Uniti nella diversità. Nel tempio Bahá’i in Uganda sentire la vita

Un tempio è come un ventre. Il ventre della madre. Un ventre che ti accoglie, ti circonda e ti lascia spazio per uscire. Per volare.

Sono stata nel tempio Bahá’i. L’unico tempio del genere in Africa. L’unico tra otto sparsi nel mondo. Si trova a Kampala, sulla Kikaya Hill – una delle tante colline che formano l’architettura naturale di questa città. Un luogo dove l’umanità trova il suo spazio, la sua meta. Ho avuto la fortuna di partecipare alla cerimonia.

Una cerimonia così semplice che mai ti aspetteresti, soprattutto in Africa dove canti, danze, prediche e musica si svolgono a decibel più compatibili con l’esaltazione collettiva che con la riflessione e la preghiera interiore. Una cerimonia breve, non più di un’ora – auto amministrata, senza prete, senza altare, senza riti. Parole lette da alcuni dei presenti e tratte da differenti libri sacri – scritti di Bahá’u’lláh naturalmente, fondatore di questa religione, scritti tratti dalla Bibbia, dal Corano e poi preghiere sotto forma di canti: in persiano, arabo, luganda, kiswahili.

Il legame fra tutto questo era il silenzio. In un luogo chiuso ma aperto su nove ingressi/uscite, circondato da nove colonne, illuminato da finestre a vetri colorati (giallo, verdino, azzurrino). Un luogo senza distrazioni, senza immagini “perché l’immagine di Dio è il nostro spirito” mi ha spiegato una delle guide.

Un volontario, ce ne sono tanti che fanno questo servizio, attento ai bisogni di chi arriva ma senza invadenza, impegnato a mantenere la bellezza di questo posto dove la pace ti inonda. Dopo la cerimonia sono rimasta dentro, ho chiesto se potevo. Hanno chiuso le otto porte e lasciato aperta a metà la nona, la mia strada verso l’esterno. Solo quando e se avessi voluto. Ho recitato le mie di preghiere e poi sono rimasta ad ascoltare il silenzio.

Unità nella diversità, uguaglianza tra tutti gli esseri umani, essere a casa dovunque e con chiunque. Questi principi che sintetizzano una religione del sincretismo sono in realtà una naturale dimensione dell’essere umano. O almeno dovrebbe esserlo. Percepirsi come uguali ma con le proprie differenze, la propria peculiare bellezza. “I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche” si legge in un testo buddista (Ongi Kuden).

È la vita che unisce l’esperienza degli esseri viventi. La vita, nient’altro. Percepirla nel silenzio di un tempio Bahá’i, nella bellezza del parco immenso che lo circonda, nei canti limpidi di persone a cui ti sei unito per poco ma per sempre, vuol dire sperimentare l’unità nella diversità, la gioia profonda che non ha bisogno di schiamazzi, l’amore per il bello che può apparire in tutto ciò che guardi. Quando cominci a vederlo.

 

[Le foto sono dell’autrice dell’articolo. L’audio è uno dei canti ascoltati durante la cerimonia]

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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