La sfida dell’African style, per un mercato etico e identitario

Quando si parla di abbigliamento in Africa Occidentale, niente è lasciato al caso. Che si tratti di una camicia sgargiante, un abito colorato o una divisa scolastica, gli africani curano i loro outfit nei minimi dettagli.

Chi ha visitato un mercato africano lo sa bene: i colori e le fantasie dei tessuti inondano quello che è il centro della vita sociale dei Paesi del continente a Sud del Mediterraneo, facendosi così portatori di messaggi precisi. Il cosiddetto stile africano ha fatto molto parlare di sé negli ultimi anni, accendendo discussioni sul valore etico della moda, sul tema dell’appropriazione culturale e sull’importanza di una produzione e un consumo equo e solidale dei capi di abbigliamento.

Il mondo della moda ha iniziato a prestare maggiore attenzione alla produzione dei capi immessi nel mercato occidentale soprattutto in seguito al crollo dell’edificio Rana Plaza di Savar, in Bangladesh, incidente che, nel 2013, causò 1.129 morti. Il disastro, infatti, accese i riflettori contro le condizioni in cui la mano d’opera tessile a basso costo viene fatta lavorare da grandi aziende europee e americane: il gruppo Inditex, Primark, Benetton e El Corte Inglés, per citarne solo alcuni.

Manifestazione in seguito al crollo di Rana Plaza. Screenshot dall’account Instagram @fash_rev

Un esempio di questo impegno è Fashion Revolution, un movimento presente in quasi 100 Paesi nel mondo che si pone l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica a favore di una produzione e di un consumo responsabile dei capi d’abbigliamento. Per far sì che quest’etica prenda piede, l’organizzazione ha stilato un decalogo. Al quarto punto si legge:

La moda rispetta la cultura e l’eredità. Incoraggia, celebra e premia le capacità e l’artigianato. Riconosce la creatività come la sua più importante caratteristica. La moda non si appropria mai senza dare i necessari crediti e non ruba mai senza permesso. La moda onora gli artigiani.

Un punto, questo, che negli ultimi anni è diventato sempre più cruciale, soprattutto quando si parla di moda africana. Il continente sta facendo sentire sempre di più la propria voce nel mondo del fashion, attirando l’attenzione di nomi molto importanti dell’industria.

Un esempio di come l’Africa stia sempre più affermando la propria presenza nella moda è la Lagos Fashion Week che quest’anno ha visto protagonista l’inconfondibile falcata di Naomi Campbell. La Pantera è da anni impegnata nel dare l’importanza che meritano e far crescere i designer africani, e lo ha sottolineato proprio in questa occasione in Nigeria: “non stiamo più richiedendo la vostra attenzione, ma semmai siamo qui a dirlo a piena voce: dovete prestare attenzione a questo continente“. Parole, quelle della modella britannica, che fanno riflettere su un tema decisamente attuale quando si parla di industria della moda e Africa: l’appropriazione culturale.

Un tessuto wax africano creato in onore di Barack Obama. Da Flickr in licenza CC

Si parla di appropriazione culturale quando un oggetto, un rito o un simbolo che fa parte di una cultura specifica vengono decontestualizzati e spogliati del proprio significato originale per poi essere riadattati in un nuovo contesto. Non a caso a partire dagli anni ’90 si è venuto a creare un forte interesse attorno a quello che poi è stato definito come “African Style”, interesse che ha anche portato allo sviluppo di un’intera branca di studi. Come sottolinea la ricercatrice Ilsemargret Luttmann, nell’epoca post coloniale si è venuto a sviluppare uno stile talmente particolare tra le donne dell’Africa Occidentale da diventare identitario e iconico e, come qualsiasi cosa che raggiunge questo livello di riconoscibilità, ha iniziato a essere copiato, decontestualizzato e globalizzato.

Questa tendenza è stata ovviamente portata agli estremi dalla globalizzazione. Il mondo della moda ne ha approfittato e ha attinto dall’enorme bacino delle culture africane per dar vita a creazioni che hanno fatto anche molto discutere. Oltre alla chiacchierata collezione di Valentino della primavera-autunno 2016, anche il britannico Alexander McQueen ha fatto parlare di sé per aver disegnato una giacca che ricorda il kaba eritreo ed etiope, un capo d’abbigliamento usato nelle cerimonie. Ma non solo: nelle settimane passate la scelta di Dior di creare una linea di abbigliamento partendo dai tessuti Wax, trame africane per eccellenza, ha fatto molto discutere.

Uno degli abiti in perfetto African style. Screenshot dall’account Instagram @sikadesign

Al fine di combattere questa tendenza, stanno nascendo numerosi brand che fanno dei valori etici e identitari i loro baluardi. Si tratta di aziende nate sul territorio o, in altri casi, create da seconde generazioni: ne sono due esempi i brand ghanesi AAKS e Sika.

Entrambi abbracciano i principi della Fashion Revolution e se ne fanno bandiera: salari giusti, prodotti made in Ghana e soprattutto rispetto dell’identità e del concetto di appartenenza. Ma la lista è molto più lunga: altri esempi sono Kashie O e Kofie Ansah, entrambi designer ghanesi, ma anche Duro Olowo e Amaka Osakwe, stilisti nigeriani. Un ulteriore esempio è l’attività della stilista italiana Stella Jean, la quale si ispira ai tessuti originari dell’Africa Occidentale per dar vita ad abiti che rispettino le idee della moda etica che cita, senza derubare o svuotare.

Quello promosso dalle donne africane è uno stile che va ben oltre il semplice concetto estetico, ma che incarna valori sociali e morali, appartenenza culturale. In una sola parola: identità. Parafrasando le parole del sociologo e accademico Stuart Hall, l’identità è da considerare una produzione, più che un prodotto, quindi un continuo processo che non si conclude mai, bensì si rinnova continuamente.

L’identità è anche moda, che a sua volta deve rispettare i canoni di eticità e correttezza. Imparare a capire e a leggere un oggetto e il messaggio che veicola è la chiave necessaria per un rispetto maggiore e una conversazione che può creare ponti.
E sì, tutto questo passa anche dalla scelta di un tessuto.

Alessia Pacini

Nata e cresciuta a Pistoia, ho fatto di Milano la mia casa e di Londra il posto in cui sono diventata giornalista. Vivo con la valigia pronta, soprattutto quando la destinazione è il Ghana. Nella vita sono co-direttrice di Cosa Vostra, scrivo, leggo, viaggio e bevo Estathé al limone. Attualmente alla ricerca di un nuovo posto da poter chiamare casa.

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