Dopo giorni di pioggia, finalmente, è una bella serata. A Martyr Square risuona il muezzin delle 19.35. La piazza, ormai da mesi, sembra una grande tendopoli. I manifestanti si riuniscono qui quasi ogni sera, mangiano qualcosa, discutono, raccolgono firme al riparo nelle tende.
Dal 17 ottobre però l’atmosfera è cambiata. Il Governo ha annunciato un aumento spropositato delle tasse e per strada ci sono adesso anche tanti, tantissimi soldati. Il livello di guardia è molto alto. Le transenne sono pronte a chiudere diversi accessi alle vie principali. Eppure, i libanesi continuano a organizzarsi per protestare pacificamente. Gira voce che proprio stasera ci sarà una grande manifestazione. E infatti, dopo qualche ora, i manifestanti trovano il modo per aggirare i posti di blocco, usando vie e vicoli alternativi. Si radunano, in gran numero, nel quartiere del “suq”.
Sono nel mezzo della folla al centro di una strada principale. Poco lontano da me, su un palchetto improvvisato, alcuni ragazzi – che hanno guidato la marcia – inneggiano i loro cori dal megafono. I militari presidiano i quattro accessi attorno a noi. D’improvviso ha inizio una carica. Non sappiamo il perché. Una parte della folla cade, viene calpestata dagli anfibi dei soldati. Un’altra frangia del corteo risponde all’attacco e così arriva un’altra carica. Alcuni si trovano nel bel mezzo dei due schieramenti tra gli scudi della polizia e dei militari.
Segue un lancio di lacrimogeni. I manifestanti sono costretti a dispendersi. Un ragazzo accanto a me viene preso per il collo e trascinato a terra. Sento il colpo di un manganello sul polpaccio. Perdo l’equilibrio. Noto che il gas brucia più del solito. E, infatti, poco dopo si scopre che non si trattava di tradizionali lacrimogeni, bensì di una particolare miscela utilizzata, di norma, nelle operazioni anti-terrorismo.
I manifestanti si sparpagliano. Mentre continuano piccoli tafferugli isolati con lancio di sassi e ancora gas. C’è chi si sdraia per terra con le mani sul volto. Ambulanze e volontari lavorano senza sosta in un andirivieni dagli ospedali.
È questo che accade da ottobre in 60 città libanesi quasi ogni sera, in particolare durante i fine settimana.
Il Paese sta vivendo una mobilitazione senza precedenti. Oltre un milione di cittadini, per la prima volta senza alcuna distinzione sociale, ha espresso il proprio dissenso verso un’austerità che continua ad arricchire i politici senza portare a un vero risanamento della fragile economia libanese. Il Governo, finora, ha risposto alle proteste con una violenta repressione che ha comportato, fra le altre cose, una massiccia e quotidiana presenza militare nelle strade.
Due giorni dopo la manifestazione, ancora claudicante, siedo in uno dei caffè di Beirut pullulante di giovani impegnati a lavorare con i propri laptop. Sono studenti, attivisti e intellettuali.
È qui che incontro Nizar Hassan, giornalista, ricercatore, cofondatore del movimento politico LiHaqqi e attivista per i diritti umani. Il gruppo LiHaqqi è stato uno dei primi a scendere nelle piazze radunando coloro i quali volevano far sentire la propria voce.
Inizio subito a rivolgergli alcune domande. Ho bisogno di capire meglio le vere ragioni che hanno mosso la protesta libanese, tenendo conto che i media occidentali hanno offerto notizie frammentate e poco chiare.
Nazir, quella libanese è stata soprannominata la “protesta contro la tassa di Whatsapp“. Puoi aiutarci a capire cosa davvero è successo?
Le proteste sono state strumentalizzate molto dai media. Ma la realtà è un pò diversa. Sapevamo già da tempo che si sarebbe arrivati a questo punto. Del resto, la situazione economica è andata peggiorando soprattutto negli ultimi due anni. La “ribellione” nasce dalla necessità di opporsi alla corruzione, all’impunità, ai tassi di prestito impraticabili fissate dalle banche, ai cambi sfavorevoli con il dollaro, alla disoccupazione e alla mancanza di riforme. Molti l’hanno definita la protesta di “whatsapp” perché quella tassa è stata la famosa goccia, per tanti versi ridicola, che ha fatto traboccare il vaso. In Libano, i costi della telefonia mobile sono altissimi, inaccessibili per le classi meno agiate quindi l’app è il mezzo più usato per comunicare. Il Governo ha deciso di tassare la prima chiamata quotidiana di Whatsapp. Tassa che è andata ad aggiungersi all’aumento delle imposte su tabacco, benzina ed elettricità. Come vedi il contesto è molto più articolato di come hanno voluto dipingerlo.
