21 Novembre 2024

Benin, perché tradizioni e capi religiosi contano più dello Stato

Quando si viaggia nelle zone rurali dell’Africa si può restare stupiti e confusi da come, negli stessi villaggi di poche centinaia di persone, siano rappresentate sia autorità amministrative che noi definiremmo “moderne” sia figure tradizionali.

È quello che è successo a me in Benin, a Sokpontà (nel dipartimento delle Colline, non lontano dal confine con la Nigeria), dove viaggio per progetti di cooperazione. Lavorare con una società significa lavorare anche con le sue Istituzioni e lì si trovano, a poca distanza, l’ufficio del delegué (rappresentante dell’amministrazione statale eletto dal villaggio), la gendarmerie, il palazzo del re e il centro di geomanzia.

Una sensazione di strano “anacronismo” si ritrova anche leggendo alcune notizie di giornale, come quella del giugno scorso, quando il Gup di Milano ha condannato, in seguito alla perizia di un’antropologa, una donna nigeriana rea di aver ridotto in schiavitù e costretto a prostituirsi delle ragazze, anche loro nigeriane, facendo uso della coercizione tramite un rito voodoo. O quella, nel 2018, che riguarda l’Oba del Benin (Nigeria) che ha chiesto ai “medici nativi” di annullare le maledizioni di cui sono oggetto le donne vittime di tratta. Scorrendo il curriculum di quest’uomo si legge che, prima dell’incoronazione, si è laureato in economia a Cardiff, ha preso un master in pubblica amministrazione nel New Jersey ed è stato ambasciatore della Nigeria in Angola, Svezia ed Italia.

Riti voodoo, sovrani, medici tradizionali contro aule di tribunale, perizie tecniche, Università e ambasciate: sembrano concetti usciti da mondi ed epoche diverse, quasi inconciliabili.

Ma dove ritroviamo le radici di tutto ciò?

Per iniziare a sbrogliare la matassa occorre fare un passo indietro. Anzi, più di uno: prima dell’epoca della “corsa all’Africa”, già da secoli le società dell’Africa Sub-Sahariana erano estremamente diversificate. Vi erano grandi e ricchissimi imperi dove si assiste, ad esempio con quello del Mali nel XIV secolo, a modelli di accentramento amministrativo e di diritto pubblico, regni, potenti città-Stato così come piccoli gruppi sociali patriarcali o addirittura acefali. L’Islam, e con esso il diritto islamico, penetra nel continente in maniera lenta e, spesso, unendosi a tradizioni locali e creando nuove soluzioni.

L’inizio della penetrazione coloniale nel continente segna invece l’inizio del trapianto dei sistemi giuridici di tradizione occidentale in Africa. In realtà non si assisterà ad un semplice affiancamento tra due tradizioni giuridiche parallele (e quindi due diversi modi di organizzazione della società): il sistema di amministrazione coloniale agisce, grazie ad una serie di strumenti, da una posizione di forza, e modifica l’organizzazione sociale dei territori colonizzati.

Le principali potenze coloniali, Francia e Impero Britannico, adottano sulla carta due differenti strategie: assimilation (assimilare le colonie al modello culturale, sociale e amministrativo della “madre patria”) e indirect rule (gestire le colonie tramite l’inquadramento nel sistema amministrativo coloniale delle strutture di potere già esistenti).

Preparativi per una cerimonia fuori dal palazzo reale di Abomey

Nella pratica anche la Francia, ponendosi l’obiettivo dell’assimilation, inizia una fase di inserimento delle autorità locali nella struttura amministrativa. Questo porterà a grandissimi cambiamenti nella società africana.

Durante l’amministrazione coloniale i cosiddetti capi tradizionali si ritrovano ad avere tutti gli stessi poteri, fossero essi grandi sovrani con poteri storici (come l’Emiro di Kano) o semplici capi di piccole società patriarcali. Inoltre, in alcune società “acefale”, vengono creati e incoronati dei “sovrani tradizionali” ad hoc, al fine di favorire il controllo di quelle società.

Nei capi tradizionali iniziano a convivere sia poteri e prerogative della tradizione africana sia funzioni attribuite dai colonizzatori, prima fra tutte la riscossione delle imposte (che iniziò a creare dei privilegi di tipo anche economico).

Echi di questo cambiamento si possono sentire anche nelle opere della letteratura africana che narrano l’arrivo dei coloni: ne Le Roi de Kahel di Tierno Monenembo il sovrano del regno Fulani del Fouta Djalon lamenta che, in seguito all’annessione del Fouta alla colonia francese della Guinea, si trova ad avere gli stessi poteri dei vassalli che un tempo nominava mentre, in Things Fall Apart di Chinua Achebe, i funzionari coloniali inglesi che si recano in un villaggio Igbo della Nigeria chiedono chi sia il capo della comunità e gli viene risposto che vi sono anziani, stregoni e uomini con titoli di varia importanza, ma non vi è la figura che loro cercano.

