“Sono rimasta incinta all’età di 9 anni dopo aver subito una violenza sessuale. Ho partorito la mia prima figlia a 10. I miei genitori mi hanno spinta a sposare il mio stupratore, che all’epoca aveva 20 anni. Ho avuto in tutto 6 figli prima di chiedere il divorzio (…). Nessuno mi ha protetta (…). Quando tua madre ti dice ‘devi sposarti’, tu lo fai perché sei solo una bambina. Ancora oggi [a 55 anni] faccio i conti con quella devastante esperienza”.
Nell’immaginario collettivo, la storia di Sherry Johnson – raccontata tra l’altro in un’intervista a Inside Edition – ha come scenario un Paese in via di sviluppo, dove i matrimoni infantili, come quelli forzati, sono tanto diffusi quanto cristallizzati da consuetudini culturali.
Invece Sherry è americana. E il suo personale inferno lo ha vissuto negli Stati Uniti.
I matrimoni precoci, infatti, non sono prerogativa esclusiva del Sud del mondo. La pratica esiste anche in Occidente. E spesso è connessa ai fenomeni migratori o alla presenza di sottogruppi etnici/religiosi con codici comportamentali propri.
Va anzitutto chiarito che con l’espressione “matrimoni precoci” si fa riferimento ad unioni in cui uno o entrambi gli sposi non hanno ancora raggiunto la maggiore età.
Il matrimonio precoce va poi distinto dal quello forzato. In quest’ultima ipotesi, ciò che rileva non è l’età dei soggetti bensì il loro consenso alle nozze.
Tuttavia, in molti casi le due fattispecie si sovrappongono tanto che le Nazioni Unite considerano il “child marriage” una forma di matrimonio forzato. Un minore “non è in grado di esprimere il proprio consenso in maniera piena, libera e informata”, si legge nella raccomandazione n. 31 del Comitato sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna. Un bambino, prosegue il documento, “non è fisicamente e psicologicamente pronto per la vita da adulto né può prendere decisioni consapevoli riguardo al matrimonio”.
Si tratta quindi di “una violazione dei diritti umani e di una pratica dannosa che inficia la capacità, soprattutto delle donne, di vivere la propria vita libera da ogni forma di violenza“, evidenzia il Consiglio ONU per i diritti umani.
Secondo i dati dell’UNICEF, ogni anno 12 milioni di ragazze si sposano prima di aver compiuto la maggiore età. 37.000 ogni giorno. Una ogni 2,5 secondi.
I Paesi più interessati sono senz’altro quelli della regione meridionale dell’Asia e dell’area del Sahel in Africa.
Ma c’è da dire che non esistono statistiche ufficiali riguardanti gli Stati occidentali, i quali, da un lato promuovono campagne volte a tutelare le “spose bambine” nel resto del mondo; dall’altro, non intervengono per impedire che la pratica si verifichi anche a casa loro.
Il Comitato sui diritti dell’infanzia, nel commento generale n. 4 del 2003, raccomandava agli Stati parti dell’omonima Convenzione di “riformare le loro legislazioni e prassi al fine di portare a 18 anni l’età minima per il matrimonio a prescindere dal consenso parentale”, così da garantire ai minori tutte le misure speciali di protezione riconosciute dal diritto internazionale pattizio.
Una raccomandazione simile era già stata espressa, nel 1994, dal Comitato sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (commento generale n. 21).
Le normative dei Paesi occidentali, però, continuano a non rispettare gli standard internazionali nella misura in cui prevedono una serie di scappatoie che finiscono con il rendere legittime le unioni precoci.
Negli Stati Uniti manca una legge federale sull’età minima necessaria per contrarre matrimonio. Alcuni Governi locali l’hanno fissata a 18 anni stabilendo al contempo delle deroghe. In ben 48 Stati federati, infatti, previo consenso dei genitori o autorizzazione del giudice, un minore può sposarsi. Il Tahirih Justice Center rileva che, negli USA, tra il 2000 e il 2015 oltre 200.000 ragazze al di sotto dei 18 anni sono convolate a nozze.
Nel contesto europeo, la situazione, sempre dal punto di vista legislativo, non è troppo diversa. Ad eccezione di Germania, Danimarca, Olanda e Svezia, in tutti gli altri Stati un minore può sposarsi in virtù dell’autorizzazione dei genitori o di una pubblica autorità.
In alcuni Paesi, l’età minima non è proprio regolamentata. In Grecia o in Francia, per esempio, anche un bambino di 10 anni potrebbe contrarre matrimonio in presenza di “gravi motivi”.
In altri, invece, quantomeno è necessario avere 15-16 anni per accedere alla vita coniugale. Per il codice civile italiano (art. 84), un sedicenne può sposarsi con l’avallo di un giudice qualora sussistano due requisiti: la presenza di gravi motivi (di solito una gravidanza) e la maturità psicofisica. I genitori possono opporsi all’unione ma non impedirla, a meno che il Tribunale dei minori non accolga i motivi di opposizione.
