È il settembre del 2011 quando Claire Fotheringham, ostetrica australiana al suo primo incarico con Medici senza Frontiere (MSF), arriva in Sierra Leone. “Entrando nell’affollato reparto maternità dell’ospedale – racconta sul sito dell’ONG – ero del tutto impreparata a quello che avrei dovuto affrontare. Donne a un passo dalla morte, che arrivavano con serie complicanze come emorragie gravi e shock settico (…). In sala operatoria, visitando molte di loro, riscontravo lesioni alla cervice dell’utero causate da oggetti appuntiti utilizzati per interrompere le gravidanze. Tutti esempi di aborti non sicuri che avevano provocato lesioni terribili”. In quel contesto, “mi sono resa conto – prosegue – della disperazione che spingeva queste donne ad affrontare un’esperienza simile, e di quanto limitate fossero le loro alternative. Erano disposte a ricorrere a qualsiasi mezzo per porre fine alla gestazione pur conoscendo l’enorme rischio per la propria vita”.
Ogni anno, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), vengono praticati nel mondo 25 milioni di aborti non sicuri. Il 97% nei Paesi in via di sviluppo.
Il fenomeno, precisa MSF, rappresenta una delle prime 5 cause dirette di mortalità materna. Ben 22.000 donne perdono annualmente la vita in seguito a un aborto non sicuro. Mentre 7 milioni soffrono di conseguenze fisiche a lungo termine.
Va anzitutto chiarito che l’espressione “aborto non sicuro”, in base alla definizione data dall’OMS, indica “ogni intervento effettuato in un ambiente privo degli standard medico-sanitari minimi ovvero da personale non qualificato” che si avvale di “metodi pericolosi, come: l’ingestione di sostanze caustiche, l’inserimento di corpi estranei o l’uso di intrugli tradizionali”.
I fattori che determinano il ricorso a tale pratica sono molteplici e non necessariamente legati alla presenza di leggi nazionali che vietano tout court l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG).
Certo, nei Paesi in cui vige un divieto assoluto di aborto – 26 per precisione, 3 dei quali in Europa (Andorra, Malta e San Marino) – la donna non ha altra scelta se non quella di ricorrere a un intervento clandestino che, nella maggior parte dei casi, si traduce in un’operazione rischiosa per la sua salute e in una potenziale denuncia penale a suo carico. In El Salvador, ad esempio, il personale medico è obbligato a segnalare alle autorità di polizia le pazienti giunte in ospedale per un’emergenza ostetrica.
Secondo il report “Excluidas, Perseguidas, Encarceladas“, dell’organizzazione non-profit Center for Reproductive Rights, la legge equadoregna è applicata in maniera talmente rigida che “sorge una presunzione di colpevolezza ogniqualvolta una donna arriva in pronto soccorso con un’emorragia [ginecologica]” a prescindere se l’aborto sia stato (o meno) spontaneo.
Richiedere assistenza sanitaria in contesti culturali ostili verso l’aborto non è affatto semplice.
Nelle Filippine, rileva il Guttmacher Institute, le donne sono molto restie a chiedere aiuto perché “provano vergogna o si sentono intimidite dagli operatori sanitari. Può anche succedere che le cure post abortive vengano negate o effettuate senza la somministrazione di antidolorifici e anestesia”.
Lo stesso Istituto conferma, inoltre, che laddove l’IVG è proibita si registrano i più alti tassi di aborti non sicuri.
È infatti una pia illusione dei Governi credere che un divieto possa scoraggiare una donna dall’interrompere una gravidanza indesiderata. Semplicemente lo farà in modo illegale correndo il rischio di pregiudicare per sempre la sua integrità fisica.
Video tratto dal canale YouTube di Medici senza Frontiere
Nella Repubblica Domenicana, si legge nel report “It’s Your Decision, It’s Your Life” di Human Rights Watch, “ogni anno, circa 25.000 pazienti vengono curate per complicanze derivanti da aborti insicuri“. Si tratta, per lo più, di donne e ragazze poco abbienti. “Se sei povera – dice un medico domenicano – sei finita. Se hai denaro, invece, puoi permetterti un aborto sicuro ovunque”.
Lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per i Paesi dove l’IVG è legale solo in specifiche e limitatissime circostanze. A tal proposito, si rammenta che in 39 Stati del mondo è possibile abortire se la gravidanza costituisce un grave pericolo per la vita della madre. Mentre, 56 Nazioni consentono l’aborto anche per preservare la salute fisica e/o mentale della donna incinta.
