Per i richiedenti asilo in cerca di Europa sulla rotta dei Balcani continua a non esserci né giustizia, né solidarietà. Se da una parte alcuni Governi degli Stati europei dell’Est sono intervenuti duramente per cercare di arginare i flussi, dall’altra la geografia dei confini tra questi Paesi sta offrendo nuove soluzioni ai migranti. E compaiono, quindi, strade che prima non erano percorse e che oggi molte persone intraprendono seppure con difficoltà.
I riflettori degli ultimi tempi sono puntati su Bosnia e Croazia, nello specifico sulle città di confine Bihać e Velika Kladuša. Dalla Grecia, Bulgaria e Serbia, i migranti hanno disegnato sulla mappa una nuova deviazione verso l’Europa, che non contempla più l’Ungheria, ma introduce la via della Bosnia per entrare nell’UE attraverso il suo confine con la Croazia. Da qui, considerando che lo Stato croato non ha aderito alle norme Schengen, i migranti si avventurano in boschi e foreste per raggiungere l’Italia o la Slovenia.
La severa politica ungherese di Orban ha condizionato molto la rotta dei Balcani. Dalla prima crisi dei migranti nell’Europa dell’Est risalente al 2015, infatti, l’Ungheria ha messo in atto misure restrittive e piuttosto discutibili dal punto di vista dei diritti umani. Personale militare schierato ai confini con Serbia e Croazia, fili spinati e allestimento di zone di transito paragonabili a prigioni: queste prime risposte ungheresi sono state rafforzate dalla nuova legge sulla richiesta di asilo approvata un anno fa.
Il testo afferma l’irricevibilità delle domande di asilo di migranti provenienti da Paesi terzi dove non sono in pericolo o dove non hanno subito violenze (per esempio di siriani che hanno attraversato la Turchia o di altri che entrano in Ungheria tramite la Serbia). Non solo, la legge considera reato aiutare i profughi in qualsiasi modo. Il tentativo di Orban è quello di scoraggiare il flusso di migranti ad entrare sul suo territorio, addirittura negando cibo e cure a bambini e famiglie arrivate nelle zone di transito pattugliate dai militari.
Il risultato più evidente di questi anni di severa chiusura delle frontiere ungheresi è la nuova emergenza umanitaria ai confini con la Croazia. Più precisamente, nel cantone Una-Sana in Bosnia, dove si trovano Bihać e Velika Kladuša. Qui ormai i campi profughi sono al collasso, l’accesso al cibo è carente, l’assistenza medica e di prima sussistenza sono sempre più difficili. Per questo le autorità locali hanno già da tempo lanciato l’allarme e iniziato a ricollocare i profughi in altre località del territorio bosniaco. Alla fine del 2018 è stata anche chiamata in causa l’agenzia europea Frontex, per ottenere un sostegno logistico al confine con la Croazia, diventata ormai la frontiera più calda dell’Ue.
La Bosnia ospita circa 6500 migranti pur avendo una capacità di accoglienza di 4290 persone. Lo scorso aprile si sono registrati 2631 arrivi, in aumento rispetto ai 1800 dell’anno precedente. Il Cantone di Una-Sana è terra di approdo attraverso due rotte principali. Una – come già accennato – rappresenta un’alternativa alla tradizionale rotta balcanica attraverso la Serbia, che invece di continuare in Ungheria e/o in Croazia, si sposta ad Ovest per entrare in Bosnia-Erzegovina dopo aver attraversato il fiume Drina. A testimoniare questo viaggio, ci sono i nuovi campi di fortuna comparsi lungo il confine bosniaco, costituiti da piccoli gruppi di persone in attesa di passare il fiume. Si tratta principalmente di giovani provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan.
La seconda strada arriva direttamente dalla Grecia via Albania e Montenegro. I rifugiati lungo questa rotta incontrano pochissimi ostacoli e camminano verso il Nord della Bosnia-Erzegovina in gran parte indisturbati. Questa nuova rotta è scelta soprattutto da siriani, la maggior parte provenienti da campi greci situati vicino al confine turco.
Ad aprile 2019, il 47% degli ingressi era rappresentato da pakistani, seguiti dal 12% di migranti dal Bangladesh, 8% dall’Iran, 7% dalla Siria e dall’Afghanistan e 6% dall’Iraq. Ad arrivare sono state soprattutto famiglie con minori, che non hanno trovato sempre adeguate soluzioni di accoglienza, proprio a causa del sovraffollamento di rifugiati sul territorio bosniaco.
A determinare questo flusso incontrollato in Bosnia è anche l’atteggiamento della polizia croata ai confini. Molti, infatti, sono i migranti che, nel tentativo di raggiungere lo Stato croato, vengono violentemente respinti e rimandati in Bosnia. Il “gioco”, come viene chiamato il pericoloso attraversamento del confine bosniaco-croato dagli stessi richiedenti asilo, è diventato sinonimo di pratiche illegali.
Diverse sono le storie di soprusi da parte della polizia croata. Respingimenti collettivi vietati dalla legge, negazione della procedura di richiesta asilo, violenze fisiche sulle singole persone, privazione di cibo e assistenza medica, furti di cellulari e beni dei migranti: queste sono alcune delle ripetute illegalità compiute nei confronti di chi ha tentato di superare la frontiera bosniaco-croata. Testimonianze dirette hanno raccontato anche di ragazzi costretti a tornare indietro senza scarpe né vestiti, terrorizzati da cani e bastoni.
Le violazioni normative sono diverse ed evidenti. La Croazia non ha rispettato il divieto di espulsioni collettive sancito dall’articolo 4 del Quarto Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 19 della Carta europea dei diritti fondamentali. Anche il diritto di asilo, come convenuto nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati e nell’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non è stato preso in considerazione.
Un altro scenario di soprusi si è aperto nel cuore dell’Europa. Dopo le atrocità delle guerre degli anni ’90, questo territorio europeo sta assistendo ad una nuova escalation di illegalità. L’Unione Europea, nella sua credibilità come comunità di Stati di diritto, è chiamata ad intervenire.