Momento di una celebrazione presso il Centro di Geomanzia di Sokpontà

Si creano diversi tribunali i quali applicano il diritto europeo (per gli europei e per gli africani che ne fanno richiesta) oppure il diritto tradizionale africano. Tuttavia, negli ultimi si applicano solo le norme che i colonizzatori considerano non contrarie a concetti come ad esempio “buon costume”, “principi generali della civilizzazione francese”.

Gli esperti locali di diritto tradizionale hanno solo una funzione consultiva e l’ultima parola spetta ad organi di controllo coloniale: i tribunali che applicano il diritto tradizionale diventano quindi strumenti di controllo politico della società.

Inoltre, per suddividere il territorio dal punto di vista amministrativo, ci si avvale dell’opera di etnologi ed etnografi, che creano delle “mappe umane” del territorio colonizzato dividendolo in tribù ed etnie, ognuna con le sue caratteristiche e specificità (spesso derivanti dai pregiudizi che una società africana aveva nei confronti di quelle vicine) che vengono così ufficializzate e messe nero su bianco.

Tutto ciò favorirà le divisioni etniche e quel sentimento di tribalismo che ha portato a tanti problemi e sciagure nell’Africa post-coloniale (un triste esempio sono le carte d’identità etniche del Rwanda, simbolo di divisioni sociali esasperate dal colonialismo e che hanno contribuito al genocidio del 1994).

Con l’indipendenza, i neonati Stati africani si dotano di sistemi giuridici ispirati alle precedenti potenze che avevano colonizzato quei territori. Il diritto tradizionale non trova alcun riconoscimento, il sistema di tribunali che applicano diritto tradizionale sparisce e ai capi tradizionali vengono riconosciute generalmente solo funzioni simboliche o religiose. Tuttavia, essi conservano una forte influenza sulla popolazione, spesso restia, nelle aree rurali, ad accettare l’influenza del diritto statale nelle proprie comunità.

Ecco quindi da dove nasce il difficile equilibrio di poteri e funzioni che ho trovato a Sokpontà tra il re, il deleguè, il sindaco del distretto e il geomante, e lì come in tutte le società africane la situazione è in continua evoluzione e crea sempre nuove soluzioni.

Ricevuto nella residenza del re, dove noto subito una vecchia automobile targata “Sua Maestà il Re Batcho di Sokpontà“, mi viene spiegato come egli sia una figura ormai solo simbolica e religiosa. Tuttavia, continuando a chiacchierare, inizia ad emergere come in realtà egli abbia un ruolo ancora attivo nella società. Molte persone si rivolgono a lui per dirimere le loro controversie.

Nonostante il re si affretti a sottolineare che, in caso uno dei due litiganti non accetti la decisione del re, ci si possa sempre rivolgere al tribunale e al diritto statale e che, in quel caso, sia la decisione del giudice ad avere valore, si capisce come questa figura sia in realtà molto influente nella vita del Paese.

Nelle zone rurali del Benin, come rivela anche un rapporto del Fondo Europeo di Sviluppo, è più facile che la popolazione accetti e rispetti le decisioni dei capi religiosi e tradizionali rispetto a quelle dei tribunali. Inoltre, è il re ad avere l’ultima parola sulle compravendite di terreni in quanto, tradizionalmente, egli è il padrone delle terre.

Anche professori di diritto, magistrati, insegnanti e altre persone intervistate riferiscono la stessa versione, ovvero dell’indubbia e indiscutibile supremazia del diritto statale su quello tradizionale.

Tuttavia, risulta difficile immaginare come gli abitanti delle zone rurali possano (o vogliano) avere accesso alla giustizia nazionale. Molti sono i limiti: economici, organizzativi e culturali; mentre la recente legge sulla decentralizzazione amministrativa ha aiutato a risolvere i primi, ben poco (se non nulla) viene fatto per armonizzare le diverse tradizioni giuridiche.

Il riconoscimento del valore della tradizione giuridica africana sarebbe certamente utile per creare un diritto compreso e accettato dalla popolazione e, inoltre, come strumento di riconciliazione e armonia nelle società africane spesso turbate da tensioni e conflitti.

Un ottimo esempio è l’utilizzo dei Gacacasistema di giustizia tradizionale utilizzato in Ruanda per riconciliare le comunità in seguito agli orrori del genocidio. Ma la strada per un pieno riconoscimento e un effettivo utilizzo di questi strumenti propri di una cultura plurisecolare è ancora lunga.

[Tutte le foto sono dell’autore dell’articolo]

Umberto De Magistris

Laureato in Giurisprudenza a Genova, cultore della materia in diritto comparato, si occupa in particolare della storia dei sistemi giuridici in Africa subsahariana. Ha lavorato in un centro d'accoglienza per richiedenti asilo e, dopo esperienze di ricerca in Sud America e Kazakistan, collabora a progetti di cooperazione allo sviluppo in Africa Occidentale.

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