Sudan, le nuove generazioni pronte ad un Paese democratico

Durante gli ultimi mesi a Khartoum ed aree circostanti le forti piogge stagionali hanno causato inondazioni, allagamenti, crolli di case e bivacchi costruiti con materiali instabili. Nel quartiere Al-Amarat grosse pozzanghere rendono difficili gli spostamenti su raksha o a piedi. Non senza difficoltà arrivo nei luoghi ove svolgo le interviste. Incontro tre nuove interessanti personalità, conosciute attraverso contatti amicali e suggerimenti della comunità di artisti locali chiamata Mellow, impegnata in questo periodo a promuovere attività culturali per raccogliere fondi col fine di distribuire teloni alle famiglie colpite dalle calamità.

Bashayer Hammad

Bashayer Hammad ha 31 anni, è insegnante d’inglese in una scuola d’infanzia. Si interessa di filosofia, arte, giornalismo ma anche di musica e scrittura. In particolare, ha una passione per la lingua inglese: “le parole e il loro utilizzo mi affascinano molto, spiegarle ai bambini cui insegno mi appassiona. Gestisco un blog e un canale YouTube dove carico i miei reportage dedicati agli eventi che si svolgono in città”. In passato ha gestito l’organizzazione di un evento TedX a Madani, coordinando diverse persone per la realizzazione di una puntata web con interventi sul problem solving, l’iniziativa imprenditoriale, la libertà d’espressione personale.

“L’ultima mia pubblicazione su YouTube parlava di un concerto organizzato per raccogliere fondi col fine di comprare teloni per ripararsi dalle forti piogge. Le band musicali che hanno partecipato sono molto popolari e talentuose; è stato un momento importante in quanto era da lungo tempo che non potevamo esprimerci liberamente a causa del regime. L’arte era un vero tabù. Abbiamo sofferto per molto tempo. Fino a poco tempo fa, tutto ciò che proveniva da fuori il nostro Paese era considerato troppo ‘libertino’, dunque proibito. Il livello di coscienza comunitario è ora notevole: le persone non vogliono più andarsene, le stesse che hanno partecipato con passione e rabbia alle dimostrazioni a partire da dicembre 2018. In particolare, il sit-in di fronte le Forze Armate è stato un momento chiave. Abbiamo vissuto un piccolo Sudan alternativo ove tutti si accettavano vicendevolmente per ciò che erano. Sin dalla prima dimostrazione a Khartoum, abbiamo sopportato il lancio di lacrimogeni, gambizzazioni dei dimostranti, attacchi e pestaggi. Nonostante ciò, siamo rimasti uniti a dimostrare. Ricordo che in un’occasione ci siamo dovuti prima nascondere tra i bivacchi dei rifugiati dal Sud Sudan – molto solidali con noi –  poi in una casa lì vicino, prima d’essere forzati ad uscire in strada ed essere picchiati con dei bastoni di ferro. Ho avuto lividi per giorni. Sono stata insultata, umiliata, e so che altre donne hanno subito violenze fisiche. Era una vera e propria war zone”.

Partecipando a diverse manifestazioni, il senso comunitario è divenuto più forte, nuove energie sono emerse tra i manifestanti. “A partire da quell’esperienza, oggi voglio continuare a scrivere  per far scoprire e riscoprire il Sudan, fare la reporter professionista, essere un’influencer dedita ad aiutare la mia comunità ad evolvere, crescere con un senso di giustizia ed equità. Lo ritengo molto importante poiché ho direttamente sperimentato il razzismo durante l’adolescenza. Sono infatti nata e cresciuta in Arabia Saudita, ove tratti fisici più ‘africani’ come il colore scuro della pelle e le narici larghe erano considerate brutte, se non inferiori: il regime affermava infatti che gli arabi erano superiori, arrivando a dire ‘non vogliamo sacchi neri per la spazzatura nel nostro Paese”. Si riferiva ovviamente a tutti i cittadini con questi tratti somatici. Ciò ha creato un senso d’inferiorità o il tentativo di cambiare, rinnegare le proprie origini in molte persone”.

