Christian Rocca, regolamentare Internet per salvare la società

Il 26 marzo, il Parlamento Europeo ha approvato la nuova Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale (qui il testo finale della Direttiva) con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti.

Il progetto di direttiva punta a far sì che le grandi piattaforme di Internet e gli aggregatori di notizie paghino creatori di contenuti per l’uso che se ne fa, contrariamente a quanto avvenuto fino ad ora.

Dalla direttiva sono esclusi tutti quei soggetti che non hanno scopo di lucro, come Wikipedia e altre piattaforme piccole e medie, mentre il maggiore impatto riguarderà colossi del web come YouTube, Google o Facebook. 

Eppure, la direttiva continua a far discutere, spaccando l’opinione pubblica fra coloro che vedono all’orizzonte una minaccia sempre più concreta alla libera circolazione dei contenuti e quanti invece salutano  positivamente la direzione di marcia intrapresa dall’Europa per proteggere i diritti di chi produce contenuti giornalistici e quindi anche degli utenti.

Fra i sostenitori si è schierato anche Christian Rocca, autore del libro appena uscito per Marsilio Chiudete Internet – Una modesta proposta, il quale ha recentemente scritto che “le Istituzioni europee, e a poco a poco anche quelle nazionali, sembrano essersi stancate di un sistema senza regole che archivia le vecchie industrie tradizionali e crea una ricchezza immensa per pochi monopolisti della Silicon Valley che non si curano di pagare le tasse dove questa fortuna viene prodotta”.

A Christian Rocca abbiamo rivolto qualche domanda, a partire dal suo ultimo libro.

Perché ha deciso di scrivere il libro “Chiudete Internet”?

Perché penso che sia arrivato il momento di fare un bilancio degli aspetti meno radiosi della rivoluzione digitale. Internet è la più grande invenzione della nostra epoca, ha migliorato e arricchito la nostra quotidianità e ci ha offerto grandi opportunità di conoscenza, di divertimento e di business, ma ora che i social vivono un’adolescenza turbolenta bisogna considerare anche gli impatti devastanti sulla società, sul dibattito pubblico e sulla democrazia. Se non li affrontiamo, se non rompiamo i monopoli dei giganti della Silicon Valley, se non difendiamo la libera concorrenza, se non proteggiamo la privacy, se non salvaguardiamo  i diritti d’autore, se non cambiamo il modello di business delle piattaforme digitali, insomma se non regolamentiamo Internet come in passato, saranno guai ulteriori rispetto al disastro morale e civile che stiamo vivendo in questo momento storico.

Quale è stato il dibattito occidentale, mentre si ponevano le basi della rivoluzione digitale?

Caduto il comunismo, un sistema criminale che teneva in ostaggio i suoi sudditi e minacciava gli avversari, le democrazie occidentali hanno pensato che la storia fosse finita, che nessuno avrebbe mai potuto fermare l’ineluttabile progresso liberale dell’umanità. In nome di questo ottimismo liberale, ma confortato dai fatti, si è allargata la sfera delle democrazie, due miliardi di persone sono uscite dalla povertà estrema, la ricchezza è stata redistribuita dall’Occidente all’Oriente, si è progettato il futuro con le autostrade dell’informatica, cioè con l’Internet civile e universale. È quello che io chiamo l’algoritmo dell’Occidente, un grande progresso universale che oggi mostra notevoli segni di stanchezza ed è sotto attacco anche per errori suoi. Sarebbe necessario riprogrammarlo, senza dimenticare che le alternative sono comunque peggiori.

E in Italia, alle radici dell’attuale populismo digitale, chi era il popolo dei fax e perché è interessante ripercorrere questa storia?

Giuliano da Empoli scrive che l’Italia è la Silicon Valley del populismo, e ha ragione. Inventiamo noi tutte le varianti del populismo. L’ultima è il governo populista, ma nel 1993 quando non servivano troll, algoritmi e bot russi ci eravamo inventati un fantomatico “popolo dei fax” che protestava via facsimile contro la classe politica, contro l’establishment e contro l’élite del Paese. Il “popolo dei fax” era il commentatore rancoroso di allora, l’antecedente della diretta indignata su Facebook. Bastava mandare direttamente un fax, per poter dire la propria, per cantarla giusta al potere. Quel popolo dei fax trovava sfogo in Antonio Di Pietro, il cui marketing politico è stato gestito dalla Casaleggio Associati, e nella Lega di Umberto Bossi e del consigliere comunale Matteo Salvini. Il “popolo dei fax” aveva insomma la stessa composizione politica, sociale e popolare della maggioranza di governo populista uscita dalle urne italiane del 2018. Le stesse istanze, lo stesso lessico, lo stesso risentimento, la stessa scorciatoia digitale.

Qual è oggi l’urgenza e la necessità di cambiare il modello di business della Rete per salvaguardare la società aperta?

Il modello di business di Internet e dei social ha contribuito in modo decisivo a smantellare quei corpi intermedi della società che per un paio di secoli hanno fatto da filtro tra il popolo e il potere, dai partiti ai sindacati, dai giornali alla famiglia tradizionale. La retorica falsa dell’uno-vale-uno, la discriminazione della conoscenza, la creazione industriale di fake news e l’avvento dell’era della post verità hanno indebolito il concetto di opinione pubblica e la possibilità di avere un discorso civile, sottraendo quindi alla democrazia gli ingredienti necessari per funzionare in modo decente. Il modello di business delle piattaforme digitali, inoltre, rende le società aperte e le democrazie liberali particolarmente vulnerabili agli attacchi di forze interne ed esterne autoritarie, illiberali e promotrici del caos. Non esiste niente di più urgente e necessario che regolamentare Internet, è la grande sfida della nostra epoca.

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

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