23 Novembre 2024

Meglio prostitute che affamate. Report dall’Africa subsahariana

È la fame a decidere. L’angoscia di non aver nulla da portare a casa. E se resta solo il corpo, il proprio corpo, allora è quello che bisogna usare. La prostituzione in Africa è spesso questo: un bisogno estremo legato all’istinto di sopravvivenza.

Un brothel, un mercato, l’ufficio del capocantiere di una miniera, persino il fondo in ombra di una chiesa. Non importa dove, poiché sono le circostanze a decidere. Le analisi sulla prostituzione nel mondo parlano di oltre 42 milioni di prostitute ma è un numero approssimativo e risulta assai difficile avere cifre sui Paesi africani. I motivi sono diversi, uno di questi è che la maggior parte delle ragazze e donne che praticano la prostituzione non la considerano (e nei fatti non lo è) la loro principale attività. Si tratta invece dell’unica chance. Perché, come spiega Emma: “L’HIV ti ucciderà in vent’anni, la fame in due giorni”.

Emma è una delle centinaia di donne intervistate da un gruppo di giornaliste d’inchiesta africane che hanno pubblicato il dossier “The last resource. Risking death to feed your kids” [L’ultima risorsa. Rischiare la morte per sfamare i propri figli] a cura dell’African Investigative Publishing Collective. Un lavoro che apre uno scenario disperato ed eloquente sulla vita di migliaia di donne che si vendono una volta arrivate al gradino più basso.

I motivi che spingono alla prostituzione possono essere diversi. La maggior parte delle ragazze e donne che la praticano non la considerano (e nei fatti non lo è) la loro principale attività e continuano a svolgere anche i loro lavori ufficiali. Foto di Antonella Sinopoli, Kampala, Uganda

Odiano quello che fanno, dicono, ma cercano di conservare la propria dignità continuando a dedicarsi ai loro mestieri: sarte, venditrici al dettaglio, contadine, ma anche insegnanti e studentesse. Anche per difendersi da violenze e soprusi. Violenze che spesso arrivano da quegli stessi parenti che poi non si fanno scrupolo di usare quel denaro malamente guadagnato o dalle forze dell’ordine che ne abusano e le ricattano approfittando della loro condizione di fragilità. Molte hanno raccontato di doversi piegare alle richieste della polizia per non essere picchiate o arrestate.

Le donne incontrate vivono in comunità dove il guadagno medio giornaliero è di poco meno di due dollari al giorno, la soglia minima di povertà. Donne che fanno ricorso alla prostituzione saltuaria come mezzo per supplire all’assenza dei padri dei loro figli, che rimangono sole e senza sostegno (l’eredità passa in linea maschile) o che vogliono continuare gli studi nella speranza che un’educazione dia loro un futuro migliore.

Emma fa la parrucchiera e si vende quando non riesce a guadagnare nulla durante il giorno. Vive in Uganda, Paese tra i primi cinque del continente per l’empowerment delle donne e dove sono donne il 34% dei parlamentari. Ma qui, come altrove nell’Africa sub-sahariana, il gap tra la classe medio-alta e quella delle popolazioni rurali o che vivono ai margini delle città è sempre più ampio.

Il suo presidente, Museveni, in carica dal 1986, è noto per le campagne sull’astinenza per combattere l’AIDS, quelle contro i gay e le gonne corte. Politiche che non sono servite ad Abbo, una famiglia da mantenere e barista in un night club. “Una notte un uomo mi ha offerto 500.000 scellini (circa 140 euro). Ero contenta di guadagnare tanti soldi. Mi ha chiesto di non usare il condom e l’ho lasciato fare. Alla fine mi ha detto di mettere da parte quei soldi per la bara. Aveva l’HIV”. Vuoi il preservativo? Allora l’offerta è di un dollaro per trenta minuti di prestazione. È questa la legge del mercato del sesso dei poveri.

L’abbandono e la mancanza di cure da parte dei padri dei loro figli e le condizioni di vita rendono le donne e giovani ragazze spesso vulnerabili e disposte a una scelta che odiano. Foto di Antonella Sinopoli, slum di Kibera, Nairobi, Kenya

Ammalarsi è uno degli effetti collaterali di una guerra alla povertà combattuta ad armi impari, perché raramente se ne esce vincitori. E se non muori di AIDS ci sono le gravidanze non volute a mettere in pericolo queste donne. Abbondano ciarlatani e pillole di ogni tipo per provocare aborti, il risultato è che molte, moltissime, non torneranno a casa.

Accade che queste donne abbiano una doppia vita barcamenandosi tra i doveri di madre e l’attività nascosta. Anche se, riconoscono, si tratta di un segreto noto a tutti. Aissata, 23 anni, abita in una piccola provincia del Mali, ha lasciato una foto e il numero di telefono in locali e brothel della capitale Bamako. Così, quando la chiamano, prende un piccolo mezzo locale e si mette in viaggio. “Guadagno 50.000 CAF (equivalenti a 80 euro circa) ogni volta che vado lì” dice. Fatti i conti sono circa 200 euro al mese, cinque volte di più del guadagno di una famiglia media nel suo villaggio. Tante le ragazze che sperano di acquistare con il loro corpo un biglietto per il futuro.

