Se Facebook fosse un’arena di leoni a fine giornata si conterebbero più morti (sbranati) che sopravvissuti. E pensare che era nato per far incontrare le persone, metterle in contatto, creare nuove amicizie, magari.
Umberto Eco aveva capito, senza bisogno di aspettarne gli effetti collaterali, a cosa avrebbero portato i social e come sarebbero stati usati dalla “legione di imbecilli” a cui veniva dato diritto di parola senza limiti. E probabilmente nessuno di noi può essere sicuro di non essere entrato in quella legione. Magari per il tempo di un solo post, magari con una sola foto, con una sola emoticon o commento, ma pur sempre “imbecilli” per quel che basta.
Intanto la questione si è spostata negli ultimi anni sul ruolo di Facebook come “ladro di dati personali”. Questione certamente rilevante, anche se a mio parere ce n’è un’altra, altrettanto importante, che va tenuta sotto osservazione, l’incapacità di comunicare.
Parto da esperienze personali. Recentemente mi sono capitate situazioni spiacevoli che, in un caso mi ha portato a bannare un mio contatto, in un altro a cancellare un mio post. In entrambi i casi uno scambio di opinioni si era trasformato in un ring.
Persone, amici degli amici, oltre a fare pressione in cerca non di un dialogo ma di reazioni che potessero continuare ad alimentare una condivisione non di idee ma di veleno, stavano lì a parlare tra loro come se l’altro non ci fosse, non potesse leggere. In un atteggiamento di provocazione tipico dei bulli.
A fare da sottofondo alla scazzottata c’era l’Africa. Non ha senso – anche per il rispetto che comunque devo a quelle persone – raccontare i motivi che hanno scatenato la “battaglia”. Non posso però fare a meno di sottolineare quello che mi sembra sia una pericolosa deriva in cui sta andando il nostro modo di rapportarci all’altro, al diverso, ad altri modi di pensare.
Tutti siamo diversi dall’altro, anche noi italiani, bianchi, occidentali, ex colonizzatori (e, quindi, per alcuni, con questo peccato originale per sempre marchiato nell’anima). Siamo diversi agli occhi dei neri, africani, afro-discendenti, seconde generazioni, immigrati, ecc. ecc. Siamo diversi, è ovvio, e ho l’impressione che quel vederci diversi – e segnati dal peccato originale – faccia sentire molti in diritto di giudicare a priori.
In diritto di bocciare le opinioni, conoscenze, competenze, che non siano in accordo con le proprie idee, con le proprie battaglie, con le proprie (lasciatemelo dire) maschere. Perché reagire come se non ci fossero margini per mettersi in discussione, per modificare il proprio pensiero, come se “quello che dico è giusto perché sono nero, afro-discendente, immigrato. Quello che dici tu è sbagliato perché ci avete sfruttato, siete razzisti (tutti?), siamo da sempre discriminati, ecc.” equivale ad essersi costruito un ruolo freddo, rigido e immutabile. Si può fare, è chiaro, ma direi che va in contraddizione con il tentativo di ribaltare gli status quo mentali. Quelli degli altri, per intenderci, visto che poi non ci si rende conto delle proprie rigidità. Va in contraddizione con il tentativo di avvicinare le persone alle nostre storie, con il tentativo di farsi ascoltare. Ecco, ascoltare.
A volte bisognerebbe abbassare la guardia e ascoltare. Non è comprensibile che per reagire a secoli di dominazioni, colonizzazioni, apartheid, discriminazioni, schiavismi, ci siano persone che con il loro atteggiamento (a volte di attacco, a volte di chiusura) non fanno altro che allargare un fossato che impedisce di incontrarsi.
Torniamo alla comunicazione su Facebook. Avete mai notato che tra amici che si conoscono di persona è difficile che ci si insulti, si facciano triangolazioni per parlare male dell’altro (che, ovviamente legge, ma diventa il ragazzino bullizzato messo nell’angolo), ci si cancelli (come se bastasse bannare qualcuno per eliminare il problema).
Il motivo è banalissimo: guardarsi negli occhi equivale ad accettarsi, a prendersi carico in qualche modo della vita dell’altro, delle sue emozioni (che vengono prima delle idee strutturate).
Aver deciso di cancellare qualcuno dai miei contatti e aver cancellato il mio post è stato da un lato una sconfitta, dall’altro la reazione a un atto di violenza. Verbale e forse anche inconsapevole, ma pur sempre violenza. Anche se su quell’inconsapevole non sono convinta, non sono sicura. Perché se siamo inconsapevoli del peso delle nostre parole e del modo in cui le diciamo, allora c’è qualcosa che non va.
E non va neanche il vittimismo. Neanche di quei neri, africani, afro-discendenti che cercano solo consenso, che così facendo escludono il confronto vero. Il bianco e il nero sono frutto della percezione della mente. Allontanatevene anche voi, come vorreste – ovviamente – che lo facciano gli altri. Magari non tutti vogliono un mondo polarizzato, diviso, ghettizzato. Il tempo bello delle Black Panter non torna e non torna neanche Malcolm X.
Forse è il caso di smettere di pensare che c’è “un mondo contro” là fuori. Sempre contro, tutti contro. Un mondo da combattere (eppure ci si sta dentro…). Là fuori, fuori da questo strumento rischioso che è Facebook, c’è gente che apprezza il confronto e ci lavora, apprezza lo scambio e non è automaticamente da accusare se non la pensa come voi, solo perché macchiato dal peccato originale.
Gente che non ama il vittimismo, né da una parte né dell’altra. Gente che non raccoglie le provocazioni fondamentaliste. Perché anche se avete i nervi scoperti – magari lecitamente, i vostri sentimenti e le vostre sofferenze comunque li conoscete solo voi – comunque non avete sempre ragione solo perché africani o perché le vostre radici sono lì. Cosi come non avete sempre torto per lo stesso motivo.
O forse non è una questione di torto o ragione. Troppo semplice, troppo banale. Troppo infantile. Come infantile è chi pensa che gli si debba attenzione, rispetto o condiscendenza semplicemente per il colore della pelle che porta. Il rispetto si conquista. L’attenzione pure.
Alla fine, la questione rimane quella: l’incapacità di comunicare, di ascoltare, di moderare i pensieri della nostra mente prima di digitarli.
Mi piace chiudere con le parole di questa brava slameuse ivoriana che vive in Africa, nella sua terra, e forse certe cose le vede un po’ più chiare di me e voi.