21 Novembre 2024

Afghanistan, l’emigrazione rischiosa di adolescenti senza futuro

Tre ragazzi afgani - foto di J McDowell
Tre bambini afgani – foto di J McDowell (licenza CC BY-NC-ND 2.0)

Abdoul ricorda molto bene quella notte senza luna a Chal, era quasi un anno fa, a lume di candela davanti a un tè fumante, la riunione di famiglia per decidere il suo futuro. Il nonno Aziz non voleva, la mamma Sadiqa non c’era alla riunione, ma aveva fatto capire quanto fosse contraria. D’altro canto però, come disse papà Majid, con gli occhi tristi e rugosi, come un fiume in secca: “in qualche maniera dobbiamo tirare avanti… e se continuiamo cosi non so come supereremo l’inverno…”.

La settimana dopo, con qualche soldo in tasca e il numero dello zio che vive da qualche anno a Teheran, Abdoul e Masoud, gemelli di 15 anni, sono partiti da Chal, un villaggio fuori Taloqan, capitale della provincia di Takhar, nel Nord Est dell’Afghanistan. Al dolore di lasciare la famiglia si aggiunge l’incertezza di quel viaggio spaventoso, migliaia di chilometri di strade pericolose per raggiungere l’Iran dove cercare un lavoro, mantenersi e mandare qualche soldo a casa per aiutare la famiglia: mamma, papà, nonno gli altri 5 fratelli e sorelle minori, ancora troppo piccoli per lavorare o sposarsi. Abdoul e Masoud, quella fresca notte di ottobre sapevano che sarebbe stato un viaggio rischioso, ma non si rendevano conto quanto.

Ce ne sono tanti di ragazzini come Abdoul e Masoud, cresciuti in un Paese martoriato da 40 anni di guerra e invasioni straniere, fra russi, combattenti jihadisti e coalizione capeggiata dagli Stati Uniti. 237.000 sfollati interni solo nel 2018, 1 afgano su sei che ha bisogno di assistenza umanitaria e oltre 2,6 milioni di rifugiati nel mondo, la maggior parte ospitati da Iran e Pakistan.

Alla loro età hanno la responsabilità di contribuire alle finanze familiari appena possibile per poi uscire di casa e formare una loro famiglia. Con le conoscenze giuste, a volte è possible trovare lavoro, anche se si tratta di lavorare in pessime condizioni, intrecciando cesti, tessendo tappeti, producendo mattoni o coltivando oppio.

Purtroppo però, la guerra infinita, il terrorismo, la povertà radicata, resa ancora più estrema dai frequenti allagamenti e dalla siccità, rendono impossibile per molte famiglie avere cibo e soldi a sufficienza. Ed è così che non rimane altro che chiedere a ragazzi come Abdoul e Masoud di tentare la rischiosa via dell’emigrazione.

Anziano afgano, foto di J McDowell
Anziano afgano, foto di J McDowell su licenza CC BY-NC-ND 2.0

Raggiunta la polverosa città di Zaranj, provincia di Nimroz, vicino al confine con l’Iran, Abdoul e Masoud, senza documenti, insieme, avanzano verso l’ignoto. Con poca esperienza e tanta paura, si trovano presto in balia di furbi trafficanti che offrono loro “aiuto” per passare il confine, ovviamente in cambio di soldi o manodopera. A corto di soldi, i due gemelli optano per la manodopera. Attraversano il confine fra barbuti uomini armati e l’immenso cielo afgano, reso ancora più terso dalle fredde temperature di novembre.

Passando da un trafficante all’altro e dopo varie settimane di viaggio si ritrovano a Teheran, nel bel mezzo dell’inverno, con temperature vicine allo zero, a lavorare come manovali per ripagare il debito contratto col trafficante. Nelle lunghe notti iraniane i due gemelli dormono nello stesso letto, spesso interrotto dalle smanie di molestatori che, dopo averli istigati a fumare hashish, abusano di loro, violando i loro corpi e le loro anime, segnate per sempre dalle perversioni di adulti senza scrupoli e morale. Una notte, all’improvviso, le grida, le luci, la polizia iraniana che irrompe nel loro dormitorio, li arrestano e da allora Adbul non rivedrà più il fratello.

Ragazzi afgani che vendono scope, foto di AFUSA007
Ragazzi afgani che vendono scope, foto di AFUSA007 su licenza CC BY-NC 2.0

Dopo qualche giorno in una grigia e sporca prigione, senza capire cosa stesse succedendo, Abdoul e qualche altra decina di afgani, fra cui 2 o 3 bambini, vengono fatti salire su un autobus, destinazione Afghanistan. Considerando la situazione di indicibile sofferenza e disperazione che sta vivendo, tornare a casa è quasi una liberazione se non fosse per la vergogna di aver fallito, di non essere riuscito a mandare nessun soldo alla famiglia e per lo più aver perso le tracce del fratello Masoud.

Ormai è aprile, la primavera è iniziata, Abdoul lascia Teheran, con le sue strade trafficate e cime innevate sullo sfondo percorrendo valli aride. Poi di nuovo il deserto e il confine con l’Afghanistan a Islam Qala, un nodo trafficato in mezzo ad un ventoso deserto di rocce, sabbia e polvere, in media 2.000 al giorno gli Afgani rimpatriati dall’Iran negli ultimi mesi.

Le procedure sono lunghe ed estenuanti, oltre ai soliti soldati e poliziotti Abdoul inizia a vedere “divise” nuove, colorate, e volti sorridenti, legge: IOM, UNICEF, War Child. Dopo aver risposto a centinaia di domande, viene separato dagli adulti e portato in un centro dove trova altri ragazzi come lui, tutti afgani provenienti dall’Iran. I vestiti nuovi, un posto pulito e la possibilità di socializzare con dei coetanei in un ambiente sicuro sono come un raggio di sole al mattino per l’anima ferita di Adbul.

Con l’aiuto degli operatori umanitari riescono a contattare i genitori, papà Majid, la voce e le lacrime di mamma Sadiqa nel sentire che Abdoul sta bene, ma anche l’amara tristezza di non sapere che fine abbia fatto Masoud. Si torna a casa, altre centinaia di chilometri in autobus attraversando territori controllati dai talebani e altri gruppi armati, passando posti di controllo armati. La polizia e l’esercito afgano sono poco presenti, con poche risorse e hanno paura.

È un’altra notte senza luna a Chal, Abdoul  è tornato a casa, di nuovo al sicuro, non vuole ripartire, gli piacerebbe studiare, ma non ci sono soldi abbastanza per sfamare tutti, tante domande che affollano la sua mente e lo tengono sveglio nelle lunghe notti di ottobre: che ne sarà di me e della mia famiglia? Cosa è successo a Masoud? Lo rivedrò mai più?

Nota: Adbul e Masoud sono nomi di fantasia utilizzati per raccontare, basandosi su fatti reali e informazioni di prima mano, il profilo, le esperienze e le dinamiche socio-economiche di molti adolescenti afgani che ogni giorno passano il confine per e dall’Iran e le conseguenze che questo ha sulle loro vite.

Stefano Battain

Stefano Battain, consulente tecnico in sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza con l’ONG inglese War Child che opera in Afghanistan, Iraq, Yemen, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo, ha lavorato anche in Tanzania, Sud Sudan e Giordania. Appassionato di viaggi, agroecologia e giustizia ambientale, con la moglie Daniela ha fondato e porta avanti l’iniziativa ALTERRATIVE

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