Filippine, la violenza di Duterte contro droga e prostituzione
[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Sharmila Parmanand pubblicato su openDemocracy]
“In passato, avrei persino mortificato gli sbirri che cercavano di estorcermi i soldi. Gli avrei chiesto se si sentissero orgogliosi di prendere il denaro del latte di mio figlio”, ha spiegato Maria, una prostituta di Metro Manila, quando le è stato chiesto di descrivere il suo mutato atteggiamento nel rapporto con la polizia. “Li avrei derisi per il loro essere così codardi da dare la caccia a noi donne indifese e non ai veri criminali. Alcuni di loro ci avrebbero lasciato in pace dopo. Ma ora le cose sono cambiate. Non reagiamo. Siamo troppo spaventate“.
Il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel 2016 con ampio margine, ha intrapreso un programma per salvare le Filippine dalla cosiddetta “crisi della droga”. Da allora ha di fatto incoraggiato la polizia a perseguire aggressivamente e persino assassinare i presunti tossicodipendenti e i loro spacciatori. La maggior parte delle vittime rimaste uccise senza neanche essere processate (secondo le stime della polizia circa 5000), provenivano da comunità a basso reddito. Queste morti sono state ampiamente documentate e criticate. Tuttavia, esse non rappresentano l’unica conseguenza negativa della politica di Duterte. Anche le prostitute sono rimaste eccessivamente lese dalla campagna antidroga del presidente poiché questa guerra alla droga non ha fatto altro che incrementare il loro stato di precarietà pregressa all’interno della società del Paese.
La precarietà parte dalle leggi
Il fatto che il fenomeno della prostituzione nelle Filippine sia regolato da un insieme confuso di leggi rende le prostitute vulnerabili alle violenze. Il Revised Penal Code [NdT Codice Penale Rivisto], adottato nel 1930, considera le donne che vendono sesso come criminali che meriterebbero la multa o la prigione. Ciò viene poi in parte contraddetto dalla legge anti-tratta delle persone introdotta nel Paese nel 2003, che definisce le forme di traffico di esseri umani quali la prostituzione come un modo per approfittarsi della vulnerabilità degli individui ai fini dello sfruttamento. Questo va anche contro la Magna Carta delle donne del 2010 che identifica la prostituzione come un atto di violenza contro le donne da cui quest’ultime dovrebbero essere tutelate.
I poliziotti corrotti hanno spesso abusato del limbo giuridico in materia di prostituzione. Nelle interviste, le prostitute hanno riferito di aver subìto incursioni da parte della polizia che ha impiegato la politica anti-tratta come copertura per estorcere denaro a queste donne, ai loro clienti e ai proprietari di locali commerciali del sesso. Queste accuse di incursioni finte e casuali sono inoltre attestate dai Rapporti sulla tratta di persone pubblicati negli anni 2010, 2017 e 2018 e presenti nella sezione filippina del Dipartimento di Stato americano, ma anche da un rapporto delle Nazioni Unite sulla prostituzione e sulle leggi che la regolano in Asia e nei Paesi del Pacifico.
In questa guerra alla droga, che ha visto la polizia abusare del proprio potere e controllo sui cittadini, le prostitute vivono in una condizione più precaria che mai. Così la sola percezione che le prostitute facciano uso di droghe è un’arma facilmente utilizzata contro di loro. La maggior parte delle 50 prostitute intervistate hanno ricevuto intimidazioni da parte della polizia che le minacciava di nasconderle droga addosso qualora non avessero pagato la tangente o non avessero ceduto alle loro richieste sessuali.