L’impegno politico e l’esperienza personale sono il punto di partenza per un cambiamento sociale. “Per questa ragione, vorrei aiutare gli altri ad affrontare questa dolorosa paura, questo pessimismo, per essere invece più aperti e pronti ad imparare ad accettarsi. Questo è ciò che ho saputo fare col tempo. Quando ero un’adolescente i miei capelli in stile afro non mi piacevano, molte persone mi prendevano in giro; sono arrivata anche a tagliarli a zero per imparare ad accettare me stessa, così come ero, persino senza capelli. Una scelta difficile, poco popolare, ribelle, ma coraggiosa. Ho dimostrato a me stessa e agli altri che il problema risiedeva nello sguardo e nella mente di chi mi giudicava, non in me. Vorrei incoraggiare altre ragazze a vincere questa battaglia, a lasciarsi alle spalle queste paure, questi giudizi, per fare spazio a nuove idee rimpiazzando visioni obsolete. Oggi i miei capelli – dread, con estensioni artificiali – sono per l’appunto specchio della mia eredità culturale africana, a cui mi sento connessa; ma anche i miei orecchini di tradizione sudanese, i miei vestiti sono espressione di me stessa. Una nuova forma di libertà personale al servizio della mia comunità”.

Anda

Anda ha 21 anni, vive ad Omdurman dove studia Rural Development presso la Ahfad University. Lavora come trainer di lingua inglese tenendo corsi per migliorare capacità di comunicazione e leadership presso un’associazione sudanese che offre sostegno, opportunità e borse di studio a rifugiati presenti nel Paese. “Vorrei aiutare queste persone a superare le loro difficoltà di apprendimento, soprattutto per chi non parla inglese, un grande ostacolo per il loro futuro. Collaboro anche con il ministero della Giustizia organizzando training su discorso pubblico e comunicazione attraverso classi di conversazione. Ho iniziato a studiare Inglese in una scuola privata britannica, ma già a 16 anni ho cercato e trovato un’opportunità su Internet per studiare all’estero. In realtà avevo già applicato l’anno precedente, ma ero troppo piccola per quel programma. Ho riprovato l’anno seguente, senza scoraggiarmi, vincendo la posizione di studio in Armenia nell’ambito del programma UWC (United World Colleges)”.

Dopo aver visitato con la sua famiglia l’Uganda e l’Egitto, ha iniziato a coltivare l’idea di studiare all’estero, fare volontariato, seguire corsi per migliorare la sua preparazione. “Fu però un’amica di mia madre a dirmi che la mia personalità era adatta ad un programma di studio internazionale. Così inviai l’applicazione. Fummo scelti solo in 6 su 250 candidati. Fu la mia prima opportunità di venire in diretto contatto con studenti di differenti nazionalità”.

L’esperienza della rivoluzione le ha dato molta fiducia. In febbraio e marzo ha partecipato, con molte altre giovani studentesse, alle proteste presso l’università femminile Ahfad. “Le donne hanno avuto un ruolo molto importante come madri, sorelle, amiche. Nessuno si aspettava la loro partecipazione attiva, non solo per contenuto di idee ma anche nel numero di partecipanti. Siamo state molto coraggiose. Ci sono diversi esempi positivi che possiamo ricordare in questa rivoluzione: la donna che ha ributtato verso la polizia un gas lacrimogeno o Lady Kandaka… ce ne sarebbero molti altri. Quest’ultima ragazza è stata fortunata, è divenuta un esempio attraverso il quale molte informazioni sono giunte fuori dal Sudan. Molte donne hanno partecipato attivamente, senza che nessuno ‘rubasse la scena’ a fini personali. Durante il sit-in diversi Paesi africani si sono dimostrati solidali alla nostra causa: creare un ‘Nuovo Sudan‘, quello che tutti vogliamo”.

Anche per lei il sit-in ha significato pace, giustizia, uguaglianza, qualità di rapporti umani. “Ricordo di aver dormito a terra, condividendo lo stesso cibo con i presenti, senza dare importanza a chi fossero o da dove venissero. Ho avuto la possibilità di esprimermi come artista eseguendo diversi stili, spesso in duetto. Abbiamo curato eventi di live painting nel quadro di notti culturali organizzate per sostenere la nostra causa. Durante il sit-in ho sviluppato molte capacità artistiche. Se all’inizio eravamo spaventati, ora non ci nascondiamo più né abbiamo paura di essere puniti. Credo che dobbiamo cominciare il cambiamento in noi stessi, dalle piccole cose. Posso definirmi, in questo senso, un’influencer per altre persone, capace di dare consigli per un cambio in positivo di tutta la comunità”.

