La fotografa bambinaia che fermava la vita ma restò nell’ombra
Un indovinello, avvolto in un mistero, dentro un enigma.
Cosa spinge una persona, una donna, ad ammucchiare scatoloni pieni di roba (e collezioni varie) in tutta la vita? Cosa la spinge a scattare circa 100.000 fotografie nel corso della sua esistenza? E cosa, ancora, a tenersele per sé, chiuse in centinaia di quegli scatoloni, e molte delle quali ancora in attesa di essere sviluppate? Sono domande retoriche.
Una risposta , una sola univoca risposta non l’avremo mai. Ma certo è interessante il modo in cui lei, la donna di cui parliamo, ha deciso di vivere la sua vita e di farne un’opera d’arte. Perché è di questo che alla fine si tratta. Aver fatto della propria vita (e nella propria vita) qualcosa di diverso, assolutamente originale, unico.
Lei si chiamava Vivian Maier (1926-2009), nata da madre francese e padre austriaco nel Bronx di New York. Una vita che definiremmo solitaria la sua. Certamente eccentrica. Per vivere fece sempre la bambinaia, cambiando case e quartieri. E ogni volta “imponendo” ai datori di lavoro la presenza delle sue scatole. Ma non pensò mai di utilizzare la fotografia come mestiere.
La fotocamera rappresentava per lei lo sguardo sul mondo, l’osservazione, il coinvolgimento, anche. I soggetti di strada saranno sempre il suo focus principale. Un immedesimarsi in una realtà difficile, spesso ai margini, sempre in bilico tra la sopravvivenza e la speranza. Ma anche una testimonianza del carattere delle città e dei suoi abitanti, passando da un ambiente sociale all’altro.
Per anni si portò dietro i suoi apparecchi, prima una Kodak Brownie e successivamente nuovi modelli. Praticamente i soldi dello stipendio che guadagnava crescendo bambini degli altri (non si sposò mai e non ebbe figli) li spendeva in questa sua passione/amore. Appena le fu possibile cominciò anche a svilupparsele le foto, nei piccoli bagnetti annessi alla sua stanza. Ma molte delle immagini catturate rimanevano lì, nei rullini. E lei, infatti, non le vide mai.
Fu solo un paio d’anni prima che morisse che qualcuno venne in possesso di alcune delle sue scatole, nel frattempo messe all’asta. Vivian è stata anche un homeless e comunque non sapeva dove portarsele quelle scatole e bauli sparsi tra New York e Chicago.
Spuntarono anche le centinaia di rullini. E così, stampa dopo stampa, si cominciò a costruire la natura artistica di queste immagini. Immagini che oggi rientrano nel novero della Street Photography. Nessuno le insegnò la tecnica. Forse quello che la intrigava – come è stato detto – è vedere fino a che punto riusciva ad avvicinarsi al volto, alla vita, allo sguardo di un altro.
Dal momento della scoperta dei suoi scatoloni e bauli Vivian ha cominciato ad esistere.
Libri, retrospettive (in Italia in corso a Pavia), documentari, film, interviste a chi l’ha conosciuta. La domanda retorica era se si tratta di quello che desiderava e non aveva avuto il coraggio di cercare. Impossibile, appunto, rispondere. Più facile è capire la voglia di farla oggi venire allo scoperto, raccontarla, radiografare la sua opera e forse ancor di più la sua vita.
È difficile ammettere che si possa amare quello che si fa senza esibirlo, che si possa godere dell’attimo (il click di un otturatore) per sentire appagato il proprio desiderio, che si possa preferire l’anonimato alla gloria. Conservava ossessivamente tutto perché sperava inconsciamente che un giorno sarebbe venuto tutto alla luce? O per una tensione compulsiva? Fotografava perché amava raccontare e scoprire o per colmare un profondo abisso di solitudine? Sono tutte domande a cui forse neanche lei stessa avrebbe saputo rispondere. Oppure non le sarebbe interessato farlo.
Noi che amiamo mostrare e dare risalto a ogni singolo minuto della nostra giornata – anche il più irrilevante – con Vivian Maier abbiamo qualcosa su cui riflettere. Senza voler necessariamente arrivare a una risposta definitiva, ma almeno riflettere. E cercare di capire, rivestendo un po’ i panni del critico d’arte – se quello che questa artista della fotografia ci sta mostrando sono semplicemente immagini della società che incrociava nelle sue passeggiate oppure è il suo sguardo profondo sulle cose. Il tentativo, anche, di catturare se stessa negli altri.
C’è una sua frase, sul sito ufficiale di Vivian Maier, che ben esprime il concetto dell’impermanenza di tutte le cose, della vita come di una fotografia. Che, a pensarci bene, una volta scattata è comunque morta. Ha fissato un attimo che non tornerà mai più. Perché anche lo scatto immediatamente successivo è già un’altra storia. E se allora Vivian volesse semplicemente fotografare la vita? Fermarla, goderne, almeno per un attimo, per lasciarla poi al suo destino.
Immagino che nulla sia destinato a durare per sempre. Dobbiamo far posto ad altre persone. È una ruota. Tu sali e devi arrivare fino alla fine. Poi un altro ha la stessa opportunità di arrivare alla fine e così via.
Bella storia. Secondo me fotografava per vedere, non per raccontare o far vedere o mostrare. Ma per vedere meglio la realtà, inquadrandola se vogliamo usare un termine tecnico. Un modo per dare senso alle cose che vedi.