Occorre considerare, che queste leggi, già di per sé poco permissive, vengono pure interpretate in modo restrittivo, finendo con l’alimentare il mercato nero dell’aborto.
A tal proposito, si può citare la Polonia dove la normativa, spiega Krystyna Kacpura, Direttore esecutivo della Federation for Women and Family Planning a Varsavia, “ha generato un clima talmente punitivo e stigmatizzante da determinare una notevole riluttanza da parte dei medici” a praticare l’aborto anche quando previsto dalla legge.
Alcune donne polacche, racconta il Dott. Dr. Rudzinski al Time, “decidono di abortire da sole assumendo farmaci per curare le ulcere allo stomaco. Pensano di essere riuscite nel loro intento perché sperimentano dolore e sanguinamento. Ma dopo qualche settimana si rendono conto che non ha funzionato. A quel punto l’aborto non è più possibile”.
Negli Stati dove l’interruzione di gravidanza è libera e legale, il fenomeno dell’aborto non sicuro è dovuto soprattutto al modo in cui le leggi vengono applicate. L’accesso ai servizi abortivi, infatti, non è sempre facile e immediato a causa dell’eventuale costo dell’operazione, di medici obiettori di coscienza nonché di procedure assai farraginose.
Video tratto dal canale YouTube del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa
Prendiamo il caso dell’Italia. L’elevato presenza di medici obiettori di coscienza (più del 68% dei ginecologi per il ministero della Salute) rende piuttosto difficoltosa la concreta applicazione della Legge n. 194/1978.
Il problema non è di per sé l’obiezione di coscienza, ma le modalità di reclutamento e distribuzione dei medici obiettori e non sul territorio nazionale. Solo il 60% dei nostri ospedali effettua l’IVG. In Molise c’è un unico medico non obiettore. E nel Lazio, soltanto 7 ginecologi (peraltro, tutti a Roma) praticano il cosiddetto aborto terapeutico.
Tutto questo, come anche evidenziato dal Consiglio d’Europa, costringe le donne incinte a spostarsi di città in città, di regione in regione o addirittura all’estero con un aggravio di costi e di stress. Ma soprattutto favorisce gli interventi clandestini. I numeri ufficiali, relativi all’anno 2017, ci dicono che nel Belpaese gli aborti sono in diminuzione, tuttavia si tratta di dati privi di valore scientifico, precisa la dottoressa Silvana Agatone (Presidente dell’Associazione Laiga), perché inficiati dal metodo di raccolta.
Agatone, in un’intervista a un quotidiano nazionale, spiega “ogni volta che noi medici effettuiamo un’interruzione di gravidanza riempiamo una scheda che viene inviata all’Istituto di Sanità e poi al ministero”. Se “il numero degli obiettori diminuisce – prosegue – diminuiscono gli aborti fatti alla luce del sole e nessuno sa quanti invece vengono praticati di nuovo in modo clandestino”. Nella migliore delle ipotesi, l’interruzione avverrà in strutture private non autorizzate. Spesso però le donne incinte ricorrono a metodi fai-da-te, acquistando, ad esempio, la pillola abortiva online e assumendola senza controllo medico con gravi ripercussioni sulla salute.
L’aborto, racchiudendo in sé implicazioni di ordine etico, religioso e socio-culturale, è senza dubbio un tema controverso e delicato. A livello statale, invero, sono tanti gli elementi che concorrono alla determinazione di politiche più o meno lassiste.
D’altronde, le leggi più severe in materia vigono negli Stati con una forte componente cattolica ovvero una radicata cultura patriarcale che vuole la donna – utero compreso – appannaggio esclusivo del dominio maschile.
Il confronto tra chi difende il diritto all’autonomia riproduttiva della donna (pro-choice) e quanti sostengono la necessità di proteggere la vita del nascituro (pro-life) continua però ad essere piuttosto accesso in ogni parte del mondo.
Sul piano internazionale, invece, la questione dell’aborto, ignorata fino alla metà degli anni ’90, è stata da subito inquadrata nell’ambito dell’ampio dibattito sui diritti fondamentali delle donne.