Video tratto dal canale YouTube UNICEF
I pochissimi studi istituzionali finora condotti in materia di matrimoni precoci nel vecchio e nel nuovo continente non offrono un quadro compiuto sulle proporzioni e caratteristiche del fenomeno. Questo perché sono stati svolti in un’ottica culturale, che prende in considerazione solo specifiche minoranze ovvero comunità di immigrati.
Tale impostazione non corrisponde necessariamente a quanto poi accade nella realtà.
“Ho visto matrimoni infantili coinvolgere quasi tutte le culture e le religioni americane: comunità cristiane, ebraiche, musulmane e laiche”, spiega Fraidy Reiss, fondatrice di Unchained at last, ONG statunitense che si batte per porre fine ai matrimoni infantili e forzati negli USA. “In base alla mia esperienza – prosegue – i genitori che decidono di far sposare i loro figli minorenni sono motivati da tradizioni culturali o religiose, dal desiderio di controllare il loro comportamento sessuale; da ragioni economiche o da problemi legati all’immigrazione“.
In Europa, rileva un report del Comitato sull’eguaglianza e la non discriminazione del Consiglio d’Europa, i matrimoni infantili hanno sia una dimensione internazionale che coinvolge la seconda generazione di immigrati provenienti soprattutto da Pakistan, Bangladesh, Somalia e India nonché i rifugiati siriani; sia una dimensione statale legata a gruppi nazionali, etnici e religiosi residenti in un determinato territorio europeo.
Nella sua dimensione internazionale – e quindi nel caso degli immigrati – matrimonio precoce significa rispetto delle proprie origini culturali o religiose. A volte, le nozze sono percepite come uno strumento per garantire la sicurezza economica della donna. Ma spesso aprono la porta ad abusi fisici, psicologici e sessuali. E hanno un impatto devastante sulla salute femminile a causa di rapporti sessuali consumati in età prematura e di gravidanze accolte in corpi troppo acerbi.
“Di solito mi stuprava in salotto o in camera da letto (…). Era come se fossi la sua scarpa e mi indossava quando ne aveva voglia (…). Mi ha fatto credere che i miei genitori amassero lui più di me (…). Mi ha fatto il lavaggio del cervello convincendomi che avrei provocato una grande vergogna alla mia famiglia se avessi divorziato da lui“. Banaz Mahmod, inglese di origini curde irachene e sposa a 17 anni, aveva rilasciato questa testimonianza alla polizia britannica tre mesi prima di essere uccisa, appena 20enne, dalla propria famiglia per essersi innamorata di un altro uomo.
Nella sua dimensione nazionale, la pratica, secondo l’UNFPA (United Nations Population Fund), è presente in modo significativo nell’Est e nell’area balcanica. L’incidenza, dicono gli esperti, è aumentata in seguito al crollo dei regimi comunisti e ai conflitti che ne sono derivati nell’ex Jugoslavia.
Sebbene i fattori che determinano i matrimoni precoci variano da Paese a Paese, l’UNFPA traccia alcuni aspetti comuni. In particolare: la diseguaglianza di genere, la marginalizzazione sociale ed economica di alcuni gruppi sociali, l’identità religiosa e da ultimo, non certo per importanza, la povertà. I matrimoni infantili sono più comuni nelle aree rurali, dove sussistono condizioni di estrema povertà e bassissimi livelli di istruzione.
Le ragazze appartenenti alle comunità rom sono tra le più esposte alle unioni precoci. I dati dell’Agenzia UE per i diritti fondamentali (FRA) mostrano che negli 11 Paesi membri in cui sono presenti dette comunità (Bulgaria, Repubblica Ceca, Francia, Grecia, Italia, Ungheria, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Spagna) circa il 2% delle bambine si sposano tra i 10 e 15 anni mentre il 16% tra i 16 e i 17 anni.
L’Associazione 21 Luglio, nel 2017 ha svolto un’inchiesta all’interno delle baraccopoli romane. Dall’indagine emerge che il persistere della pratica, in quello specifico contesto, è soprattutto dovuto al valore attribuito alla verginità nonché alla pressione sociale.
“Il matrimonio – si legge nel documento – si configura come lo spazio considerato opportuno per la deflorazione di una ragazza, come il contesto legittimo in cui le donne dovrebbero vivere la prima esperienza sessuale”. Infatti, una madre rom dice: “se mia figlia perdesse la verginità starei male, malissimo”.
Parimenti, il condizionamento del gruppo è un elemento molto forte nella scelta matrimoniale. Una giovane racconta: “a 12 anni mi confrontavo con gli altri che si sposavano e pensavo: ‘E io?!’ Avevo paura di restare da sola, di sentirmi diversa”. Dal matrimonio, peraltro, deriva una sorta di prestigio sociale. “È bello sposarsi così ti fai vedere che sei bella, che sei brava, che sei amata, voluta”, sostiene un’altra intervistata dall’Associazione.
Le Nazioni Unite, nel 2016, hanno avviato un’iniziativa volta a sradicare il fenomeno dei matrimoni infantili, in ogni parte del mondo, entro il 2030 e proteggere così i diritti di milioni di bambine vulnerabili.
Nonostante i numeri siano in calo, a livello globale, ancora oggi troppe bambine vengono private della loro infanzia e delle loro legittime aspirazioni a una vita migliore.
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