommari che assomigliano più a una vendetta che a un atto di giustizia. Una volta in carcere, la situazione non migliora. Sono tanti i casi documentati di morti a causa del sovraffollamento. E diverse ONG hanno più volte denunciato le tragiche condizioni di questi detenuti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Nelle prigioni di Qayyarah, a Sud di Mosul, si arriva a stipare in stanze senza finestre di ridottissime dimensioni (4 metri per 6) fino a 114 persone. Celle ancora più piccole (3 metri per 4) “ospitano” di solito almeno 38 prigionieri. Mancano mobili, materassi e servizi sanitari sufficienti. Non c’è neppure lo spazio per potersi sdraiare a terra.
Questi bambini hanno la sola “colpa” di aver ceduto alla fame e al bisogno di qualche spicciolo per poter aiutare le proprie famiglie. Si sono così ritrovati a lavorare all’interno dei territori posti sotto il controllo dello Stato Islamico. Nella maggior parte dei casi, i minori non hanno combattuto al fianco dell’ISIS. Ma hanno svolto semplici ruoli “di supporto”: cucinare o pulire, ad esempio. Queste attività però sono bastate a etichettarli come “terroristi”. È anche successo che siano state le famiglie di origine a spingere i propri figli verso l’ISIS per il desiderio di rivestire un eventuale ruolo di prestigio al suo interno.
In base al “Juvenile Welfare Act” iracheno sulla giustizia minorile, l’età minima per essere accusati di reati penali è 9 anni. L’articolo 52 della legge vieta l’incarcerazione di minori di 14 anni. Inoltre, nel 2016, il Governo di Baghdad ha approvato un’amnistia per tutti gli autori di crimini non gravi costretti a unirsi all’ISIS contro la propria volontà. Tutto questo in teoria. La realtà ci dice infatti che le pene per i bambini accusati di aver collaborato con l’ISIS sono in media di 5 anni ma salgono a 15 per chi ha partecipato a atti violenti. Molti adulti, anche stranieri, vengono invece condannati a morte o all’ergastolo dopo processi arbitrari e spesso irregolari.
Le Nazioni Unite hanno condannato le detenzioni di minori con età inferiore ai 12 anni, incoraggiando il Governo di Baghdad a concentrarsi sui casi più gravi e ben documentati. Le autorità irachene sono state invitate a cercare soluzioni alternative alla detenzione per tutti quei bambini semplicemente sospettati di associazione all’ISIS, soprattutto in assenza di prove sulla commissione di crimini specifici.
Dal 2012, a livello mondiale, il numero di bambini incarcerati in Paesi dove operano entità terroristiche come l’ISIS o Boko Haram (Nigeria) è aumentato di ben 5 volte. Le vittime vengono così trasformate in carnefici e viene loro negato il diritto a reintegrarsi nella società. In base al diritto internazionale, gli Stati devono riconoscere assistenza a tutti i bambini che hanno partecipato, a vario titolo, alle operazioni di gruppi armati. Questi minori vanno giudicati e condannati se colpevoli. Imprigionare dei bambini per legami spesso non dimostrati, ma solamente sospettati con l’ISIS, non è accettabile giuridicamente. Questo modo di agire non è neppure efficace per riabilitare i ragazzi e non rende giustizia alle vittime delle atrocità commesse dall’ISIS. Al contrario, rischia di creare le condizioni per una futura radicalizzazione di un’intera generazione, contribuendo all’instabilità del Paese per decenni a venire.
Anche chi viene rilasciato vive nella paura. L’accusa di collaborazione con l’ISIS conduce a forti discriminazioni, a gravi casi di disgregazione familiare e impedisce la loro reintegrazione nel tessuto sociale.
Umar farà fatica a cancellare l’etichetta di “terrorista” cucitagli addosso in maniera affrettata e ingiusta. Questa stigmatizzazione, associata alla mancanza di supporto psicologico, sociale ed economico, porta a chiedersi quali strade Umar deciderà di percorrere in futuro, molte delle quali, probabilmente, assai pericolose.