2 Novembre 2024

ISIS, la controversa politica dei rimpatri in Asia Centrale

[Traduzione a cura di Davide Galati dall’articolo originale di Edward Lemon pubblicato su openDemocracy]

Nata da genitori di fede cristiana ortodossa in Kazakistan, Zarina si è convertita all’Islam all’età di 17 anni. Dopo dodici mesi, nel 2013, ha conosciuto online un uomo che aveva 21 anni più di lei. Zarina si è trasferita poco dopo in Turchia per sposarlo. La coppia ha attraversato quindi il confine siriano, dove si è unita alle forze dello Stato Islamico. Dopo sei anni, Zarina, stanca del conflitto, è fuggita nel campo di Al-Hol nel Nord della Siria, dove circa 12.000 donne e bambini di 40 nazioni sono bloccati in attesa del trasferimento a casa o in un Paese terzo. Il 9 maggio di quest’anno Zarina è stata rimpatriata in Kazakistan attraverso un volo speciale organizzato dal Governo nell’ambito di una serie di attività chiamate Operazione Zhusan. Zarina è ora in un centro di riabilitazione ad Aktau, nel Kazakistan occidentale.

La storia di Zarina non è insolita. Si stima che tra il 2011 e il 2018 un numero di cittadini dell’Asia Centrale compreso tra 2.000 e 5.000 si siano trasferiti in Siria e in Iraq. Alcuni si sono sposati e hanno avuto lì dei figli. Altri ci sono andati con le loro famiglie, facendo nascere altri bambini in Siria e in Iraq.

Ma quando i gruppi armati, incluso lo Stato Islamico in Siria e Iraq, hanno perso il loro territorio, i combattenti sopravvissuti e le loro famiglie sono finiti in Iraq o sotto la custodia delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione di diversi gruppi armati tra cui le Unità di protezione del popolo curdo (YPG). Molti rifugiati, molti dei quali minori, mancano di documentazione che confermi la loro cittadinanza.

L’esistenza di questi rifugiati ha scatenato un intenso dibattito sulle responsabilità degli Stati di origine nei confronti di chi si era recato in Siria o in Iraq per impegnarsi nel conflitto o comunque per sostenere le violenze.

Le risposte sono state varie, e vanno dagli sforzi non troppo convinti a favore del rimpatrio fino, al contrario, alla revoca della cittadinanza. All’inizio di quest’anno, il ministero dell’Interno britannico ha revocato la cittadinanza a Shamima Begum, 19 anni, sostenitrice dello Stato Islamico. La Danimarca ha anch’essa reagito privando alcuni suoi cittadini della loro nazionalità. La Francia sta adottando un approccio “caso per caso” ai familiari di combattenti stranieri, rimpatriando 12 orfani lo scorso giugno. L’amministrazione Trump negli Stati Uniti, che ha esortato i governi europei a riprendersi i cittadini in attesa di ricollocazione, ha rimpatriato dalla Siria 13 donne e bambini dal 2018.

Eppure in Asia Centrale, dove i Governi hanno cercato di usare essi stessi misure estremiste come strumenti per eliminare gli oppositori, stanno prendendo piede alcuni degli sforzi meglio concertati per rimpatriare i cittadini.

Piani statali per il rimpatrio

Il Tagikistan è stato il primo Paese ad affrontare il problema, annunciando nel 2015 un’amnistia per i cittadini che si erano pentiti ed erano ritornati volontariamente. Oltre 300 persone hanno approfittato di questa misura.

Il Governo tagiko ha adottato un approccio non vincolante, affidandosi ai membri della famiglia per persuadere, e pagare, i loro parenti al fine di tornare a casa. Dopo il loro ritorno, non tutti sono rimasti in Tagikistan. Un funzionario della regione settentrionale di Sughd ha dichiarato l’anno scorso che oltre 30 cittadini perdonati si sono ricongiunti di nuovo allo Stato Islamico. Più recentemente, il Governo è intervenuto direttamente, facilitando il ritorno di 84 bambini dall’Iraq.


Rimpatriati dalla Siria al Kazakistan, maggio 2019. Fonte: National Security Committee, Kazakistan

Negli ultimi mesi, il Governo del Kazakistan è stato il più proattivo, dedicando particolare attenzione a donne e bambini. In tre fasi dell’Operazione Zhusan tra gennaio e maggio del 2019, il Governo kazako ha restituito 524 individui, di cui 357 bambini, 137 donne e 30 uomini. Un video accompagnato da musica drammatica, inviato al Comitato per la sicurezza nazionale (KNB), mostra i rimpatriati mentre arrivano su una pista di atterraggio in Kazakistan. Nei due anni precedenti, erano tornati duecento cittadini.

L’Uzbekistan ha ricondotto a casa oltre 156 cittadini. Il Paese probabilmente più aperto della regione, il Kirghizistan, dal quale si stima che 850 cittadini siano andati in Siria e in Iraq, deve ancora formulare una politica sul rimpatrio, anche se è in corso una discussione da parte del Governo.

Sebbene questi sforzi siano lodevoli e mostrino una maggiore propensione al perdono rispetto a molte democrazie liberali, resta poco chiaro cosa i Governi dell’Asia Centrale stiano programmando di fare con i rimpatriati, molti dei quali saranno stati traumatizzati dalle devastazioni della guerra, mentre alcuni di loro non hanno neppure mai messo piede nei loro Paesi di origine. Alcuni rimpatriati dal Tagikistan hanno rilasciato interviste presso media e università, nel tentativo di dissipare i miti su come fosse la vita nel “Califfato”. I beneficiati dall’amnistia sono tornati alle loro case, anche se rimangono sotto stretto controllo dei servizi di sicurezza. Nessun programma di riabilitazione risulta esistere.