C’è una storia personale nascosta dietro al grande quadro colorato poggiato alle nostre spalle, raffigurante una donna di profilo su sfondo vivace, a decoro del piccolo palco adibito per i concerti e le jam session. “Ahmed, un amico pittore, mi ha rappresentata in questo quadro poiché voleva tornare a dipingere ritratti. Su questo palco suono anche il basso elettrico. Mio padre è musicista e compositore, suona il flauto in orchestra; per questa ragione ho incominciato molto presto a suonare prima il violino e poi la chitarra alla scuola primaria. All’Università ho iniziato con la batteria, ma c’erano troppi studenti interessati a questo strumento. Così ho provato il basso, con cui ho suonato principalmente musica reggae”. L’arte è, ancora una volta, veicolo d’espressione personale. “Mi sento libera quando faccio arte, in modo onesto. Questa è la ragione per cui durante la rivoluzione sono state scritte numerose canzoni che persino i ragazzini a scuola hanno imparato e cantato: erano sincere, genuine”.

Riflettendo sulle sue origini familiari, aggiunge “mia madre è un avvocato che ha lavorato in un’organizzazione chiusa dal Governo durante il regime poiché interessata a dare supporto alla gente proveniente dal Darfur. Per questa ragione fu arrestata. Nove giorni di torture fisiche e psicologiche, con minacce alla nostra famiglia. Era il 2016, anno in cui queste attività per il sociale non erano accettate. Da quell’esperienza è nato il mio interesse per le ONG e le organizzazioni attive nella mia comunità”. Riguardo il suo futuro, le possibilità prese in considerazione sono molte. “Ora voglio laurearmi. Successivamente, studiare all’estero, magari in Giappone – mi affascina molto! – o in Australia, o in un Paese francofono poiché amo la lingua. Voglio sviluppare le mie capacità comunicative, creare una discussione attiva sul Sudan, finalmente aperto al mondo. Voglio uscire da questo contesto, per poi ritornare e dare il mio aiuto”.

Sahar Arraweh

Incontro Sahar in un ristorante libanese del mio quartiere. Fuma narghilé, che condividiamo accompagnato da un succo di frutta (nel Paese ogni bevanda alcolica è ancora totalmente proibita). Fino a qualche tempo fa – e ancora nella maggioranza dei posti – fumare in pubblico non era ben visto tra gli uomini, assolutamente vietato per le donne, anche se straniere e non musulmane. Un piccolo segnale di cambiamento, uno dei tanti disseminati tra i dettagli della vita quotidiana a Khartoum.

Sahar Arraweh ha 32 anni. Dopo che la sua famiglia si è spostata a Londra nel 2005, ove  ha vissuto e lavorato per diversi anni, ha deciso di tornare in Sudan nel dicembre 2017. “La mia è una famiglia di dottori. Ho studiato medicina in Arabia Saudita e in Gran Bretagna, ove ho fatto sette anni di pratica. Ho deciso di cambiare percorso il mio ultimo giorno in ospedale, il 1 agosto 2017. Ho iniziato corsi di fotografia e moda a Londra, poi ho deciso di tornare. C’era qualcosa che mi chiamava, non è stato pianificato”.

Si occupa di arti visive, pittura, fotografia e moda cercando di ritrovare una connessione con il Sudan e la sua espressione artistica personale. “Ci sono moltissimi artisti in Sudan. Non sono affatto apparsi di recente: sono sempre stati qui, nascosti poiché oppressi dal regime. Mi sono riconnessa con me stessa tornando alla mia terra. Non è stato facile, ma ho voluto ricominciare da zero. Questo è il momento giusto per fare arte e credere in noi stessi. Ci sono nuove opportunità per gli artisti: decorare case private, locali, vendere opere, suonare… tutto questo fermento già c’era, ma era sotterraneo”.