A partire dalla Conferenza del Cairo (1994), in un crescendo di commenti generali, osservazioni e dichiarazioni, gli Stati sono stati invitati a garantire l’aborto sicuro e l’accesso ai servizi di salute riproduttiva quando previsti dalla normativa interna, nonché a rivedere “le leggi contenenti misure punitive contro le donne che hanno subito aborti illegali”.
Non si può ancora affermare che, nell’ordinamento giuridico internazionale, esista un diritto di accesso all’aborto. Ad eccezione del Protocollo di Maputo sui diritti delle donne africane, nessun trattato lo prevede né lo stesso è contemplato da una norma consuetudinaria. Tuttavia, la prassi degli organismi a tutela dei diritti umani sembra muoversi proprio in direzione del suo riconoscimento.
Intanto, va rilevato che in diversi documenti internazionali, seppur privi di efficacia vincolante, l’accesso all’intervento abortivo è stato considerato parte integrante di altri diritti essenziali della donna quali: la vita, la salute sessuale e riproduttiva, l’integrità personale, la non discriminazione di genere e la libertà da trattamenti inumani e degradanti.
Già nel 2011, Anand Grover, relatore speciale ONU sul diritto alla salute, nel suo report presentato all’Assemblea Generale, scriveva “le leggi penali che vietano o limitano l’aborto costituiscono esempi paradigmatici di ostacoli non ammissibili alla realizzazione del diritto alla salute delle donne e devono pertanto essere eliminati“. “Queste leggi – continuava – violano la dignità e l’autonomia delle donne limitando gravemente il loro processo decisionale in merito alla propria salute sessuale e riproduttiva“.
I Comitati delle Nazioni Unite – competenti a monitorare la situazione dei diritti umani negli Stati parti – hanno inoltre, in diverse circostanze, segnalato con preoccupazione l’alto tasso di mortalità materna dovuta ad aborti clandestini, individuando altresì i casi in cui l’IVG dovrebbe essere consentita senza se e senza ma.
Da ultimo, il Comitato ONU per i diritti umani, nel commento generale n. 36/2018 relativo al diritto alla vita sancito dall’ICCPR, ha dichiarato: “gli Stati parti devono garantire un accesso sicuro all’aborto per proteggere la vita e la salute delle donne incinte (…), in particolare quando la gravidanza è il risultato di stupro o incesto (…)”.
Non solo, gli Organi dei Trattati si sono spinti fino al punto di chiedere espressamente ad alcuni Governi di abrogare il divieto assoluto di aborto.
È successo di recente con l’Irlanda. Il Comitato ONU sui diritti umani si è pronunciato, nel 2016 e nel 2017, sulle comunicazioni individuali (Mellet e Whelan) presentate da due donne obbligate a recarsi in Gran Bretagna per abortire feti affetti da sindrome fatale. In entrambi i casi, il Comitato ha ravvisato nella legge irlandese una violazione dei diritti umani, affermando che “la scelta di far prevalere la protezione del feto rispetto ai diritti delle donne (…) non può essere giustificata”, tenendo conto che nella fattispecie l’aspettativa di vita dei feti stessi era pari a zero.
A dicembre 2018, grazie a un referendum, il Parlamento irlandese ha adottato l‘“Abortion Bill” che finalmente consente di porre fine a una gravidanza entro la dodicesima settimana ovvero quando sussiste “pericolo di vita“, “grave rischio per la salute” della donna incinta o “anomalie fetali che possono portare alla morte in utero“. Il ministro della Salute, Simon Harris, ha salutato la nuova legge con grande plauso, dichiarando “questo è un momento davvero storico (…). Voglio ringraziare gli attivisti che hanno combattuto 35 anni per cambiare una nazione e per trasformare cuori e menti. Il mio pensiero va soprattutto alle migliaia di donne costrette a compiere un viaggio per accedere a cure che avrebbero dovuto essere disponibili nel loro Paese“.
Negli ultimi venticinque anni, si è senz’altro assistito a un cambiamento di rotta da parte di circa 50 Stati, che hanno quantomeno introdotto nei propri ordinamenti alcune eccezioni al divieto di interruzione di gravidanza.
Video tratto dal canale YouTube del Center for Reproductive Rights
Non è ancora abbastanza, perché i diritti delle donne, parafrasando Nils Muižnieks (Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa), “non potranno mai essere davvero tutelati fintantoché non verrà loro garantito l’accesso effettivo all’aborto sicuro e legale” .
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