“Curare” l’estremismo

I Governi dell’Asia Centrale spesso inquadrano l’estremismo come una malattia o un disturbo che può essere curato esclusivamente attraverso “correzioni psicologiche“, inclusa l’esposizione al “vero” Islam. Gli estremisti possono essere identificati, si pensa, dal modo in cui si vestono e dal loro rifiuto delle norme sociali. Ma se si vestono e si comportano “normalmente”, così funziona la logica – mandando i loro figli a scuola, guardando la televisione e trovando un lavoro, e non adottando un aspetto esteriore islamista, come indossare la barba o lo hijab – tutto ciò dovrebbe fornire i migliori indicatori che questi soggetti si sono de-radicalizzati. I governi dell’Asia Centrale stanno adottando questo approccio fuorviante per riabilitare i rimpatriati.

Il Kazakistan afferma di avere un piano più rigoroso. I funzionari governativi hanno dichiarato che sono stati istituiti dieci centri di riabilitazione in tutto il Paese. In un luogo ad Aktau, i bambini trascorrono due mesi con psicologi ed esperti religiosi dell’Amministrazione spirituale dei musulmani prima di tornare alle loro famiglie. Due video pubblicati sul sito web del KNB mostrano madri e bambini nei centri di riabilitazione che esprimono il loro rimorso, disegnano e giocano all’esterno. “I bambini non sono colpevoli. Non dovrebbero pagare per i crimini dei loro genitori“, sostiene Lola Shakimova, psicologa presso l’Accademia KNB, nel video. Il Governo uzbeko sostiene inoltre di offrire una serie di servizi sociali ai rimpatriati, compreso l’accesso all’alloggio, all’assistenza sanitaria e al sostegno psicologico.

Le operazioni di rimpatrio e di riabilitazione hanno coinvolto soprattutto donne e bambini. Questo aspetto di genere delle politiche di rimpatrio, secondo cui donne e bambini erano innocenti spettatori e gli uomini erano quelli che prendevano tutte le decisioni, rientra nella più ampia dinamica del patriarcato nella regione.

Sia nel contesto rurale che in quello urbano, l’uomo è di solito quello che “porta la pagnotta a casa”, e come capofamiglia prende le decisioni chiave. L’accettazione diffusa che donne e bambini abbiano avuto un ruolo più passivo nel conflitto rende più probabile che la società li accetti come rimpatriati. In realtà molti di loro, come Zarina, sono arrivati nei campi profughi solo dopo la caduta dell’ultima roccaforte di Baguz, nella parte orientale della Siria, in marzo, ovvero hanno abbandonato il “Califfato” solo quando sono stati costretti a farlo. Questo mina l’idea che si siano pentiti e può rendere meno propense le società ad accettarli.

Il Kazakistan ha una certa esperienza nel cercare di integrare i sospettati di terrorismo. Nel 2014 ha accettato cinque cittadini stranieri che erano stati detenuti a Guantanamo in un programma finanziato dal Comitato internazionale della Croce Rossa. Non è stato tuttavia intrapreso alcuno sforzo sistematico di integrazione. Questi soggetti sono ancora nell’ombra dei servizi di sicurezza e non possono lasciare la città che li ospita, Semey, nel nord-est del Kazakistan.

L’Asia Centrale potrebbe anche guardare alla Cina, dove oltre un milione di musulmani sono detenuti in campi di “rieducazione” per correggere il comportamento dei cosiddetti “estremisti” attraverso un rigoroso programma di lezioni di mandarino e di religione, e di indottrinamento nell’ideologia del partito.

Approcci sbagliati

Uno psicologo operante presso un centro di riabilitazione ad Aktau, in Kazakistan, sostiene che “il colore dei loro vestiti è cambiato. Hanno rimosso tutti i niqab. Ora sono contriti e si scusano sinceramente con la società per le loro azioni“. Ma se il supporto psicologico è essenziale per aiutare i rimpatriati a fronteggiare le loro esperienze traumatiche in Medio Oriente, l’idea che la “correzione psicologica” da sola possa garantire che i rimpatriati non si impegnino in nuove violenze e che non si rechino in altre zone di conflitto è fuorviante.

La nozione che il semplice cambiamento dell’aspetto indichi una trasformazione negli atteggiamenti e comportamenti è, nel migliore dei casi, ingenua. Nella peggiore delle ipotesi, sottovaluta la complessità dei processi che hanno motivato migliaia di asiatici a lasciare le loro case per cercarne una nuova nel “Califfato”, e le difficoltà che questi individui avranno nel tentativo di reintegrarsi nei Paesi abbandonati.

Le ricerche condotte da Noah Tucker , Anna Matveeva ed Emil Nasritdinov indicano che il reclutamento nei gruppi estremisti violenti non era solo un processo psicologico, ma anche condizionato da una serie di fattori sociali, politici ed economici. Le esperienze vissute in Asia Centrale di violenza di Stato, corruzione dilagante, secolarismo impositivo e sviluppo irregolare hanno tutte avuto un ruolo nello spingere le persone a partire per il Medioriente. In molti casi questi fattori sono stati esacerbati dalle esperienze negli spazi transnazionali di migrazione, soprattutto in Russia, dove circa cinque milioni di cittadini dell’Asia Centrale sono attivi come lavoratori migranti e dove i legami con le comunità locali possono indebolirsi.

Nessuno di questi problemi ha trovato una soluzione.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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