Altra cosa poco chiara è la questione degli incendi nelle zone naturali attorno a Beirut. Ci spieghi come si è evoluta la vicenda?
Gli incendi, che hanno colpito le zone dei boschi attorno a Beirut, altro non sono che l’ulteriore segnale del malfunzionamento del Governo. Si è speculato molto su questa storia. Sono addirittura nate teorie di cospirazione per aumentare l’odio contro gli immigrati. All’inizio, si è detto che fossero stati i rifugiati siriani ad appiccare il fuoco, per approfittare dell’evacuazione dei villaggi e quindi rubare all’interno delle case. Niente di più falso. Anzi, i rifugiati si sono adoperati volontariamente per spegnere gli incendi. Abbiamo elicotteri e mezzi militari da milioni di dollari fermi nelle basi perché in questi anni non è stato speso nemmeno un dollaro per la loro manutenzione. E così, al momento del bisogno, i soccorsi non hanno funzionato. Sono stati tardivi e poco efficaci.
Quale sarebbe per te la soluzione ideale, sotto il profilo politico, in Libano? Cosa è più facile, invece, che accada davvero?
In Libano, il sistema politico è complicato e assai settario, in ragione di una legge consuetudinaria che impone la suddivisione del governo tra le maggioranze religiose. La cosa migliore, dal mio punto di vista, sarebbe riuscire ad avere all’interno del Parlamento una forza liberale e progressista. Non so dirti di preciso cosa accadrà in futuro. Di certo, molto dipenderà dalle risposte del Governo alle nostre richieste. È verosimile che si costituisca un Governo tecnico, con cui il dialogo sarà possibile a seconda dei membri che lo comporanno.
Nello specifico, quali sono le vostre richieste?
Noi chiediamo il recupero dei soldi finiti nelle tasche dei tanti corrotti. Vogliamo che vengano avviate indagini e comminate pene contro chi si è macchiato del reato di corruzione, garantendo una maggiore libertà ai giudici della Corte Suprema. Reclamiamo investimenti e tassi più regolari. E ovviamente l’eliminazione delle nuove tasse previste per marzo, di cui abbiamo già parlato.
Chi come te si espone, anche mediaticamente, in prima persona all’interno di contesti spinosi, spesso diventa un personaggio scomodo. Finora, hai mai ricevuto minacce?
No, per il momento no. Ma, in realtà, non è ancora accaduto nulla. Se in futuro si verificheranno importanti cambiamenti tali da limitare il potere di chi ha spadroneggiato indisturbato, allora sì: mi aspetto che possano arrivare minacce, anche molto serie, contro di me.
Il 19 dicembre scorso, pochi giorni dopo la nostra intervista, Hassan Diab è stato incaricato dal presidente Aoun di formare un Governo tecnico. La sua nomina ha fatto storcere il naso a molti. Diab, infatti, ha da sempre il sostegno di Hezbollah. Il nuovo scenario politico ha portato quindi i libanesi a scendere di nuovo in piazza, arrivando fin sotto la casa del nuovo Premier.
Alla delicata situazione interna vanno poi sommate le ultime tensioni tra Iran e Stati Uniti, la cui eco si fa sentire anche in Libano. Molti libanesi, soprattutto di fede sciita, hanno pianto l’assassinio di Soleimani.
In Medioriente, ciò che accade in ogni singolo Stato si ripercuote fortemente anche sui Paesi confinanti.
Il califfo Alī ibn Abī T̩ālib, circa 20 anni dopo la morte di Maometto, a proposito del Medioriente scrisse: “sia amici che nemici sono di tre tipi. I tuoi amici sono: il tuo amico, l’amico del tuo amico e il nemico del tuo nemico. I tuoi nemici sono: il tuo nemico, il nemico del tuo amico e l’amico del tuo nemico”.
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