Quelle più fortunate trovano uno “sugar daddy”, molto meglio che  “servire” molti uomini, dicono. Come è successo a Juliette, 22 anni, della regione del Katanga, Repubblica Democratica del Congo. Il suo “sugar daddy” ha 56 anni ed è dipendente di dogana. Lavoro che qui può diventare assai lucroso grazie all’attività di contrabbando dei minerali. Si prende cura di lei per tutti i suoi bisogni: casa, cibo, abiti e tasse scolastiche.

Juliette, come tante ragazze con la sua storia, viene da una delle regioni più ricche di risorse del Paese. Rame, cobalto, zinco, argento. Eppure oltre il 70% della popolazione di questa regione vive al di sotto della soglia di povertà. Suo padre è uno dei tanti che lavorano per la miniera di proprietà statale Gécamines, ma non riceve da mesi lo stipendio. Situazioni analoghe avvengono nelle miniere d’oro dello Zimbabwe o Sudafrica dove donne hanno raccontato di avere incontri saltuari con un “white man” o con responsabili delle estrazioni, categorie che rispetto alla gente del posto pagano molto meglio.

Altra storia drammatica è quella di Itoro, nigeriana, dello Stato Cross River. A 17 anni è rimasta incinta e il padre l’ha cacciata di casa. Ha trovato uno “sugar daddy”, un 52enne sposato che la mantiene all’università ad Abuja – lei dopo il diploma ha preteso di continuare a studiare. Il padre, quando ha visto che aveva una “posizione” l’ha perdonata e ora tutta la famiglia si è trasferita nella casa che il suo “old man” le ha messo a disposizione. Ed è dalla Nigeria, Benin City, capitale del traffico di esseri umani, che partono centinaia di ragazze ogni anno. Quelle che andranno a lavorare sui marciapiedi d’Europa o Stati Uniti.

Molte di loro sanno cosa andranno a fare e cercano in città il contatto con un protettore che possa aiutarle a lasciare il Paese. “L’aspettativa è di trovare un uomo in una città europea o in Canada. Io ho considerato il Canada perché ho terrore di attraversare il Mediterraneo” racconta Osaretin, 29 anni, cresciuta con la consapevolezza che presto o tardi si sarebbe dovuta impegnare per sostenere la famiglia.

In Zimbabwe lo chiamano “il commercio”. Aree privilegiate sono quelle delle miniere dove i clienti sono cercatori d’oro, guardie, polizia. Spesso non pagano con denaro. La moneta è sostituita da due litri di olio da cucina, pezzi di sapone, uno o due chili di farina.

Se sei donna non c’è lavoro per te” dicono molte delle donne intervistate. Ed esiste una “norma” –  in Ghana per esempio troppo spesso applicata – che ormai tutti conoscono: pagare un piccolo prezzo per un’assunzione. Una percentuale sullo stipendio per gli uomini; una notte o più nel letto di qualcuno per le donne.

Non c’è luogo che le risparmi, neanche le chiese. Sono frequenti sui giornali locali storie di scandali che coinvolgono pastori di una comunità e una o molte donne del luogo. Ma le accusate, quelle segnate per sempre sono loro, donne svergognate che svolgono “l’attività del diavolo”.

Kenya, non solo la povertà ma a volte anche condizioni di siccità prolungate portano molte giovani delle comunità rurali a trasferirsi in città per sostenere le famiglie. Foto Reuters

La prostituzione è legale in numerosi Paesi africani, Capo Verde considerata anche dagli italiani una sorta di paradiso del sesso, ma anche Senegal (dal 1969), Guinea Bissau, Eritrea, Etiopia, più recentemente il Kenya. Vuol dire avere documenti sanitari e aree prestabilite per esercitare l’attività. Altri, come il Rwanda, rimangono molto rigidi sulla questione mentre in altri ancora, come il Ghana, ci sono organizzazioni che si battono per la legalizzazione allo scopo di liberare le donne da pericoli e maltrattamenti.

Ma le leggi dei vari Paesi non ammettono in ogni caso lo sfruttamento della prostituzione e combattono sempre (almeno sulla carta) il traffico di esseri umani che invece (nei fatti) sta raggiungendo proporzioni allarmanti in Sudafrica, Uganda, Somalia. E a proposito della Somalia ogni analisi, anche superficiale, del fenomeno mostra che i Paesi dove ci sono conflitti o campi profughi sono quelli dove la prostituzione non ufficiale si sta espandendo come una malattia contagiosa.

Cosa potrà fermarla? Non i programmi delle ONG e nemmeno un maggior flusso di denaro per piani sociali. Tutto questo è stato fatto ed esiste, ma spesso ci si limita a tappare falle e i soldi rimangono ben stretti nelle mani degli oligarchi africani. Nel frattempo le donne restano merce di scambio. Uno scambio, per loro, in perdita. Resta allora la speranza di cambiamenti totali della governance. Una speranza, appunto.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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