L’esperienza migratoria ha segnato le sue scelte di vita. “In Arabia Saudita vivevamo in un quartiere con altri stranieri. Non mi sono mai sentita a casa durante la mia infanzia e prima adolescenza in quel luogo. Londra è una grande città, totalmente diversa dai contesti precedentemente conosciuti. Ci ho vissuto sentendomi sudanese, ma anche araba, africana, ‘expat’. Anche i miei abiti erano diversi dall’ordinario. Dopo la rivoluzione, anche qui in Sudan persone con diversi background e stili hanno potuto trovare spazio d’espressione. Tutti abbiamo bisogno e meritiamo un senso d’appartenenza. Tuttavia, possiamo appartenere a diversi gruppi allo stesso tempo: non c’è alcun problema. Il mio conflitto personale ha inizialmente riguardato la mia origine africana e l’influenza araba. Derivava da ciò che ci hanno detto da bambini sulla supposta superiorità e bellezza degli arabi, accompagnato da termini dispregiativi come “schiavo”, “pigro”.

Il suo contatto con i media di altri Paesi arabi ci da un’idea della manipolazione messa in atto durante le proteste in Sudan. “In quei mesi di rivoluzione ricordo d’aver visto numerosi programmi comici fare scherno delle nostre proteste anche nell’ultimo periodo di Ramadan [periodo immediatamente precedente il massacro al sit-in del 3 giugno 2019, NdA]. Molti Paesi arabi ci deridevano. In particolare, ricordo lo sketch di una donna sudanese di colore, ubriaca a bordo di un bus locale. Dicevano ogni genere di menzogna su quello che stava accadendo in Sudan. Volevano farci apparire patetici, inferiori. Ma ora le cose stanno cambiando tra le nuove generazioni”.

La tendenza a riscoprire gli anni precedenti il regime di Bashir e il periodo coloniale inglese come un passato migliore, quasi romantico, ricordato dai suoi genitori è fortemente messo in discussione. “Il controllo britannico era organizzato ma affatto gentile, seppur efficace. C’erano molti problemi anche all’epoca! Ci hanno derubato, questo è un fatto storico. Non era per nulla migliore. Potevamo forse ‘respirare di più’, ma vigeva sempre un’oppressione. A quel tempo il Sudan era in progresso, è vero, e dobbiamo di certo guardare indietro alla nostra Storia. Tuttavia, ora dobbiamo andare avanti. Non possiamo rimanere bloccati”. Le differenze tra nuove e vecchie generazioni è evidente. “Mio papà ci mostrava le foto del Sudan, quello stesso Paese che decise di lasciare con l’arrivo di Bashir definendolo una ‘lost cause’. I miei genitori hanno ancora quella visione romantica. Ma anche i miei compagni di Università mi chiedevano perché volessi tornare in Sudan e lasciare Londra. Ho cambiato idea e sono tornata poiché penso ci stiamo finalmente muovendo ad un livello superiore”.

La sua presenza alle dimostrazioni ha segnato un cambiamento personale molto forte. “Ho partecipato per una settimana intera alle proteste nella zona del sit-in chiamata Mastaba. Lì ho fatto il mio primo dipinto murale, che non ho purtroppo avuto tempo di finire. Tutto si è fermato al massacro del 3 di giugno. Rappresentava diverse tipologie di donne da diversi angoli del Sudan. “Vorrei tornare a finirlo, per principio, anche se in precedenza ho pensato fosse inutile. Il tema di quell’opera era rappresentare la ricchezza culturale del mio Paese. Volevo documentare, dando un nome femminile comune di quelle specifiche zone, le differenze presenti in questo Paese. Ogni personaggio aveva la sua storia. Per esempio, la donna proveniente dal Kordofan si chiamava Zeinab e portava i vestiti tipici di quell’area”.

La ricerca artistica e personale diviene anche occasione per fare ricerca, viaggiando, sul territorio e la sua storia. “Credo ci sia un legame importante tra moda e cultura. Il mio progetto è scrivere una sorta di manuale su uomini e donne del Sudan, catalogando tutte queste differenze. Mi piace scoprire e capire il perché di ciò che sto indagando, raccontare storie”.

Il suo punto di vista esterno permette ancora una volta un fruttuoso confronto. Il Governo non si interessa della nostra ricchezza storica e culturale. Ricordo di aver visitato il British Museum di Londra e d’aver visto alcuni reperti dal Sudan. Mi sono chiesta perché nessuno se ne prenda cura nel mio Paese. Se conosci la tua Storia, puoi prenderti cura di te, della tua comunità e del tuo futuro. In seguito, durante una visita in Sudan, ho persino incontrato dei ladri che volevano vendermi dell’oro saccheggiato in alcune tombe”. Il turismo sarà una nuova opportunità di apertura verso il mondo. “A mio avviso è una priorità dei prossimi anni, l’occasione giusta per uscire da quella bolla isolazionista impostaci per trent’anni.”.