Gina, ad esempio, è stata portata in commissariato, le hanno confiscato il cellulare ed è stata minacciata di accuse per falso spaccio di stupefacenti. L’hanno fatta ballare e poi un poliziotto l’ha portata in bagno dove è stata violentata. “Non sono riuscita a difendermi“, ha detto. “A nessuno importa dei poveri tossici che muoiono, tanto meno se si tratta di prostitute, presumibilmente tossiche“. Molte altre si sono lamentate della perdita dei clienti e delle entrate. Infatti, per non correre il rischio di rimanere uccisi o di farsi estorcere denaro, i clienti abituali stanno alla larga dai locali e dai bordelli in cui spesso si verificano i blitz antidroga. Ovviamente, i clienti che sono anche dei poliziotti rimangono sempre nei paraggi.
Stigmatizzazione armata
È inoltre tremendamente prevedibile come una tale guerra violenta alla droga e l’ampliamento dei poteri della polizia possano creare scompiglio all’interno di comunità già stigmatizzate. “Le prostitute sono già facilmente viste come le prime sospettate”, ha dichiarato una leader del collettivo di prostitute nelle Filippine. Ha poi continuato “per la polizia e per la gente non è difficile credere che non siamo solo delle tossiche ma anche delle collaboratrici degli spacciatori. Se credono che sia facile per noi vendere il nostro corpo, perché non pensare che possiamo fare lo stesso con la droga?“. Le prostitute sono anche vittime di omicidi extragiudiziali, ma di questo si è parlato davvero poco. “Le nostre colleghe sono troppo spaventate per opporsi alla polizia” ha affermato un’altra leader del collettivo, “e così le famiglie delle vittime non indagano sul caso in quanto non vogliono che sia reso pubblico che la loro figlia fosse una prostituta“.
Molte delle persone intervistate se la cavano pagando delle tangenti più alte. Rosa, ad esempio, si reca ogni settimana alla stazione di polizia per pagare di persona la tangente ed evitare così i rischi di molestie. Altre tentano anche di farsi vedere il meno possibile mentre adescano i clienti, anche se questo si ripercuote sui loro guadagni e costringe le donne a lavorare in zone meno sicure. Diverse prostitute che erano abituate a lavorare in maniera indipendente, ora si stanno affidando sempre più a terzi, che grazie ai loro legami con la polizia, sono in grado di offrire loro protezione.
Alcune prostitute affermano di essere meno propense ad ammettere agli operatori sanitari statali la loro tossicodipendenza per paura che le loro informazioni private vengano trasmesse alla polizia. Ma alcune, positive al test dell’HIV, sono state costrette a rivelare la loro condizione alle forze dell’ordine per paura di essere uccise nel caso in cui, facendo un test antidroga obbligatorio, risultassero positive a causa delle sostanze contenute nei farmaci assunti per il virus.
La guerra alla droga non solo ha colpito le attuali prostitute rendendo più difficile la possibilità di uscirne, ma ha anche spinto altre donne a prostituirsi. Cinque di quelle intervistate hanno perso il loro compagno in omicidi extragiudiziali. “La polizia ha fatto irruzione in casa nostra e ci ha chiesto di fornire i nomi degli spacciatori, ma noi non ne conoscevamo nemmeno uno” ha raccontato Rita. “Mi hanno messa dentro per sei mesi mentre ero incinta e hanno portato mio marito a casa dove l’hanno ammazzato“. Rita è una delle due donne che hanno iniziato a prostituirsi dopo l’uccisione dei mariti, per riuscire a sfamare i propri figli. Le altre tre invece, dopo la morte dei loro compagni, hanno dovuto farlo con maggiore frequenza.
Dal 2016, il collettivo che le riunisce ha cambiato la propria strategia passando da un programma che prevedeva una maggiore difesa dei diritti a un piano di sopravvivenza di base che fornisce un sostegno minimo alle prostitute che rischiano di subire violenza o di contrarre l’HIV. Queste storie mettono in evidenza i costi segreti della guerra alla droga e smascherano i poteri esercitati dalla polizia nei confronti della prostituzione nelle Filippine. Inoltre, queste testimonianze sottolineano il bisogno di queste donne di rivestire un ruolo fondamentale nell’elaborare politiche che riguardano le loro stesse vite.