Plastica, ora i Paesi poveri potrebbero rispedirla al mittente
[Traduzione a cura di Elena Rubechini dell’articolo originale di Jen Allan pubblicato su The Conversation]
Nel 2016 sono stati prodotti 242 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica e si prevede che nei prossimi trent’anni la cifra crescerà del 70%. Questi rifiuti vengono venduti e commerciati come un bene in un’industria globale che genera 200 miliardi di dollari americani all’anno.
I Paesi ricchi esportano la plastica per disfarsene. Vendendola ad aziende che poi la mandano in Paesi dove i costi per riciclare sono più bassi, si scaricano della responsabilità di dover trovare un posto in casa propria dove smaltirla. Sfortunatamente, però, la maggior parte viene spedita in Paesi che non sono adeguatamente attrezzati.
Quando vengono portati in nazioni con scarse risorse per riciclare, i rifiuti vengono semplicemente abbandonati e finiscono per inquinare la terra e il mare. Una recente decisione delle Nazioni Unite potrebbe aiutare proprio gli Stati destinatari dei rifiuti di plastica e con minori risorse da dedicare. Grazie a un trattato poco noto chiamato Convenzione di Basilea, i Paesi più poveri possono ora opporsi alla valanga di rifiuti che vengono riversati nei loro territori.
Un’ingiustizia di lunga data
La Convenzione di Basilea è stata adottata dalle Nazioni Unite nel 1989 per gestire il flusso di rifiuti tossici che i Paesi ricchi inviano a quelli poveri. Per i primi è conveniente portare i rifiuti in aree in cui i costi di riciclo sono minori e ci sono meno controlli, e tutto ciò li spinge ad approfittare del sistema.
Nel 1988 le aziende che gestivano i rifiuti in Italia finirono sui giornali per aver lasciato in un villaggio di pescatori in Nigeria rifiuti pericolosi in barili etichettati come contenenti materiali da costruzione. Il Canada rimanda da anni la decisione di riprendersi i rifiuti – inclusi pannolini – scaricati da un’azienda canadese nelle Filippine. La spazzatura marcisce sotto il sole dal 2013.
L’immagine dei rifiuti di plastica che si accumulano sulle spiagge di molti Paesi in via di sviluppo, incluse alcune tra le isole più remote del pianeta, ha portato molti Stati, dietro impulso della Norvegia, a impegnarsi perché la Convenzione di Basilea venga messa in pratica nel suo scopo originale.
Scopo delle negoziazioni, avvenute a Ginevra nel maggio scorso nel corso di oltre due settimane, era di trovare una soluzione immediata a una situazione complessa. Alcuni Paesi, come l’Argentina e gli Stati Uniti, sono stati cauti essendo loro stessi esportatori di rifiuti. Entrambi gli Stati, insieme all’industria del riciclo, hanno sottolineato che in questo modo si renderebbe più difficile riciclare in un momento storico in cui farlo è più necessario che mai. Le dichiarazioni sono andate avanti per ore e i Paesi in via di sviluppo hanno illustrato come la plastica stia insudiciando le loro terre, mari, spiagge e persino ghiacciai.
La Norvegia ha proposto di modificare la terminologia del trattato spostando molti tipi di plastica dalla categoria “non pericoloso” a rifiuti “of special concern“, “particolarmente preoccupanti “.
A partire dal 2020 i Paesi coinvolti dovranno essere informati dell’invio dei rifiuti. In questo modo potranno dare o revocare il loro consenso. Per la prima volta potranno rifiutare i carichi di plastica con il supporto delle leggi internazionali.
Un’industria del riciclo più giusta
Questa decisione si applica solo alla plastica di poco valore e difficile da riciclare. Basti pensare agli imballaggi dei cibi o alle bottigliette usa e getta: sono composti da plastiche miste (tappo, etichetta e bottiglia sono fatti con tipi di plastica diversi) e quindi difficili da riciclare. La maggior parte delle imprese di smaltimento non vuole queste plastiche perché non generano profitto e perciò le buttano nelle discariche dei Paesi poveri.
La ricerca mostra che le plastiche a basso costo rilasciano inquinanti organici persistenti nell’ambiente – un gruppo di sostanze chimiche particolarmente tossiche che viaggia nell’aria e nell’acqua per lunghe distanze, si accumula nei tessuti degli animali (incluso l’uomo) e resiste a lungo. È stato rilevato che più di 233 specie marine hanno ingerito plastica e che la spazzatura ha raggiunto i punti più profondi dell’oceano.
Il commercio globale della plastica è un elemento chiave del problema, perciò dare ai Paesi in via di sviluppo il diritto di sapere cosa entra nel proprio territorio e rifiutarne l’ingresso è una soluzione appropriata allo scarico dei rifiuti.
Nel 2018 la Cina, un tempo il più grosso importatore di plastica da riciclare, ha proibito l’importazione di plastiche a basso costo e contaminate, dislocando i rifiuti in altri Paesi. I vicini della Cina, come l’Indonesia e la Malesia, si sono fatti carico di un fardello ancora più pesante soprattutto perché Paesi come il Regno Unito continuano a esportare più di 600.000 tonnellate di plastica all’anno.
I Paesi ricchi tendono a produrre più rifiuti pro-capite e hanno sistemi di gestione dei rifiuti migliori. Se si chiudessero le rotte comode e a buon prezzo per scaricare la spazzatura, questi Paesi dovrebbero trovare il modo di costringere le aziende addette allo smaltimento ad occuparsi delle plastiche a basso costo in casa propria.
Questo accordo è solo l’inizio, ma potrebbe fornire ai Paesi più poveri una leva per rifiutare l’invasione di plastica che finisce per depositarsi sulle loro coste e col tempo potrebbe aiutare a correggere alcune delle ingiustizie che si consumano nel commercio globale dei rifiuti.
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