Il confronto con i coetanei che sono rimasti in Sudan e hanno vissuto esperienze totalmente differenti è spunto di riflessione e confronto. “Tornare è stato un modo di restituire qualcosa al mio Paese con occhi nuovi, diversi. Tuttavia, ho anche incontrato qualcuno che mi ha chiesto – quasi con rabbia – perché fossi tornata, dal momento che molti cercano di lasciare il Sudan. I due punti di vista erano così diversi che non v’era apparente soluzione. Allo stesso tempo, proponendo progetti e prendendo l’iniziativa, ho notato che quelle stesse persone cambiavano la loro percezione e si dimostravano più aperte poiché vedevano un’opportunità. Io vedo il Sudan come una Terra Promessa. In questo momento si possono prendere in prestito idee dai paesi limitrofi, svilupparle e riadattarle. Credo che il problema reale sia questa mentalità diffusa, una sorta di blocco e sfiducia profonda che proviene dal passato: ovvero, credere che qualcosa di nuovo non può funzionare”.

Il ruolo dell’arte e degli artisti è, in questo senso, un prezioso punto di riferimento. “Si tratta d’esprimere sentimenti, dare speranza attraverso chi, vivendo all’estero, è stato privilegiato. Dobbiamo aiutare, condividere e farci voce di chi non ha voce”. V’è qualcosa di ricorrente che unisce la cultura locale a tutte queste personalità. “Il senso di comunità è sempre presente tra i sudanesi, ovunque siano. Anche se ho vissuto all’estero gran parte della mia vita, anche se questo Paese rimane una ‘causa persa’ per mio padre o un luogo pericoloso per mia madre, per me questo sentimento comunitario rimane. Dopo il massacro al sit-in sono stata in Kenya per un breve periodo, ma ho continuato a sentire il bisogno di tornare, partecipare, essere presente”.

Le radici di questo legame sono profonde e lontane nel tempo. “Quando avevo dieci anni realizzai per la prima volta che volevo tornare. Mia madre mi fece ascoltare una canzone di un autore popolare classico, Mohamed Werdi. In quel testo citava un ‘uccello migratore che tornava al suo nido‘. In un’altra canzone, molto popolare durante i mesi delle proteste, parlava del ‘fuoco dello spirito rivoluzionario‘”.

La cultura sudanese e la moda, le sue passioni personali, vogliono trovare espressione con ritrovato ottimismo. “I prossimi anni saranno fantastici, anche se non sappiamo cosa accadrà. Abbiamo cercato di non ripetere gli errori delle proteste in Egitto. Abbiamo ricevuto molti consigli da attivisti politici, che insistevano sul fatto di non mollare fino a che non avessimo ottenuto cosa volevamo”. Non mancavano le posizioni più ciniche e disincantate. Molte persone erano scettiche riguardo i possibili risultati delle proteste. Dicevano: ‘cosa pensano di ottenere questi ragazzini?’. Tuttavia, ora anche le vecchie generazioni hanno iniziato a cambiare idea. Iniziano a dire: ‘I vostri ragazzi hanno fatto quello che noi non abbiamo saputo fare’. Spero che questi risultati influenzino e si diffondano in altri paesi. Siamo pronti per la democrazia, stiamo cambiando mentalità”.

Il futuro è aperto. “Sono tornata al momento giusto. Non rimpiango un solo secondo passato in Sudan. Mi sento orgogliosa della resilienza del nostro popolo. Nessuno si aspettava così tanta gente alle manifestazioni. Tutti erano pronti a morire, se necessario. Ora, è tempo di raccolta. Riprendiamoci il nostro Sudan! ”
Get Sudan again!

Michele Pasquale

Laureatosi presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi in antropologia visiva ed etnologia dell’Africa, ha fatto ricerca e creato foto e video reportage negli USA, Ruanda, Brasile, Guinea Conakry, Senegal, Indonesia, Colombia, Mongolia, Balcani Occidentali, Bolivia, Haiti e Sudan.

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